Libero 27 luglio 2008, Libero 27 luglio 2008, 27 luglio 2008
«Ho corso per 160mila chilometri e il mio doping era solo birra rossa». Libero 27 luglio 2008 Gelindo Bordin, incontrarsi con lei è quasi un’impresa
«Ho corso per 160mila chilometri e il mio doping era solo birra rossa». Libero 27 luglio 2008 Gelindo Bordin, incontrarsi con lei è quasi un’impresa. Appuntamenti, viaggi, riunioni, clienti: perdoni la battuta, ma è sempre di corsa. «Professionalmente sì. Sono direttore del marketing per la Diadora. Gestisco un ufficio di cinque persone, giro per il mondo e mi occupo di tutti i nostri prodotti. Sto facendo una discreta carriera». E la corsa vera? «Per 16 anni non ho più fatto nemmeno cento metri». Scusi, scusi. Intende che una volta smesso è riuscito a staccare del tutto? «Ho finito nel ”93 con una mezza maratona, la Ostia-Roma. Poi basta, mi sono buttato nel lavoro. Lo scorso aprile invece ho corso la maratona di Torino, manifestazione organizzata con la Diadora per celebrare i 20 anni della medaglia». E perché quello sguardo sofferente? «Mi sono preparato per due mesi e mezzo, ho perso 7 kg. stata dura, il corpo si era dimenticato tutto. E poi non faccio certo una vita da atleta: mi piace fumare e bere qualche birretta». Ai tempi d’oro, invece... «Mi piaceva fumare e bere qualche birretta». Oplà. «Era il mio doping. Al termine degli allenamenti lunghi, uscite di 50 km, lo sballo era sedersi con i compagni e gustarsi un paio di medie con gazzosa. Vado matto per le rosse, la Ceres, la Leffe. Una birra al giorno leva il medico di torno, è il modo migliore per rilassarsi. Lo era anche prima delle gare. Non ci crederà, ma mi sono fatto una piccola anche la sera prima della maratona di Seul...». Urca, poi approfondiamo. Intanto subito una curiosità: diceva che qualche mese fa ha partecipato alla maratona di Torino. Ha mai fatto il calcolo di quanti km ha corso nella vita? «Centosessanta mila». E il fisico di Gelindo Bordin, dopo 160 mila km, come sta? «Solo un dolore al menisco, il resto è integro. Sono alto sempre 1 metro e 93. Nell’88 pesavo 64 kg, ora sono 76. I battiti a riposo erano 32, adesso 45». E in gara? «Centosettanta costanti, questo era il mio segreto. Dopo due minuti arrivavo a quella frequenza e la mantenevo fino alla fine». A Torino come è andata? «Esperienza particolare, ho fatto fatica a tenere ritmi che per me un tempo erano normali, ho concluso in 3 ore, 5 minuti e 27 secondi. Ho capito la sofferenza degli amatori e anche lo spirito: fino ai 15 km tutti parlavano. Poi, sempre meno parole. Infine tutti zitti e molti fermi». Bordin, ora che ha ripreso a correre ha intenzione di continuare? «Mi hanno invitato per il 2 novembre a Seul. Sono stato scelto come simbolo di quella Olimpiade, vogliono celebrarla 20 anni dopo». Già, 20 anni. Ci pensa? «Mi ci fanno pensare gli altri, ricordi, interviste, telefonate». La domanda più ricorrente? «’Che emozione si prova a vincere le Olimpiadi?”». Risposta? «Non c’è risposta. Indescrivibile, inspiegabile. Un anno di lavoro racchiuso in pochi metri». Poi raccontiamo bene quell’impresa. Intanto una corsa all’indietro. Come era il piccolo Gelindo? «Nasco a Lumignano, provincia di Vicenza, il 2 aprile 1959. Papà e mamma sono contadini, abitiamo in campagna, cascina, animali, natura. Per andare a scuola, alle elementari, devo camminare per 3 km, mi abituo subito alle distanze». E si appassiona alla corsa. «Per niente. Il mio sport preferito è il calcio, faccio il portiere e divento tifoso del Milan. Finché un giorno, in terza media, dimentichiamo il cambio nell’ora di ginnastica e il professore, per penitenza, ci fa correre con i jeans, quattro giri del campo da calcio, circa 1 km e 600 metri». Arriva primo. «Stacco tutti. Poco dopo partecipo a una corsa paesana e faccio il vuoto, così Giacomo Della Pria, allenatore di atletica, mi propone di entrare a far parte del G.S. Montegalda. E lascio il calcio, purtroppo». Perché purtroppo? «Amo il pallone. Chissà, magari avrei fatto carriera...». Prime corse, primi successi. Vince il campionato italiano allievi di maratonina nel ”76, nel ”78 va in nazionale di cross e nel ”79 è a Città del Messico. «Si disputano le Universiadi e in tribuna assisto dal vivo al record del mondo di Mennea. Da brividi. Ma mi ammalo». Cioè? «Prendo un virus misterioso e al ritorno in Italia dimagrisco, deperisco, se provo a correre svengo. Devo stare fermo un anno, niente più atletica». Quando rientra, però, è ancora più forte. E sceglie la sua specialità definitiva: la maratona. «Sono portato per le lunghe distanze, capisco che è la competizione in cui posso diventare forte». 42,195 km e poco più di due ore di gara. Bordin, ma cosa pensa un atleta in tutto questo tempo? «Pensi molto poco, di una maratona il mio cervello ricorda al massimo 40 minuti. Mentre corri guardi gli avversari, osservi, valuti. L’importante è non stare concentrati su se stessi, altrimenti anche un piccolo dolorino diventa un dramma. Le crisi vere arrivano sempre dopo il trentacinquesimo km». Non si scandalizzi per la domanda da incompetente: se in queste due ore c’è bisogno di andare in bagno? «Fai pipì mentre corri, non c’è tempo per fermarsi. Anche per altri tipi di bisogni si fa tutto in movimento: a Boston, una volta, uno davanti a me se l’è fatta addosso dopo soli 5 km. E nessuno si è scandalizzato. In gara si è animali, ci sei solo tu e il tuo corpo». Torniamo ai successi. Gelindo Bordin vince a Milano nel 1984, poi settimo posto in Coppa Europa nel 1985 e dodicesimo nella Coppa del Mondo a Hiroshima, medaglia d’oro agli Europei nel 1986, terzo ai mondiali di Roma nel 1987 e poi... Seul, Olimpiadi del 1988. «Arrivo in Corea, fotografi, giornalisti, tifosi, tutto da sogno per la mia prima Olimpiade. Poi salgo sul taxi e mi sembra di impazzire: puzza di aglio ovunque. E io sono allergico...». Urca, che inizio. «Per fortuna al Villaggio Olimpico ognuno ha i propri cuochi, e si mangia italiano». A proposito, come è il Villaggio? «Esperienza bellissima, vivi con i più grandi atleti del mondo». Qualche nome, qualche aneddoto. Carl Lewis. «Sempre stato un suo tifoso, straordinario. E poi misterioso, con questo fare ambiguo e la sessualità dubbia. Però circondato sempre da belle donne». Il suo grande avversario era Ben Johnson. «Sono arrivato da pochi giorni, siamo a cena a Casa Italia e ci annunciano che è positivo al doping. Un dramma per tutti, per l’immagine delle Olimpiadi. E iniziano le paure». In che senso, scusi? «Erano convinti ci fosse il pericolo di venir dopati da sconosciuti per sabotare i Giochi, dunque era vietato bere in giro, si doveva prestare attenzione al cibo e bla bla bla». Beh, ma Ben Johnson... «Nessun dubbio, si dopava da solo». Bordin, risposta secca. Esiste il doping? «Sì. Conoscevo atleti che a Los Angeles praticavano l’autoemotrasfusione. Funzionava più per le distanze medie, però. Se hai un motore potente bruci anche molto e per la maratona non va bene». Gelindo, parliamo ancora del Villaggio Olimpico. Lei era uno riservato o un compagnone? «Ero matto, tutte le sere in giro con quelli dellla pallavolo, Zorzi, Lucchetta. Birre e discoteca. E poi gavettoni con quelli del calcio, Tacconi, Galderisi». Strano, di solito voi dell’atletica non amate particolarmente i calciatori miliardari. «L’ho sempre sostenuto: il calcio è lo sport che porta soldi allo sport». Piccolo pettegolezzo: alle Olimpiadi di Atene quattro anni fa furono distribuiti 130mila preservativi. Ma tra atleti si cucca? «Ci sono tante occasioni per fare conoscenza. Ma noi della maratona siamo sempre stati visti come gli sfigati». Perché? «Magri, sottopeso, fisici cadaverici: le ragazze non ci cagavano. Vuole mettere un velocista muscoli e abbronzatura?». Beh, effettivamente. Però eravate dei miti. E lei è stato il mito italiano. Dài, raccontiamo quella Maratona. Naturalmente partiamo dalla sera prima. «Cena con il mio amico Lambruschini, beviamo birra naturalmente. Poi propongo: ”Andiamo in discoteca?”. Mi guarda esterrefatto: ”Sei pazzo? Domani gareggi!”. E io: ”Chissenefrega”». L’ha fatto davvero? «Un bel riscaldamento no? Ballo fino alle due di notte, poi vado a dormire. Sveglia alle 7.30, pastasciutta in bianco alle 8.30, toast al miele, the e acqua. Alle 14 pronti per la sfida, 124 atleti e io con il numero 579». Due ottobre 1988, gara di chiusura dei Giochi. Pronti, via. «Primo km tranquillo, si corre a ritmi elevati e sto bene. Dopo 10 km mi vengono fitte al fegato, è quello che chiamano il ”dolore dell’atleta”, mi metto in fondo e cerco di rilassarmi. Passa tutto e allora al km 28 provo a dare uno strappo, mi seguono e inizia la guerra degli africani». Ci faccia correre con voi. Rumori? «Nessuno, è tutto ovattato». Profumi? «Non ne senti». Chilometro 37, Saleh attacca e Wakiihuri lo segue. «Io no, continuo a tenere il mio ritmo». Tattica vincente. «Vorrei tirarmela dicendo che è stata una scelta ragionata, ma non è così. Istinto, puro istinto». Funziona. «Al momento penso: ”Porca miseria, sono ancora terzo come a Roma”. Poi mi accorgo che i 40 metri di vantaggio che hanno su di me non aumentano. Vanno al mio ritmo, allora accelero, prendo Wakiihuri e mi avvicino a Saleh». Rumori ora? «C’è una curvona, la gente guarda il maxi schermo e c’è primo Saleh. Quando sbuchiamo, ci sono davanti io. Ed è un boato. Poi un tunnel. Silenzio assoluto. Infine entro allo stadio. Secondo boato». E capisce di aver vinto. «Macché! Non sapevo quanti metri di vantaggio avevo, non ci si gira mai. Però sono troppo curioso e appena in pista mi volto: Saleh non è ancora entrato! fatta. Aumento, mi gusto il pubblico. E sul traguardo mi inginocchio, un po’ per scelta un po’ perché cedono le gambe. A distanza di anni ho un solo rimpianto, non aver fatto il giro d’onore: troppo caos e troppi crampi». Due ore, 10 minuti e 31 secondi. E due record: primo italiano a vincere un oro nella maratona e unico bianco, in quella Olimpiade, a vincere una gara di corsa sulla lunga distanza. Quale la rende più orgoglioso? «Guardi, a me questa storia del colore della pelle non piace, siamo tutti uguali. E non credo nemmeno alla superiorità fisica della razza nera nello sport». Andiamo avanti. Flash, abbracci, gioia. Poi? «Mi apparto in un angolo con il mio massaggiatore: sigaretta relax. Al doping, invece, mi sparo un paio di birre. E inizia la festa». Telefonata di Cossiga? «All’ambasciata mi fanno parlare con il presidente della Repubblica e altre persone, ma ormai sono sbronzo e non capisco nulla. La sera mi vesto da clown, bermuda, cappellino girato e borsetta, e vado al ricevimento dell’ambasciata e poi in discoteca conciato così». Bordin, si rivede mai in tv? «La gara la conosco a memoria, ormai. Mi emoziona sentire il commento di Paolo Rosi. La sera prima era a cena con me, abbiamo vissuto insieme la vigilia. stata la sua ultima telecronaca, dopo qualche anno è morto». Dopo le Olimpiadi gareggia a Boston e sfata la maledizione: nessun campione olimpico aveva mai fatto la doppietta con quella maratona. «Stabilisco il mio record - 2 ore, 8 minuti e 19 secondi - e divento un eroe in America». Nel 1992, alle Olimpiadi di Barcellona, non riesce a difendere la medaglia. «Cade un corridore davanti a me, provo a evitarlo e mi rompo un menisco. Sarà l’infortunio che mi convincerà a smettere l’anno dopo». Bordin, ultime domande veloci. 1) Il più forte maratoneta di sempre? «Gebrselassie sarebbe il numero uno. Ma se non hai un oro olimpico, non puoi considerarti il più bravo». 2) Italiano? «Baldini ha tempi migliori. Ma io avevo avversari più competitivi». 3) Il suo atleta preferito? «Van Basten e Valentino Rossi». 4) Le piacerebbe andare a cena con... «Berlusconi». 5) Rapporto con la famiglia? «Sono sposato con Lara e non ho figli. Stiamo pensando di adottarne uno». 6) Paura della morte? «Mi dà fastidio, amo troppo vivere». 7) Una persona che vorrebbe riabbracciare? «Papà Bruno. Contadino, silenzioso, ma di grandi valori». 8) Dove è la medaglia d’oro? «In banca. L’unico indumento di quella gara che conservo ancora è il costume, portava fortuna». 9) Bordin, la domanda che la infastidisce a 20 anni dall’impresa? «Quando mettono in dubbio il fatto che fossi pulito: ”Gelindo, impossibile non prendere niente, dài. Ora puoi dirlo, come ti dopavi?”. triste, non c’è più fiducia negli atleti». 10) Ultimissima. La domanda che non le hanno mai fatto in questi 20 anni? «’Che rapporto c’era con gli avversari?”. Questo è un aspetto fondamentale per capire la mentalità del nostro sport: la base di tutto sono rispetto e lealtà. Seul, km 35, al rifornimento mi scivola la borraccia. Wakiihuri, che sta lottando con me per la medaglia d’oro, si accorge e mi dà la sua, facciamo a metà. Arriverà secondo, senza rimpianti e con grande orgoglio, abbracciandomi sul traguardo. Capito? Questa è la Maratona». Alessandro Dell’Orto