Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  agosto 04 Lunedì calendario

Rinaldo Gianola per ”l’Unità” Mentre la politica non riesce a realizzare riforme istituzionali ed elettorali, nonostante la proliferazione di appelli al dialogo, il mondo della finanza dimostra, al contrario, una capacità di decisione, di intervento sui gangli vitali delle sue strutture più potenti che davvero sorprende

Rinaldo Gianola per ”l’Unità” Mentre la politica non riesce a realizzare riforme istituzionali ed elettorali, nonostante la proliferazione di appelli al dialogo, il mondo della finanza dimostra, al contrario, una capacità di decisione, di intervento sui gangli vitali delle sue strutture più potenti che davvero sorprende. La svolta neo-bonapartista in Mediobanca, illustrata dal presidente Cesare Geronzi in un’intervista al Sole-24 Ore, è il preludio a ricadute sulle province dirette dalla stessa Mediobanca (ad esempio il Corriere della Sera). Questa svolta, di riflesso, si ripercuoterà su larga parte del sistema economico e finanziario, oggi turbato dalla crisi, dall’instabilità di colossi come Alitalia e Telecom, dall’incerto assetto delle Assicurazioni Generali e dai veleni sparsi ad arte da spioni e truffatori.Ed è facile prevedere che con protagonisti Geronzi e il capo di Intesa SanPaolo, Giovanni Bazoli, che forse dovranno andare d’accordo nonostante le incomprensioni del passato, assisteremo in autunno a una inedita bicamerale del capitalismo italiano non per discutere di regole, bensì di alleanze e affari.Il potere finanziario non pare aver timore di smentirsi, di rettificare quelle che un anno fa venivano presentate come riforme epocali, innovazioni tali da suscitare grida di gioia di severi commentatori dei giornali di lor signori, e che oggi vengono archiviate come un fastidioso capriccio di alcuni. La decisione di Mediobanca di abbandonare il sistema di governo duale (quello che rappresenta gli azionisti nel Consiglio di sorveglianza eletto dall’assemblea e affida ai manager il Consiglio di gestione) per tornare a un sistema tradizionale (tutti i poteri al Consiglio di amministrazione) non è un provvedimento tecnico, ma rappresenta, invece, una scelta politica e oligarchica, oggi ben impersonificata da Geronzi, che non teme nemmeno lo scontro, la critica severa verso i propri manager, nè una certa durezza nei confronti di altri colleghi banchieri o addirittura la Banca d’Italia. La svolta estiva in Mediobanca non deve sorprendere perchè, piaccia o no, è realizzata nel solco della tradizione: è in realtà la riscoperta del passato, la valorizzazione della filosofia cucciana delle «azioni si pesano e non si contano», dell’esercizio personale del potere che neutralizza o limita i conflitti di interessi, anche se è arduo identificare in Geronzi un nuovo Enrico Cuccia. Ma Geronzi, «l’unico banchiere non di sinistra» secondo una definizione di Berlusconi, ha il merito di parlar chiaro, di mettere i piedi nel piatto e di smuovere le acque limacciose di un capitalismo di relazione incapace di alzare la testa. Le soprese, dopo l’affondo del banchiere romano, forse sono due. La prima: non si vede chi possa davvero ostacolare il disegno di Geronzi. Alcuni potrebbero, forse, contare su Alessandro Profumo, ma quanto il gioco si fa duro il capo di Unicredit, chissà perchè, scompare dalla scena. La seconda novità è storica: per la prima volta dal dopoguerra i ribaltoni in Mediobanca non vedono come protagonista la Fiat o qualcuno della famiglia Agnelli. Questo è il vero segno riformatore di Sergio Marchionne che un anno fa decise di vendere la partecipazione in piazzetta Cuccia. Se decidesse di uscire anche dal Corriere della Sera sarebbe il candidato favorito al Nobel del capitalismo tricolore. La prima prova della bicamerale sarà l’Alitalia. La disponibilità dichiarata dal presidente di Mediobanca a prendere in esame il dossier della compagnia di bandiera può rappresentare un sostegno al progetto del governo e soprattutto può alleviare il ruolo di Intesa SanPaolo. Quest’ultima, sotto l’azione dell’amministratore delegato Corrado Passera, sta trasformando il suo ruolo tecnico di advisor in un ruolo ”politico” e oggi, per l’opinione pubblica, il piano di salvataggio e rilancio di Intesa SanPaolo è, nei fatti, il piano del governo. Anzi il rischio è che se dovesse fallire, per qualsiasi ragione, il progetto della soluzione italiana opposizione, dipendenti e sindacati potrebbero attribuire la responsabilità non a Berlusconi e a Tremonti, cui fa comodo giocare con la sponda bancaria, ma a Intesa SanPaolo. Ecco perchè la partecipazione della Mediobanca di Geronzi, che concede parole di pubblico apprezzamento al ministro dell’Economia, garantirebbe la divisione del rischio davanti agli effetti di un piano di cui per ora si sa soprattutto che perderanno il posto dalle 5000 persone in su e che i contribuenti saranno chiamati a pagare. Passera, di cui Eugenio Scalfari ha ricordato il suo passato alla Olivetti e questo potrebbe aver suscitato qualche perplessità tra i dipendenti Alitalia viste come andarono alla fine le cose per la gloriosa fabbrica di Ivrea, ha messo in campo tutto il suo prestigio e la sua professionalità. Ma se va male rischia che il placido Bazoli e il tremendo Salza non gli regalino il panettone di Natale. Un altro che vuole licenziare 5000 lavoratori senza spiegare il motivo, se non per una generica esigenza di «efficienza», è Franco Bernabè. Da quando è tornato alla guida di Telecom Italia il titolo ha perso oltre il 60% e circolano, tra la Borsa e i palazzi della politica, le voci più strane sul futuro. C’è chi parla di un’opa strisciante della spagnola Telefonica, di uno sfaldamento del gruppo di comando di Telco (la società che ha il controllo di Telecom) da cui uscirebbero i Benetton, fino alla sostituzione a breve dei vertici. Geronzi ha promesso che si occuperà della questione e ha duramente criticato i manager operativi di Mediobanca, Pagliaro e Nagel, per aver incontrato la scorsa settimana Bernabè. Inoltre il leader di Mediobanca ha detto che i problemi di Telecom nascerebbero da una privatizzazione affrettata. Può darsi. Ma ormai sono passati dieci anni dall’uscita dello Stato e ci sono state tre gestioni private: quella del ”nocciolo duro”, poi Roberto Colaninno e quindi Marco Tronchetti Provera. Ora c’è un nuovo gruppo di controllo e Bernabè alla guida. Dovremmo rimpiangere Ernesto Pascale e i suoi boiardi? Di Telecom, purtroppo, si parla soprattutto per l’inchiesta sugli spioni. La Procura di Milano ha chiuso le indagini, escludendo responsabilità personali di Tronchetti Provera e di Carlo Buora. I magistrati hanno imputato solo la responsabilità oggettiva alle aziende Pirelli e Telecom perchè non avrebbero adeguatamente controllato l’ex capo della security Giuliano Tavaroli. Forse ad alcuni può non piacere, ma l’inchiesta si è chiusa e Tronchetti Provera non è stato indagato. Stop. Certo se l’ex presidente dei Telecom fosse stato inquisito l’ estate sarebbe stata ben più eccitante per i giornali. Ma così non è: anche Tronchetti, per certi versi, è una vittima delle trame di Tavaroli. L’industriale milanese può aver peccato di ingenuità (ed è certo grave per un imprenditore della sua fama), ma secondo i giudici non è il capo degli spioni. Meglio ingenuo che mascalzone. Marco Tronchetti Provera e Giuliano tavaroli Foto L’Espresso Queste conclusioni, che attendono il passaggio processuale, sono state però subito contestate dallo stesso Tavaroli, teorico della doppia o forse tripla verità, che ha utilizzato un’ampia intervista su Repubblica per spargere veleni, in particolare contro esponenti di primissimo piano dei ds che avrebbero incassato tangenti per la scalata dell’Olivetti a Telecom. L’operazione ha ricordato un’altra esclusiva dei giornalisti investigativi di Repubblica: il famoso scandalo Telekom Serbia, denunciato in prima pagina il 16 febbraio 2001 con lo splendido titolo ”Le tangenti di Milosevic”. Il caso Telekom Serbia non è mai esistito. Era una montatura. Ma la vicenda fu strumentalizzata dalla destra nella campagna elettorale del 2001 e cavalcata dalla Commissione parlamentare d’inchiesta. Purtroppo furono necessari quattro anni di indagini della magistratura di Torino per restituire l’onore e la rispettabilità a manager e imprese ingiustamente accusate. Ora la storia pare ripetersi con il fondo Oak. Nel caso delle ultime ”rivelazioni” di Tavaroli è toccato all’editore Carlo De Benedetti telefonare a imprenditori e politici colpiti dagli schizzi di fango per tentare di giustificare lo scoop del suo giornale. P.S. Giovanni Consorte, ex presidente di Unipol, tra chiusure d’inchieste e processi, si è fatto una banca. Circa 160 investitori gli hanno messo a disposizione milioni di euro per questo progetto. In autunno lo presenterà. La Procura di Milano gli ha restituito 50 milioni di euro che erano stati bloccati. Sono soldi suoi. In Banca d’Italia, intanto, si starebbero rivedendo i criteri di onorabilità per gli amministratori delle banche. Nella passata legislatura via Nazionale inviò una lettera al ministro Padoa Schioppa per valutare criteri più severi. Ora l’argomento sarebbe tornato di attualità. Non sappiamo se Consorte avrà l’onorabilità e in questo caso andrebbe riscritta la storia delle scalate del 2005. Ma certo Mario Draghi manterrà un criterio uniforme per tutti. Perchè non si può pensare che Geronzi (condannato in primo grado per il crac di Italcase, rinviato a giudizio per Cirio e Parmalat) possa ballare la rumba in piazzetta Cuccia mentre altri, ai quali va esteso il diritto della presunzione d’innocenza fino al giudizio finale, devono fare i salti mortali per aprire uno sportello bancario.