Federico Rampini, la Repubblica 31/7/2008, pagina 1., 31 luglio 2008
E´ durante le crisi economiche che ci sarebbe più bisogno di accelerare gli scambi mondiali: il commercio internazionale è notoriamente un motore della crescita
E´ durante le crisi economiche che ci sarebbe più bisogno di accelerare gli scambi mondiali: il commercio internazionale è notoriamente un motore della crescita. Ma è proprio nelle crisi economiche che si riduce il consenso politico verso il libero scambio, si restringono i margini di manovra dei governi, e rialza la testa l´ideologia del protezionismo. Accadde dopo il crac di Wall Street del 1929 a cui seguirono, soprattutto a partire dal 1933, le guerre protezionistiche che contribuirono alla Grande Depressione (e infine alla guerra tout court). Oggi non siamo in una situazione così drammatica. Il rallentamento dell´economia mondiale non si è trasformato in una recessione globale, almeno finora. Gli scambi fra le nazioni restano elevati, sia pure con delle zone d´ombra tra cui figura proprio l´agricoltura: il casus belli su cui è naufragato il negoziato in seno al Wto sulle liberalizzazioni. La grossa novità politica dietro quel fallimento del Doha Round è la saldatura di un forte asse tra la Cina e l´India, che hanno respinto le ultime offerte degli Stati Uniti e dell´Unione europea. E´ una novità perché negli ultimi anni Pechino e New Dehli avevano seguito strategie distinte, dettate dai rispettivi interessi nazionali e da vocazioni economiche diverse. L´India, a dispetto del suo recente decollo come superpotenza dell´economia globale, rimane un paese più protezionista. Se si eccettuano i settori di punta (informatica e software, biofarmaceutico, servizi avanzati), il suo sviluppo non è prevalentemente trainato dalle esportazioni bensì dal mercato interno. La Cina, la "fabbrica del pianeta" nel XXI secolo, dal suo ingresso nel Wto (2001) ha tenuto con una certa coerenza una linea liberoscambista. Proprio Pechino in passato ha contestato più volte il principio delle "clausole di salvaguardia", invocate da Europa e America per ripristinare alti dazi doganali o contingenti all´import quando l´invasione di prodotti made in China ha provocato sconquassi nel tessile-abbigliamento dei paesi a vecchia industrializzazione. L´altroieri invece proprio il governo cinese ha dato l´appoggio decisivo a quello indiano, nel chiedere un diritto di salvaguardia per i contadini dei paesi emergenti qualora siano messi in difficoltà da un boom di importazioni dai paesi ricchi. Mentre per l´India questa non è una novità, la Repubblica Popolare si è riscoperta di colpo una vocazione da leader del Terzo mondo, che aveva trascurato negli ultimi anni. Dietro questo colpo di scena c´è naturalmente l´iperinflazione delle derrate agricole, le tensioni sui mercati del riso, della soya e dei cereali, la crisi alimentare che ha colpito l´Asia con caratteristiche nuove (perché è una crisi determinata dal boom dei consumi e quindi paradossalmente dal benessere, più che da flagelli tradizionali come le guerre o le calamità naturali). La saldatura dell´asse Cina-India, che ha coalizzato un vasto schieramento di paesi emergenti, conferma che le nuove potenze economiche si sono liberate da qualunque sentimento di soggezione nei confronti dell´Occidente. Sono più consapevoli del proprio peso e del proprio potere negoziale. Hanno anche sempre meno da chiederci, quindi sempre meno da guadagnare facendoci delle concessioni. Il fiasco del negoziato Wto consacra l´avvento di una nuova èra. I vecchi padroni del gioco, americani ed europei, hanno perso il ruolo propulsore che ebbero per mezzo secolo di liberalizzazioni. Il rallentamento della crescita in Occidente comporta un graduale ridimensionamento dell´importanza dei nostri mercati. Molto di quel che potevamo concedere lo abbiamo già concesso, e i cinesi se lo sono preso. D´altra parte né la Cina né l´India hanno cominciato a disegnare una nuova architettura della governance globale, alternativa rispetto ai club in declino come il G-8. Siamo in una transizione incerta. Le vecchie potenze sono in declino ma quelle nuove esitano ad assumersi tutte le loro responsabilità. L´interregno è pericoloso perché la cabina di regìa dell´economia globale è sostanzialmente vuota. Nel momento del suo funerale è utile ricordare come nacque il Doha Round. Fu l´ultimo progetto globale lanciato dall´Occidente, con un ruolo decisivo degli Stati Uniti. Subito dopo l´11 settembre 2001 si affermò l´idea di usare lo sviluppo economico come antidoto al terrorismo e al fondamentalismo. Nella sua formulazione più nobile, anche se un po´ astratta ed economicista, il Doha Round puntava a diffondere benessere nei paesi più poveri attraverso la liberalizzazione degli scambi agricoli. Bisognava così fare terra bruciata sotto i piedi della Jihad, sradicare la miseria che creava terreni di coltura per le ideologie anti-occidentali. Quella proclamazione ideale fu ben presto vanificata nei fatti. La determinazione e la compattezza dell´Occidente si sgretolarono presto, anche per il prolungato sabotaggio del multilateralismo da parte dell´Amministrazione Bush. Gli egoismi delle lobby agricole nei paesi ricchi - appena il 2% della forza lavoro attiva negli Usa, il 4% in Europa, ma con una capacità di ricatto politico sproporzionata - ha mantenuto i negoziati nello stallo per anni. E´ svanita così quella finestra di opportunità durante la quale i paesi emergenti erano ancora interessati a quel patto di scambio. Poi lo scenario si è rovesciato. Oggi per molti paesi emergenti l´urgenza non è più conquistare il diritto di esportare le loro derrate agricole, bensì destinarle in precedenza all´approvvigionamento dei loro mercati interni, in una situazione di iperinflazione e rischi di penurie. Cina e India stanno a loro volta commettendo degli errori seri. L´agricoltura cinese non potrà mai bastare a sfamare 1,3 miliardi di persone la cui dieta diventa più ricca di anno in anno. E´ sui mercati esteri che Pechino dovrà trovare accesso alle risorse naturali necessarie. Ma nel breve termine il governo cinese preferisce fare un gesto demagogico verso i suoi contadini, a lungo penalizzati da un modello di sviluppo che ha privilegiato l´industrializzazione pesante. La sconfitta del Wto non è irrimediabile ma è un segnale inquietante. Il riflusso neo-protezionista è cominciato in casa nostra: è stata la vecchia Europa la prima a contestare i vantaggi della globalizzazione. Ora il germe è attecchito altrove, e i contraccolpi rischiano di sorprenderci. Alla paralisi del Wto ciascuno reagirà come può. Di fronte alla crisi del multilateralismo, la Cina è maestra nell´arte di aggirare il problema. Sta firmando raffiche di accordi bilaterali di libero scambio: scegliendosi i partner uno alla volta, Pechino esalta il proprio potere contrattuale e strappa le condizioni più favorevoli. Se l´Europa credeva di proteggere meglio i propri interessi mettendosi "in vacanza dalla globalizzazione", il risveglio sarà brutale: in un mondo di regole decise da altri. Federico Rampini