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 2008  luglio 28 Lunedì calendario

Confessioni, bestemmie e gioie "Quell´anima segreta dei Giochi". La repubblica 28 luglio 2008 Anche per lui l´estate ha significato gioco e competizione

Confessioni, bestemmie e gioie "Quell´anima segreta dei Giochi". La repubblica 28 luglio 2008 Anche per lui l´estate ha significato gioco e competizione. Anche lui ci ha messo fede e impegno. Anche lui ogni quattro anni si è preparato alla trasferta olimpica. Monsignor Carlo Mazza, 66 anni, ora vescovo di Fidenza, è stato il cappellano azzurro per vent´anni. Ha avuto come chierichetto Alberto Gilardino, «l´unico che si sapeva destreggiare con calici e ampolle di acqua e di vino», ha regalato una mini-bibbia e un crocefisso a Pietro Mennea, «sempre così sofferente», non ha potuto evitare le bestemmie di Jury Chechi che a Seul ne disse una propria grossa davanti a lui. «Era il mio esordio olimpico, non ero vestito da prete, Jury fece uno sbaglio, gli scappò l´offesa. Mi rivide al villaggio, avevo la divisa, era molto imbarazzato, ma siamo diventati amici e mi ha regalato il body con cui ha vinto l´oro a Sydney. Una tutina non lavata, piena di sudore, perché dietro lo sport c´è sacrificio». Seul ´88, appunto, come fu la prima volta? «Il villaggio era circondato da filo spinato e l´atmosfera era un po´ triste, io che non volevo essere invadente avevo preso la decisione di non vestirmi da prete. Incontro due azzurri che mi squadrano dubbiosi. Chiedo: chi sono, secondo voi? Dicono tutto: massaggiatore, tecnico, arbitro, accompagnatore. Da allora ho cambiato strategia, mi sono fatto riconoscere subito, e ho fatto anche la scelta di non seguire dal vivo le gare. Meglio aspettare gli atleti al villaggio, essere discreti, e dare qualche parola di conforto». Le Olimpiadi come oratorio? «E´ un po´ così, con il prete che aspetta i ragazzi nel cortile. Ma lo sport è geloso di se stesso, non accetta invasioni. Bisogna rispettarlo, esserci quando ti chiamano, allora ti stimano, è una cultura autoreferenziale, sono gli atleti a doverti invitare nel loro alloggio, non tu ad entrarci. Lo sport ha un animo sensibile, basta poco per offenderlo, per questo bisogna stare da questa parte della riga, non fare confusione di ruoli. Io sono il padre spirituale, non l´allenatore. Ho detto messe in molte stanze del villaggio, avvisando che chi non voleva assistervi poteva uscire. E così è cresciuta la confidenza». Nel ´92 a Barcellona l´Italia olimpica si ribellò ai calciatori, troppo cocchi e privilegiati. «Sì, c´era un´avversione contro i nostri giocatori di pallone per la diversità di status. Albertini venne a parlarne, soffriva di questo contrasto, ne era offeso, ma purtroppo il sentimento generale era quello. Ma ricordo anche lo strazio per la morte di Paolo Borsellino. Quattro anni dopo ad Atlanta, nella parte più profonda dell´America, mi colpì lo squallore, l´estrema commercializzazione dei Giochi, e la sconfitta del volley azzurro in finale. Ero al villaggio quando la squadra rientrò, non riuscirò mai a dimenticare il gesto di rabbia di Bernardi che lanciò in aria una scarpa. Quella stizza, quella disperazione, mi passa sempre davanti agli occhi». Sarà mica diventato un cappellano tifoso? «Stare vicini significa compartecipare. Guardavo la squadra di Velasco entrare e uscire dal villaggio: sempre seria e composta, in fila per due. Lui sembrava un grande abate, i ragazzi un gruppo di monaci di clausura. Io chiedevo: ma ce la fate, non è una vita troppo dura? Io sono stato 12 anni in seminario, ma non avrei mai accettato una disciplina così ferrea. Certo, i Giochi isolano, non vivi più l´esterno, senti la suggestione dell´evento, il carico, anche emotivo, della storia e il resto passa in secondo piano. A chi mi dice che lo sport è un´altra religione, con liturgia e riti propri, dico solo che è sbagliato fare sovrapposizioni. Lo sport è un´esperienza così coinvolgente che alla fine non puoi farne a meno». E a Sydney 2000 come andò? «C´era una bella atmosfera, i nostri emigranti erano felici, anche se il villaggio olimpico era di prefabbricati. E poi è esploso il nuoto azzurro. Una mattina alle 6, 30 verso la mensa incontro Rosolino, lui mi guarda e si tocca, in un gesto scaramantico. Allora mi sono arrabbiato e gli ho detto: ti svilisci, un campione come te non può scendere così in basso. Non se l´aspettava e mi ha chiesto scusa. Ricordo la pena di Antonio Rossi, il canoista, che aveva appena perso il padre. E l´incontro toccante con un pugile ad Atene 2004: non so perché chi sale sul ring viene etichettato come brutale, invece sono ragazzi raffinati e intuitivi. Mi ha chiesto di confessarlo, era nei quarti, mi ha detto: ”Padre, domani ho un match, voglio salire sul ring pulito dentro e fuori´. Ad Atene il villaggio guardava verso il monte Olimpo e il Partenone, riferimenti classici, che si sentivano. Non dimentico Stefano Baldini, ragazzo della pianura padana, introverso e insoddisfatto, come spesso chi viene dalla provincia, e usa lo sport per uscire dai suoi confini. Sapevo che Baldini era in forma per la maratona. E´ un tipo che ragiona molto su di sé, e in quel momento viveva una situazione sentimentale molto delicata. Quel suo dito levato al cielo grondava di rabbia e di rivincita, diceva: vedi quanto valgo? Tu mi hai lasciato solo, ma io non sono un fallito». E si confessano anche sul doping? «Sì. Sono turbati, sanno che un successo olimpico cambia la vita. Ti chiedono con delicatezza: cosa devo fare? E io: seguite quello che vi dice la coscienza, non usate scorciatoie». Come vede la gioventù italiana un cappellano olimpico? «Gli atleti si riconoscono, sanno cos´è la disciplina e il sacrificio, 6-8 ore di allenamento al giorno temprano. Gli altri ragazzi sono disponibili a seguire i valori, ma hanno molta paura di essere ingannati». Monsignor Mazza a Pechino non ci sarà, sostituito da don Mario Lusek. «Ho già nostalgia di quella tensione olimpica. Lo sport è un´esperienza così coinvolgente che alla fine non puoi fare a meno, dopo vent´anni la mia estate sarà più solitaria». EMANUELA AUDISIO