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 2008  agosto 07 Giovedì calendario

L’espresso, giovedì 7 agosto Investitori di tutto il mondo unitevi: pulire il mondo conviene. Dopo essersi a lungo lamentato dei costi necessari all’abbattimento della CO2, il grande business sta scoprendo che ridurre le emissioni di gas serra diventerà una straordinaria occasione per fare soldi

L’espresso, giovedì 7 agosto Investitori di tutto il mondo unitevi: pulire il mondo conviene. Dopo essersi a lungo lamentato dei costi necessari all’abbattimento della CO2, il grande business sta scoprendo che ridurre le emissioni di gas serra diventerà una straordinaria occasione per fare soldi. Non solo: il mondo degli affari e i governi stanno prendendo coscienza che per garantire ai cittadini lo stesso stile di vita, e indurli nello stesso tempo a pagare di più per avere energia pulita, occorre un salto verso un nuovo modello di sviluppo. Che metterà in campo fiumi di capitali, a livello mondiale, per finanziare la ricerca e aprirà la caccia alle nuove tecnologie. E la corsa al sostegno delle imprese più avanzate segnerà un trasferimento di ricchezza su nuovi soggetti, nonché la nascita di nuove opportunità di lavoro simili a quelle che hanno dato l’avvio - nella prima metà dell’Ottocento e in un processo che è durato cento anni - alla nuova rivoluzione industriale. La differenza è che la rivoluzione della CO2 deve avvenire in quarant’anni: lo spazio di una generazione. A dirlo, c’è un autorevole complesso di osservatori, che vanno da esperti come Jeremy Rifkin al commissario europeo per l’Energia Andris Piebalgs, ad advisor del capitalismo internazionale come la McKinsey. Fino al nostro Enea, che nel rapporto presentato il 31 luglio dal presidente Luigi Paganetto sostiene esattamente la stessa tesi. Il problema è: chi ci guadagnerà? E chi pagherà? Non è che alla fine il costo di questa rivoluzione ricadrà soprattutto sui consumatori? Il nuovo affare si chiama ’cleantech’. Frammentato come Internet, fatto di talenti e ricerca, di molte piccole imprese, è il settore su cui già da due anni si concentra l’attenzione dei signori del denaro, tanto che un gigante come Google ha deciso di diversificare investendo nella realizzazione di celle fotovoltaiche per produrre energia dal sole, e da noi il gruppo dell’acciaio Marcegaglia sta facendo altrettanto. Sebbene il settore delle fonti rinnovabili rappresenti ancora una quota molto bassa della produzione globale di energia (non più del 2 per cento), secondo il World energy outlook ha rastrellato nel 2006 un terzo dei 120 miliardi di dollari di nuovi investimenti attratti dal settore energia. Nel 2007 il trend si è intensificato. Nel recentissimo Rapporto Unep (l’agenzia dell’Onu che si occupa dell’ambiente) l’investimento globale in energia sostenibile ha superato i 200 miliardi di dollari, dei quali 84 miliardi solo per le rinnovabili. E man mano che la sensibilità dei mercati dei capitali per il ’cleantech’ si affinerà, la quota aumenterà a livelli da far invidia ai tradizionali beniamini del venture capital come il biotech o il software. Secondo l’Unep, di qui al 2012 l’investimento raggiungerà i 450 miliardi di dollari all’anno, e dopo addirittura i 600, alla faccia di qualsiasi credit crunch. A fare la parte del leone sono stati finora il vento, il sole e le biomasse. E continueranno a farla. Ma nel futuro a queste energie rinnovabili si aggiungeranno in quota crescente anche il nucleare e una forma di produzione di energia che è ancora tecnologicamente immatura, eppure suscita molte aspettative: quella che prevede il ’sequestro’ delle emissioni di CO2 sotto terra. Il teatro di questo grande movimento è globale: dagli Usa, dove si attende che la nuova amministrazione eletta a fine anno dia una accelerazione all’efficienza energetica, alla Cina delle Olimpiadi che si è dovuta porre il problema delle proprie emissioni velenose. Ma il centro è e resterà l’Europa. Che oggi impiega nel settore rinnovabili 350 mila persone, con un fatturato di 30 miliardi di euro. Se si considera che nel 2020 dalle rinnovabili dovrebbe arrivare il 21 per cento del fabbisogno energetico dell’Unione europea - che oggi è a quota 6 - si può immaginare quali risorse finanziarie verranno convogliate su attività con la missione di pulire l’aria e l’ambiente. In questo settore chi avrà le tecnologie disporrà del poker d’assi da giocare sul fronte della competitività, della sfida industriale e anche in quella dei capitali. E farà una scommessa vincente sulla sua crescita economica. Secondo McKinsey, il cui Global Institute ha appena prodotto uno studio su ’The carbon productivity challenge’, se vogliamo ridurre le emissioni senza sacrificare la crescita non resta che aumentare la ’carbon productivity’, cioè il livello di Pil per unità di CO2 prodotto. Poiché questo è calcolabile oggi in 740 dollari a tonnellata, occorre moltiplicarlo per dieci, a 7.300 dollari a tonnellata nel 2050. "Se non riusciremo a raggiungere quel livello", scrive McKinsey, "la conseguenza sarà che ciascuno di noi nel 2050 avrà a disposizione un budget di 6 chili di emissioni al giorno". Vale a dire che dovrà scegliere tra mangiare due pasti, guidare per 40 chilometri, o stare fermo a casa con l’aria condizionata accesa. E qui si misura subito la lungimiranza degli Stati a lanciarsi nella prossima rivoluzione dei gas serra con la ricetta vincente: massimo abbattimento delle emissioni al minimo costo. Sul fronte della ricerca, saranno gli Stati a dover giocare il ruolo centrale. Chi ha già cominciato, lo fa con convinzioni assai diverse. L’Irlanda investe molto su idrogeno e celle a combustibile, rivela il nuovissimo Rapporto Enea ’Energia e ambiente’; Francia e Belgio sul nucleare; Spagna e Regno Unito sono leader nella quota di ricerca e sviluppo dedicata alle rinnovabili; la Danimarca è leader nell’eolico ed esporta l’80 per cento della sua produzione di pale. Nel suo complesso, l’Europa vanta un numero di brevetti nel settore rinnovabili superiore sia agli Usa che al Giappone. E l’Italia? L’Italia è l’unica, scrive l’ Enea, a non aver convogliato gli investimenti in ricerca e sviluppo sul settore energia, e a posizionarsi in un’area di ’despecializzazione tecnologica’. Non solo. Dai conti dell’Enea, il nostro ’obiettivo Kyoto’ non è ancora a portata di mano. Con i nostri trend di emissioni, sforeremmo di oltre 100 milioni di tonnellate di CO2: surplus che solo dopo una cura severa di correttivi appena decisa dal governo si riduce a 20 milioni. Per fortuna per noi c’è l’Europa: sia con l’adesione al Protocollo di Kyoto sia con la decisione del Consiglio d’Europa del 2007 di adottare entro il 2020 la ’regola del 20 per cento’ (riduzione dei gas serra, aumento delle rinnovabili, incremento di efficienza energetica, tutto in quella misura), il Vecchio continente guarda lontano. E ha deciso, con un Piano strategico per le tecnologie energetiche (il Set Plan), di puntare a farne crescere alcune: dal fotovoltaico, che utilizza le pellicole sottili, ai biocarburanti; dalle tecnologie del carbon-storage (la cattura e lo stoccaggio della CO2) al nucleare di quarta generazione. Anche qui, i numeri sono a favore delle rinnovabili: secondo Merrill Lynch i costi di produzione di queste tecnologie o sono già commercialmente appetibili (per via del costo di abbattimento della CO2 connesso alle tecnologie tradizionali) o lo diventeranno presto. E dunque sono pronte ad attirare i capitali sia degli investitori di professione sia dei fondi. Ma il salto tecnologico che questo settore promette può consentire all’apparato produttivo quello che il manifatturiero tradizionale declinante non può più garantire sia in termini di crescita economica sia di offerta di nuovi di posti di lavoro ’verdi’. Secondo l’Enea, per non rischiare di perdere il treno l’Italia deve imboccare la strada dell’accelerazione tecnologica. Per raggiungere il target di riduzione delle emissioni entro il 2020 va fatto tutto quello che si può ottenere in termini di efficienza: dalle lampadine alle auto, dalla coibentazione delle case ai trasporti. Ma è uno sforzo che vale solo il 47 per cento dell’obiettivo finale: il grosso tocca alle nuove tecnologie. Veniamo al nodo: quanto costerà tutto questo? E chi lo pagherà? Le opinioni divergono. McKinsey sostiene che il costo marginale del cambiamento può essere limitato a meno di 40 euro a tonnellata. Ben 5 miliardi di tonnellate si possono ridurre tagliando gli sprechi di ogni giorno, e queste azioni hanno un ’costo negativo’, cioè si ripagano nel tempo. Il resto, fino a 27 miliardi di tonnellate di CO2, lo deve fare chi produce energia e l’industria. Obiettivo del 2030: spendere nel mondo ogni anno dai 500 ai 1.100 miliardi di euro. Va bene, ma quanto di questo denaro deve venire dai consumatori finali (per esempio, con l’acquisto di auto, frigoriferi, lavatrici più efficienti) e quanto dal capitale di investimento? McKinsey sostiene che toccherà ai grandi produttori di energia e ai petrolieri, e che i soldi ce li devono mettere le banche e la finanza, con lo stesso spirito con cui si finanziarono, all’inizio del Ventesimo secolo, le reti ferroviarie. L’Enea, invece, segnala che la parte preponderante dei costi del cambiamento del sistema rischia di ricadere sugli utenti finali - famiglie e piccole imprese - che dovranno spendere per acquistare tecnologie più pulite. Insomma: la rivoluzione della CO2 può tradursi in una sorta di redistribuzione massiccia del reddito da chi consuma energia a chi produce tecnologia. A meno che non si intervenga con dei correttivi, che spettano ai decisori, cioè ai politici. Capito chi la pagherà, questa pulizia del mondo? Paola Pilati