Il Sole 24 Ore 27 luglio 2008, Alvar González-Palacios, 27 luglio 2008
In nome della rosa. Il Sole 24 Ore 27 luglio 2008 Ho sempre amato giardini, piante e fiori e ho amato ancora di più la letteratura, la storia e la poesia su fiori, piante e giardini
In nome della rosa. Il Sole 24 Ore 27 luglio 2008 Ho sempre amato giardini, piante e fiori e ho amato ancora di più la letteratura, la storia e la poesia su fiori, piante e giardini. Qualcosa di simile sento per profumi, sapori e per i nomi delle cose che nascondano bizzarrie e incongruenze. Lo notava anni fa Federico Zeri: rosa è il nome di un fiore che mantiene lo stesso etimo nelle lingue moderne, non a caso quelle due sillabe servono a imparare le declinazioni del latino classico, rosa, rosae, perché andare avanti? «Una rosa è una rosa, è una rosa, è una rosa». Non accade così col nome del garofano – oeillet in francese, carnation in inglese, clavel in spagnolo – pianta antichissima ma forse meno epitetica della nostra civiltà. La rosa incarna meglio di qualunque altra cosa la bellezza fuggevole, la transitorietà della esistenza. A ogni uomo tocca vivere in un arco di tempo breve, non molto più lungo, sub specie aeternitatis, di quello concesso a una rosa o a una farfalla. La rosa dunque è il distillato di un concetto ma, se penso a una rosa penso prima a un dipinto di Botticelli o a un verso di Ronsard e, dopo a una rosa vera, sul mio terrazzo, per tornare infine nella mente a quella dipinta che sfoglia un giovane pallido in un ritratto di Lorenzo Lotto dell’Accademia di Venezia. Funziona più o meno così, credo, il mio pensiero o, piuttosto, il mio sentire: l’immagine, l’idea delle cose appare prima delle cose stesse. Leggo la descrizione di un giardino o di un fiore prima di conoscerlo e poi, attraverso l’occhio o il cuore d’altri, arrivo ad amarli come se fossero stati sempre miei. Di immagini, di sensazioni e di notizie sulla natura addomesticata in cui potremmo vivere, se la vita fosse generosa con noi e a nostra volta decidessimo quel che vogliamo veramente, si possono trovare in due libri di Paolo Pejrano, I miei giardini (Mondadori Electa, pagg. 188, 39,00) e In giardino non si è mai soli (Feltrinelli, 2003). Per me è stato utile leggerli insieme: il primo, appena uscito, è colmo di belle fotografie che illustrano il percorso di una vocazione iniziata in casa propria, a Revello, in Piemonte e poi, itinerante come un filo d’Arianna, fra i labirinti del mondo. Il libro del 2003 conta solo una ventina d’acquarelli didascalici ma il testo appare più meditato, forse più sofferto. Eccolo proporre un dogma valido non solo nei giardini, quello di essere leggeri, lievi e soprattutto attenti. Pejrone è un narratore e riesce a fare intendere un giardino come chi descrive una casa, soffermandosi su mobili e soprammobili che nelle sue mani diventano rose o peonie, alberi di ulivo, siepi di alloro, piante di banano. La morte però ci insegue persino in questi luoghi amati e protetti. Forse sta qui davvero il significato della frase latina Et in Arcadia ego: anch’io, la morte, sono nei giardini degli uomini. Questo senso si trova nel racconto di Pejrano sullo sradicamento sotto l’immane peso della neve di un vecchio castagno: si tratta di un lutto personale come lo può essere la fine accidentale di un caro amico. Comunque, in un giardino, la vita continua a scorrere col rumore degli animali nelle vasche ideate dalla nostra guida, rane, uccelli, libellule, persino zanzare. un dialogo ininterrotto, giorno e notte, non soltanto di foglie e di fiori ma anche di creature, di acqua e di vento. Né mai si deve escludere il silenzio: «Le persone che parlano alle piante mi hanno fatto sempre un po’ paura, spesso non sanno ascoltare». Le storie di piante qui raccontate sono affascinanti come quella di una Hydrangea villosa (un tipo di ortensia, in comune italiano) che, dopo un lungo esilio in terre straniere trova la pace in una nuova patria. E che dire della rara e piccola camelia a semplici fiori bianchi, la Cornish snow? Chiusa in una valigia lussuosa come un emigrato clandestino in un container, varca frontiera dopo frontiera per giungere al suo paradiso. Così è se vi pare: queste storie hanno un vago sapore di feuilleton ma confesso di amare un certo miele sentimentale, il fine giustifica i mezzi. più difficile rinunciare che acconsentire, il gusto si esprime nella scelta decisa, talvolta nel ritegno. Lo sfarzo, soprattutto nelle cose che riguardano la natura, dovrebbe essere dettato dalla parsimonia, talvolta persino dalla mancanza di pietà, che può costringere ad allontanare corpi estranei. L’eccesso di parole uccide la chiarezza. Non è stata Vita Sackville West, notevole scrittrice e grande giardiniera, a dire che nei giardini bisogna essere crudeli? Pejrano sembra condividere questo principio quando condanna un giardino diventato un album con centinaia di foto simili: «Il troppo può far diventare il giardino stucchevole e vuoto, scacciandone quasi, per mancanza di spazio, il cuore e l’anima stessa». Se si sostituisce la parola giardino con libro o quadro si vedrà che il concetto resta sempre valido. Qualche mese fa, all’inizio della primavera, mi trovai a passare accanto a Palazzo Serristori, a Firenze, dove era in atto una decapitazione in massa degli alberi che contornano il romantico monumento Demidoff, capolavoro di Lorenzo Bartolini. La piazza, comoda e ospitale, divenne subito squallida, persa col verde ogni intimità, e mi vennero alla mente i molti interventi del solo uomo del mestiere che avesse sempre parlato con indignazione di questi fatti. Mi riferisco a Ippolito Pizzetti, scomparso meno di una anno fa, che fu non solo un grande esperto ma anche uno squisito scrittore. Sentiamo ora Paolo Pejrone esporre le sue idee sulle potature, uno dei mali che si abbattono sull’Italia degli ultimi tempi: «L’uso nevrotico delle forbici, delle cesoie e addirittura delle motoseghe è dettato purtroppo dalla moda; non c’è giardino nelle campagne, nelle periferie delle grandi città che non venga sottoposto al più stolto dei supplizi. E con quale sicurezza? Non ci sono dubbi né marce indietro: tagliare, amputare, ridurre è evidentemente una delle attività più importanti dei giardinieri». E purtroppo non solo nelle periferie, come o detto e come ha detto molte volte Pizzetti che in cuor suo odiava le squadre punitive che ogni anno martirizzano i platani dei lungotevere romani. Sono certo che Pejrano continuerà la battaglia. Tutt’altro tono, più accademico, ma non per questo meno interessante, è quello di un volume su un monumento celebre e sulle piante che oggi l’allietano, Rose a Villa d’Este, di Isabella Barisi e di Michela Mollia (De Luca). La pubblicazione si raccomanda innanzitutto per la sicura eleganza editoriale che incensa un repertorio delle rose più note in Europa nell’Otto e nel Novecento. Di rose a Villa d’Este ce ne sono oggi forse troppe e, a dire il vero, il modo in cui le scelte sono qui motivate desta qualche perplessità essendo dettate da un gusto personale. Non è questa, diciamolo apertamente, la parte migliore dell’opera. La bibliografia sulle rose è cospicua persino in lingua italiana: il lettore già sa o almeno dovrebbe sapere, quali sono le cinque progenitrici delle rose moderne; le autrici, a loro volta, potrebbero esprimere con maggiore cautela asserti tassativi come «dall’epoca dei romani al Cinquecento non si era verificata alcuna evoluzione della rosa». Peccata minuta. Quel che a me appare un’aggiunta importante sono le ricerche specifiche sulla Villa e sulle coltivazioni che vi si facevano ai tempi del cardinale Ippolito d’Este e dei suoi eredi. Informazioni di prima mano, queste, o almeno tali sono per chi scrive. Ad esempio, le non poche citazioni di antichi trattati come quello di Giovanni Samminiati il quale consigliava di mescolare rose e uva nei pergolati di orti e giardini, allora non sempre distinti gli uni dagli altri. Non erano nemmeno previste zone destinate alle sole rose a meno che esse venissero impiegate per estrarne gli oli essenziali. Un altro trattatista dell’epoca, il fiorentino G. V. Soderini, consiglia abbinamenti inconsueti come quello di rose e ginestre; dice la sua su siepi impenetrabili, sul fatto che le rose rosse tendessero a crescere poco in altezza e finisce osannando la bontà dell’aceto prodotto con le rose di Damasco. Apposite fotografie dimostrano alcune di queste pratiche oggi desuete, come testimoniano certi mosaici dove si vedono allacciati grappoli d’uva e di rose variopinte. Questi argomenti potrebbero fornire materiale per un libro ancora da scrivere che continuasse nel contempo ricerche mai completate come quelle di Giorgina Masson che a suo tempo si interessò ai giardini segreti dei principi e al commercio dei fiori in Italia in epoca barocca. Isabella Barisi sarebbe un ottimo candidato per questo lavoro. Il nostro senso estetico dei fiori non coincide sempre con quello dell’uomo del rinascimento: siamo sicuri che Ippolito d’Este amerebbe come noi lo scoppio delle rose romantiche e fastose che piacevano a Fantin-Latour e ai grandi vivaisti dell’Ottocento? Alvar González-Palacios