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 2008  luglio 27 Domenica calendario

Hanno mortificato la morte. Il Sole 24 ore 27 luglio 2008 «Giuro su Apollo medico...». L’impegno giurato dei seguaci di Ippocrate, padre della Medicina laica occidentale, è stato visto dai posteri in modi diversi: come vincolo tra maestri e allievi, o patto d’iniziazione, o contratto associativo, o somma di divieti, o carta giuridica, finanche come presentimento di un messaggio spirituale

Hanno mortificato la morte. Il Sole 24 ore 27 luglio 2008 «Giuro su Apollo medico...». L’impegno giurato dei seguaci di Ippocrate, padre della Medicina laica occidentale, è stato visto dai posteri in modi diversi: come vincolo tra maestri e allievi, o patto d’iniziazione, o contratto associativo, o somma di divieti, o carta giuridica, finanche come presentimento di un messaggio spirituale. «Giammai, mosso dalle pressanti richieste di alcuni, propinerò medicine letali». Il dettato sembra un esplicito divieto verso forme di eutanasia attiva; ma, frutto di apporti e stratificazioni di pensiero di varia origine ed età, il testo rifletteva con verosimiglianza una normativa morale rivolta contro la procedura giuridica del suicidio per avvelenamento assistito quale mezzo di esecuzione capitale. Si pensi alla cicuta data a Socrate, accusato davanti al popolo di Atene di «non credere agli dèi a cui crede la città». A tale questione di fine vita era simmetrica, nel testo ippocratico, la questione d’inizio vita contemplata dalla norma: «Mai ad alcuna donna suggerirò prescrizioni che possano farla abortire». Anche qui, più che di un divieto verso pratiche abortive, si trattava verosimilmente di una presa di posizione contro una cultura che considerava lecito perfino l’infanticidio qualora il padre del bambino ne ravvisasse l’opportunità. Ben altra era l’"opportunità" – in greco kairòs - appartenente al "buon lavoro" – in greco eucheirìa – del medico ippocratico. La "cairologia", cioè l’opportunità teorico-pratica delle sue scelte d’intervento (o di rinuncia all’intervento) nei vari momenti cruciali della vita del paziente, era una categoria integrante la sua cultura, ispirata al criterio del beneficio, vero o presunto, dalla nascita alla morte (di "morte opportuna" ha scritto Piergiorgio Welby nella lettera da lui indirizzata al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, nel settembre 2006, tre mesi prima di morire). Con riferimento ai secoli bui del passato remoto, Philippe Ariès ha parlato di "morte addomesticata", dal rito, dal pianto, dalla preghiera, una morte pregna di significati quali una nuova nascita con un suo proprio travaglio, un transito ad altra vita, un ingresso nella vita eterna. Questo senso o sentimento della morte è appartenuto, nella lunga durata, al modo di pensare e di comportarsi del medico, il quale ha condiviso in pieno l’idea di "buona morte" – una "eutanasia secondo natura" – contrapposta alla "cattiva morte" – una "cacotanasia contro natura" – qual era la morte improvvisa, che arrivava subitanea e che non lasciava il tempo di pentirsi e di raccomandare l’anima a Dio. Si diceva: « morto stanotte nel sonno, non si è risvegliato, ha avuto la morte peggiore che mai si possa avere». Oggi lo scenario è radicalmente cambiato. Contrariamente al passato, quando una malattia acuta chiudeva repentinamente o in breve tempo l’esistenza, si muore spesso di malattie lunghe, inguaribili, con una "morte annunciata" sovente da mesi, talora da anni. Il rapporto con la morte si è trasformato, non solo nel senso comune, ma anche nell’accezione recepita da parte del pensiero medico. Già alle soglie dell’Ottocento, il medico François-Xavier Bichat, nelle sue Recherches sur la vie et la mort (Parigi, 1801), scriveva che «la vita è l’insieme delle funzioni che resistono alla morte». Era la morte la pietra di paragone e la chiave di comprensione della vita. Lo era e lo è non soltanto sotto l’aspetto anatomo-fisiologico, scientifico-tecnico; lo era e lo è anche dal punto di vista antropologico e clinico. Per molti medici del tempo andato, l’incontro con il morire del proprio paziente era il banco di prova della qualità del proprio mestiere, era il metro di misura di una religiosità tutta umana, laica, appartenente per statuto al mestiere di medico, indipendentemente dal personale credo di quest’ultimo. «Cominceremo col visitare due defunti», diceva Il medico di campagna descritto da Honoré de Balzac, avviandosi a fare il giro delle sue visite mattutine. Vita e morte appartenevano alla cultura medica del "fare visita", del "visitare", nelle condotte di campagna e di città. La morte era considerata un evento o processo naturale, connaturato all’essere mortale dell’uomo come di ogni altro vivente. Faceva parte della vita, non era opposta alla vita. I futuri medici, nelle aule di lezione e nei gabinetti d’analisi, imparavano a "conoscere la morte" come fenomeno fisico-chimico, come anatomia cadaverica, ma poi, sul campo, imparavano a "comprendere la morte" a un più alto livello, grazie a una vocazione realizzata come curanti disponibili e partecipi. Tali requisiti di qualità, qualificanti l’attività di cura, si realizzavano in un contesto di rapporti umani dove la morte altrui, che dava scacco al sapere e al potere del medico, dava però a questi la gratificazione di essere vicino al paziente e di aiutarlo, fino alla fine. «Chi sta morendo ha bisogno di affetto, di aiuto, di non essere lasciato solo», ha scritto Norbert Elias a proposito della Solitudine del morente. Quest’altra morte, solitaria e incompresa, è oggi la "morte mortificata", negletta nell’abbandono oppure dominata a oltranza dalla tecnomedicina, comunque deprivata o derubata di ogni autentica religiosità. La Medicina contemporanea ha il grande merito di aver contribuito ad aumentare la quantità di vita e a migliorarne la qualità. Le tecnologie biomediche e le biotecnologie, con il loro impatto nell’umana realtà e con la loro continua ridefinizione della vita e della morte, richiedono che la medicina su di esse fondata sia tuttora affiancata da un’antropologia medica troppo spesso carente. Anche la religiosità di supporto può essere ridefinita: come "etica dell’ascolto", che sappia ascoltare, come "etica del silenzio", che sappia dire la verità finanche tacendo, come "etica del rispetto", che sappia rispettare il diritto del morente di partecipare egli stesso, per primo, a dare senso e significato, con libera scelta, al proprio momento supremo. Giorgio Cosmacini