Sergio Romano, Corriere della Sera 29/7/2008, 29 luglio 2008
Ho letto e condiviso la sua risposta al lettore che auspicava una maggiore attenzione della magistratura inquirente nei confronti dei politici, specie se investiti di cariche e poteri
Ho letto e condiviso la sua risposta al lettore che auspicava una maggiore attenzione della magistratura inquirente nei confronti dei politici, specie se investiti di cariche e poteri. Devo aggiungere che tale concezione trova conforto e riscontro nelle parole che, sotto forma di apologo, il sostituto procuratore Piercamillo Davigo pronunciò durante un colloquio con Bruno Vespa («Storia d’Italia da Mussolini a Berlusconi», edizioni Mondadori). In sintesi, Davigo per motivare la straordinaria e improvvisa attenzione dedicata a Berlusconi, lo paragona a un topino che visse felice e contento fino a quando, per distinguersi e farsi riconoscere, non indossò un paio di corna (entrò in politica?). Purtroppo, quando si trattò di sfuggire al gatto le corna ne impedirono la fuga dal classico buchino. Allora, la lettura di quelle parole mi lasciò un senso di inquietudine. Lo giustificai con la mia limitata cultura e la scarsa conoscenza in tema di diritto (le poche lezioni di educazione civica a scuola). Tuttavia, oggi quella sensazione rimane e mi chiedo se le corna non costituiscano, al di là dell’impiccio che provocano, un richiamo irresistibile. Giampaolo Consoli gabs7@libero.it Caro Consoli, V espa scrive che l’apologo risale a una conversazione di Cortina in una notte dell’estate 1998, e lo commenta con queste parole: «Senza mai nominare Berlusconi, Davigo ne tracciò un perfetto identikit giudiziario ». Non mi sorprende. Negli anni di Mani pulite Davigo è stato uno dei più brillanti e pungenti esponenti della Procura di Milano. Ma questa divertente parabola mi fornisce qualche spunto per rispondere a una lettera molto interessante e troppo lunga per essere pubblicata su questa pagina. La lettera è stata scritta da un magistrato, Ignazio Fonzo, che non comprende perché alcuni commentatori del Corriere (fra cui Ernesto Galli della Loggia e chi scrive) diano l’impressione nei loro articoli di essere favorevoli alla separazione della carriera dei procuratori da quella dei giudici. Fonzo vede in questa posizione l’implicito convincimento che «i magistrati giudicanti adottino i loro provvedimenti decisionali in ragione della colleganza con i requirenti» e sostiene che questa supposizione è del tutto infondata. Ricorda a questo proposito due esempi (il processo per i disordini genovesi in occasione del G8 e quello di Olbia per abusi edilizi a Villa Certosa) in cui «gli organi giudicanti hanno disatteso, parzialmente o integralmente, le richieste del pm, come è normale nella fisiologia del processo penale che vede, dinanzi ad un giudice terzo, contrapposte due diverse prospettazioni, quella accusatoria e quella difensiva ». certamente vero che i giudici hanno spesso dimo-strato, soprattutto in Appello e in Cassazione, di non essere soggetti all’influenza dei pubblici ministeri. Ma l’unità delle carriere è stata rotta dal ruolo che i procuratori hanno assunto nella vita pubblica italiana durante gli ultimi quindici anni. Gradualmente, sollecitati dalla loro popo-larità, dal consenso della pubblica opinione e dalle loro ambizioni, hanno cominciato a dare interviste, pubblicare libri e articoli, rilasciare dichiarazioni, fare conferenze, partecipare a manifestazioni politiche, tavole rotonde e programmi televisivi. Hanno finito per identificarsi, anche sul piano emotivo, con la sorte delle indagini in cui erano impegnati e alcuni di essi non hanno esitato a considerarsi investiti di una missione nazionale. Non credo che questa tendenza possa essere rovesciata. In tutte le democrazie l’avvocato dell’accusa, come ogni altro avvocato, è inevitabilmente spinto a ricercare simpatia e consenso attraverso i mezzi d’informazione. Ma l’Associazione nazionale magistrati e il Consiglio superiore della magistratura avrebbero dovuto comprendere che questo nuovo stile degli inquirenti non era compatibile con quello dei loro colleghi giudicanti e che avrebbe nuociuto in ultima analisi alla credibilità dell’intero ordine giudiziario. Avrebbero dovuto capire che la separazione, anziché nuocere alla giustizia, avrebbe reso più legittime le due categorie, quella dei giudici e dei procuratori, ciascuna distinta dal proprio ruolo. Ma invece di accettare la separazione e concentrare la loro attenzione sul modo per evitare che i procuratori ricadessero, come in passato, sotto l’autorità del Guardasigilli, l’Anm e il Csm hanno ceduto a riflessi di solidarietà, di colleganza, di complicità corporativa. Ecco perché continuo a pensare che la riforma della giustizia italiana non possa ignorare il problema della separazione delle carriere.