Aldo Schiavone, la Repubblica 28/7/2008, 28 luglio 2008
Arriva il momento – a volte d´improvviso, come non vorremmo – in cui bisogna saper fare discorsi difficili, che avremmo preferito risparmiarci
Arriva il momento – a volte d´improvviso, come non vorremmo – in cui bisogna saper fare discorsi difficili, che avremmo preferito risparmiarci. La politica non c´entra: è in gioco qualcosa di più profondo, che brucia e fa male. I tempi che attraversiamo richiedono un esercizio straordinario di ragione e di realismo, per reggere il peso di una rivoluzione che sta sconvolgendo il rapporto cui eravamo abituati fra quel che ancora siamo e quel che stiamo per diventare: quando ogni nuovo giorno ci affida il peso di decisioni e di responsabilità che fino a ieri nemmeno pensavamo possibili. Parliamo di cosa è, e cosa sarà sempre di più, lo stato terminale della vita – il tratto estremo del nostro passaggio umano – in società tecnologiche ad alta medicalizzazione (assistenza individualizzata, ospedali avanzati, protocolli terapeutici d´avanguardia). Non soltanto in casi limite come quelli che le ultime cronache italiane ci hanno dolorosamente proposto, ma per tutti noi: insomma, di quel che ci aspetta. E cerchiamo di affrontare la questione alla radice. molto probabile che la generazione cui appartengo, e forse ancora quella dei suoi figli, saranno le ultime a fare i conti in modo diffuso – pur se accanto a eccezioni via via più consistenti – con l´esperienza della morte, nei termini in cui la nostra specie l´ha incontrata finora, e che sono stati culturalmente elaborati attraverso uno sforzo durato migliaia e migliaia di anni. Voglio dire la morte come un evento inevitabile, spontaneo e indeterminato, che si produce sempre in modo (relativamente) imprevisto e repentino – anche se a volte lungamente e tormentosamente preparato e atteso. La morte, insomma, come fatto "naturale" assoluto enigmaticamente simmetrico all´opposta "naturalità" del nascere del tutto sottratto al nostro controllo e al nostro potere di valutazione e di scelta. Oggi, questo decisivo piano di subordinazione umana alla natura per tutto quanto attiene all´entrata e all´uscita dalla vita sta sparendo. Che ci piaccia o no, si sta dissolvendo, e la tendenza è inarrestabile. La tecnica si è definitivamente installata nel cuore di questi due momenti cruciali, e ne sta spostando il dominio dall´orizzonte della necessità e della storia evolutiva, a quello della volontà e della cultura. Sta scomparendo per la nascita, di cui ormai riusciamo a riprodurre in laboratorio quando e come vogliamo tutta l´abbagliante sequenza originaria, a partire dalla disponibilità di alcuni mattoni biologici di base. E sta svanendo per la morte, alla cui radicalità "naturale" (un attimo prima di morire si è ancora vivi, come ricorda un motto celebre, e come scrivevano nei loro testi i giuristi romani, quando ripetevano che "momentum mortis vitae tribuitur", l´attimo della morte appartiene ancora alla vita), si sta provvisoriamente sostituendo con frequenza sempre maggiore, che ben presto diventerà la regola, una zona grigia, insondabilmente intermedia, in cui si può essere allo stesso tempo vivi e morti, al di qua e al di là del vecchio confine, uomini e macchine integrati insieme (voi capite), ancora mortali e già, in qualche modo, immortali. Stadi di confine, nei quali ben presto sarà possibile non solo mantenere indefinitamente i circuiti elementari della vita (sangue ossigenato che scorre nelle arterie), ma anche come accadrà in molti casi le funzioni superiori di un pensiero e di una personalità, grazie alla predisposizione di strutture artificiali parzialmente o totalmente extrabiologiche, che conserveranno ben poco del nostro piano anatomico originario, ma che consentiranno alla nostra mente di continuare a lavorare, non si può immaginare entro che limiti, e sia pure con costi economici e sociali altissimi, che si scaricheranno sul resto dei viventi quelli (per dirla in modo brutale) non dipendenti dalle macchine. E allora? Per decidere dove fermarsi, quando sarà il momento di dire basta quale sarà il tempo debito per ciascuno di noi potremo ancora tirare in ballo la natura? E quale natura, se l´intreccio sempre più incalzante fra bioingegneria e macchinismo elettronico (se posso esprimermi così), quella che alcuni definiscono "bioconvergenza", avrà creato sta già creando un intreccio dove la naturalità originaria della vita sarà percepibile solo in quanto continuamente trasformata dall´azione consapevole della nostra intelligenza? A me pare che sia arrivato il momento di dirlo: dobbiamo prepararci a gestire la morte (finché avremo a che fare con essa), come l´esito di una scelta responsabile almeno per la maggior parte delle donne e degli uomini che abitano la parte tecnologicamente avanzata del pianeta rispetto a una prosecuzione della vita alle condizioni (relazionali, affettive, esistenziali) rese possibili dalla tecnologia di volta in volta disponibile, e non più come un evento scandito da una trama ineluttabile di consequenzialità fuori controllo. Se sfuggiamo a questa responsabilità enorme, certo, ma è questo l´umano innanzi a noi cui siamo obbligati dalla stessa potenza della tecnica che stiamo dispiegando, finiremo comunque invischiati in una rete di sotterfugi e di menzogne che non ci sarà di nessun aiuto, e ci consegnerà del tutto impreparati allo sconvolgente futuro che ci aspetta. Come quella di nascondere ancora le nostre scelte dietro il rispetto di una naturalità ormai ridotta al fantasma di se stessa, e di essere costretti, per esempio, a mascherare con il velo dell´interruzione del sostegno alimentare (per lasciare che "la natura faccia il suo corso" ma quale ipocrisia! ma quale natura! nemmeno con le piante si fa così!) la decisione del tutto giustificabile in quanto tale di lasciar cadere quel che resta di una vita senza più speranza. So bene che questo discorso implica un salto di qualità nel nostro diritto e nella nostra etica, fermi a un tempo in cui ci era concesso di vivere una vita e di accettare una morte ben diverse da quelle che oggi ci si schiudono dinanzi. Ma è proprio di questo che bisogna cominciare a discutere: di morte responsabile, eticamente e non naturalisticamente dedotta, e non più di "eutanasia" una vecchia parola che riflette un concetto ormai fuorviante. La Chiesa potrebbe essere di grande aiuto in questo frangente, spendendo la sua eccezionale capacità di magistero e di ascolto. Se decidesse di evangelizzare il nostro futuro, e non solo un presente che sta già svanendo, e se non invocasse più il nome di Dio a difesa di una soglia biologica e culturale ormai superata, come ha già fatto una volta per proteggere l´inutile immagine di una Terra al centro astronomico dell´universo.