Corriere della Sera 28/7/2008, 28 luglio 2008
LA STAMPA 28/7/2008
ALESSANDRO BARBERA
ROMA
Il governo disconosce la paternità dell’emendamento? Ma suvvia. In Commissione non c’è stato un solo pezzo di carta proposto dalla maggioranza che non abbia avuto il suo vaglio. Ed è accaduto anche quella notte con la norma sui precari». La notte a cui allude Gianfranco Conte, presidente della Commissione Finanze della Camera, è del 16 luglio. Di lì a poche ore, per la precisione alle nove del mattino dopo, il calendario di Montecitorio imporrà di portare la manovra in aula per la fiducia, accada quel che accada. Il governo ha deciso di incassare il sì alla manovra triennale entro l’estate e per decreto, ma le procedure parlamentari (il Quirinale chiede da tempo una riforma) restano quelle di sempre: esame di due Commissioni della Camera, voto dell’aula, poi passaggio al Senato per il voto di altre due Commissioni, ancora aula. Più la cosiddetta «navetta», la terza lettura della Camera in caso di nuove modifiche. E così, come accade puntualmente da vent’anni a questa parte, anche una manovra approvata in meno di un mese (invece dei tre soliti) può essere terreno fertile per il suk di sapienti mercanti e blitz senza colpevoli. Maurizio Sacconi fa sapere di sentirsi «distinto e distante» dalla norma, Calderoli e Rotondi pure, Renato Brunetta invoca modifiche in Senato. Peccato che Giulio Tremonti abbia imposto la blindatura del testo: se la maggioranza vorrà, al massimo potrebbe concedere di modificarla in un secondo momento e in un provvedimento distinto. Preoccupato delle conseguenze di un eventuale sì a rivedere la salva-Poste, il ministro dell’Economia teme per altri fronti caldi della manovra, dalla sanità alla sicurezza. Visto il precedente, ha motivo di preoccuparsi.
Il 16 luglio la seduta comincia dopo cena, orario non consono a discutere di argomenti decisivi per il futuro del Paese. In nottata i deputati, circondati da pile di carta alte un metro e più, approvano modifiche alla riforma dei servizi pubblici locali, alle norme che regolano i fondi per il sud, le quote del Tesoro in Finmeccanica, l’abolizione del ticket nazionale sulla diagnostica. Alle cinque e mezza del mattino, dopo quasi dieci ore di discussione e un centinaio di voti su altrettante modifiche volute dalla stessa maggioranza, si vota quelle all’articolo 21 sul lavoro e l’emendamento salva-Poste.
L’argomento aveva fatto capolino verso le due, ma l’opposizione aveva ottenuto un breve rinvio. Il relatore della maggioranza, Marino Zorzato, fa sue due proposte dei capigruppo di Pdl e Lega, Gioacchino Alfano e Maurizio Fugatti, già autore del blitz che avrebbe dovuto azzerare i vertici dell’Autorità per l’energia e che poi verrà ritirata. L’opposizione dice la sua con argomenti ed energie che ad un’ora del genere non possono sortire alcun esito. Racconta Pierpaolo Baretta, ex segretario confederale della Cisl e ora deputato Pd: «Ricordo che intervenne Zorzato, e che discutemmo qualche minuto. Il sottosegretario Vegas era presente e non sollevò alcuna obiezione. Per la verità, vista l’ora, dubito che avesse la lucidità per capire cosa si stava discutendo». Per di più, racconta Conte, «la norma l’avevamo già modificata». Come ogni emendamento la norma era passata dal «vaglio di ammissibilità» della Commissione. Conte smentisce di essere stato l’emissario dell’azienda: «Questi emendamenti nascono da un lavoro collettivo. Il problema di Poste lo conosciamo da tempo e, se mi permette, non capisco dove sia lo scandalo. A causa dei tempi lunghi della giustizia, Poste ha sul tavolo decine di migliaia di cause di portalettere assunti per tre mesi, magari solo per fare una sostituzione per malattia. E spesso viene condannata ad assumere e pagare lo stipendio arretrato a gente che aveva lavorato tre mesi anni prima». Inoltre «Sacconi era intervenuto per attenuare gli effetti della norma salva-Poste». In una prima formulazione la parola «anche» nell’emendamento avrebbe permesso non solo la sanatoria per le cause aperte, ma di fatto avrebbe introdotto il principio del mero risarcimento per le cause future. La fretta di chiudere sul testo ha creato un mostro giuridico: se per le cause aperte è previsto un indennizzo compreso fra le 2,5 e le 6 mensilità, i precari che d’ora in poi si presenteranno di fronte al giudice per ottenere l’assunzione, si vedranno rispondere dal giudice che il contratto è nullo. Non è chiaro se questo significherà che il lavoratore debba avere almeno un nuovo contratto a tempo oppure no. Inevitabile dunque che il governo intervenga a modificarla anche se fuori dalla manovra.
LA STAMPA 28 LUGLIO 2008
GIULIA PALMIERI
A vedere i dati, dire che i precari sono la spina nel fianco di Poste italiane è un eufemismo. Le spese legali per i contenziosi chiusi e ancora pendenti sono una vera zavorra per il bilancio aziendale. Solo per il fondo vertenze, a fine 2006, il gruppo guidato da Massimo Sarmi, diventato in questi giorni la «pietra dello scandalo», aveva stanziato più di 141 milioni di euro, mentre l’anno prima si era addirittura arrivati a quota a 350 milioni. Senza contare le spese legali e gli onorari degli avvocati: nei diversi gradi di giudizio se ne sono andati 33 milioni e mezzo. In totale la difesa è costata cara all’azienda: quasi 102 milioni di euro negli ultimi 5 anni. «Molti avvocati si sono davvero arricchiti con noi - spiega il leader della Cisl Poste, Mario Petitto -. Alcuni arrivavano a gestire sino a 3-4 mila cause, con parcelle milionarie».
Gli indennizzi ai dipendenti in causa, invece, arrivavano anche a quota 100 mila euro. Perché il calcolo parte da quando scade il contratto a termine e si ferma solamente quando la causa è conclusa. Insomma, più dura il processo e più guadagnano l’indennizzato ed il suo legale.
Proprio per le cause perse, nel 2006 le Poste hanno dovuto reintegrare 5.124 lavoratori, per lo più postini e sportellisti, che erano stati precedentemente contrattualizzati a tempo determinato. Nella sua ultima relazione di fine 2007 la Corte dei Conti spiega in questi termini la questione: i dipendenti contrattualizzati tra il 1994 e il 2005, «facendo leva sull’impossibilità per un’impresa in fase di ristrutturazione (com’era Poste italiane spa in quegli anni) di assumere personale a tempo determinato, hanno inoltrato ricorso alla magistratura per illegittimità di apposizione del termine ai propri contratti, registrando il parere positivo dei giudici del lavoro». La società ha perso nel 70% dei casi ed è stata obbligata a reintegrare 17.454 di quei precari: dai 1.358 del 2002 agli oltre 4 mila del 2004 e 2005.
Poste è l’azienda italiana con più dipendenti in assoluto: 152.365 unità nel 2006, che corrisponde ad un monte salari di 5,5 miliardi di euro, ovvero il 65,9% dei costi. Dei 5.716 classificati come lavoratori «flessibili», 605 hanno un contratto di apprendistato o inserimento, 926 sono interinali, 4.185 contratti a tempo determinato. Questi ultimi «hanno permesso di fronteggiare le improvvise carenze di personale in prossimità delle festività, delle vacanze estive e delle scadenze periodiche». Risorse, quelle dei lavoratori a tempo determinato, «irrinunciabili per garantire la necessaria flessibiliità dell’operatività aziendale» spiegano ancora i magistrati contabili. E qui i numeri parlano da soli: solo nel 2006 le Poste hanno gestito ben 19.712 contratti la cui durata non ha superato i 2-3 mesi. E nonostante questi problemi e disservizi, soprattutto sul fronte delle consegne, non si sono arrestati.
Secondo i sindacati, la radice del problema è nell’aver voluto proseguire nella stipula dei contratti a termine senza attendere un accordo con i rappresentanti dei lavoratori. Proprio in quel periodo delicato in cui si doveva provvedere alla passaggio verso la società per azioni ed alla ristrutturazione. «Paghiamo ancora le scelte fatte da Passera e Micheli nel ”98-99» denunciano da anni i sindacati aziendali.
L’unica nota positiva in tutta questa vicenda, i soldi che i lavoratori hanno restituito all’azienda nonostante le cause vinte: 191 milioni di euro tornati all’ovile e 10.970 dipendenti assunti in pianta stabile. Questo prevedeva l’accordo che i sindacati firmarono il 13 gennaio 2006, un compromesso che tentava di ristabilire un equilibrio. Altri 15 mila hanno rinunciato alla possibilità di far causa e ne hanno ricevuto in cambio l’inserimento in una speciale graduatoria nazionale cui Poste avrebbe attinto per stabilizzare la situazione, fino al 30 giugno 2009. Ma la situazione è tutt’altro che risolta: nonostante l’impegno di sindacati e vertici aziendali, mesi e mesi di trattative, sono più di 27 mila i procedimenti ancora aperti, mentre sono 7.725 quelli nuovi. Adesso in Parlamento spunta la sanatoria. «Ma questo non servirà a evitare il bagno di sangue come dicono - lamenta Petitto - dovevano farlo quando l’avevamo chiesto noi. Ora non serve a nulla».
LA STAMPA 28 LUGLIO 2008
PIETRO GARIBALDI
L’emendamento sui contratti a termine, approvato a sorpresa in Parlamento, ha toccato uno dei nervi più sensibili della società italiana, quello legato alla precarietà del mercato del lavoro.
In Italia vi sono oggi due mercati del lavoro. Da un lato vi è il mercato primario, dove circa 15 milioni di lavoratori sono assunti a tempo indeterminato con grandi tutele sulla stabilità del loro rapporto lavorativo. Nel caso dei dipendenti pubblici e dei lavoratori delle grandi imprese, la certezza del posto è quasi assoluta. Vi è poi un mercato del lavoro secondario, formato da circa 3,5 milioni di lavoratori precari. Questi ultimi sono i lavoratori a termine, i lavoratori a progetto e tutti quei lavoratori che svolgono mansioni simili a quelle dei lavoratori del primario, ma con protezioni decisamente inferiori.
I lavoratori di questo mercato secondario sono circa il 15 per cento del totale, ma si arriva quasi al 50 per cento tra i lavoratori più giovani.
Lo psicodramma di molti giovani lavoratori riguarda la conversione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato. In un anno poco più del 10 per cento dei lavoratori riesce a fare il tanto desiderato salto. Uno dei modi per forzare la conversione del rapporto di lavoro è quello di impugnare presso il tribunale la regolarità del termine apposto al contratto. In questo caso sarà il giudice a decidere se il termine inserito nel contratto era regolare. In caso di irregolarità un lavoratore di una grande impresa avrà così diritto di essere reintegrato in via permanente sul posto di lavoro. Nel caso dei lavoratori a termine delle Poste, la pratica del ricorso era molto diffusa e determinava quasi automaticamente il reintegro permanente sul posto di lavoro.
L’emendamento approvato dalla Camera è volto ad attenuare i diritti dei lavoratori che vincono la causa. Questi lavoratori avrebbero d’ora in poi diritto soltanto a un indennizzo monetario fino a sei mesi, senza poter essere reintegrati sul posto di lavoro. C’è già chi parla di incostituzionalità della norma. Al di là dei dettagli giuridici, è comunque evidente che il sistema vigente non funzioni e che sia necessario un riordino della disciplina. Non a caso, durante l’ultima campagna elettorale, quello del precariato è stato uno dei temi più dibattuti.
La soluzione per superare la situazione attuale e i paradossi esistenti si può trovare. Si dovrebbe istituire un nuovo contratto che mantenga la flessibilità nelle assunzioni per le imprese, ma che al tempo stesso garantisca ai lavoratori un sentiero certo di lungo periodo, senza ricorsi in tribunale e senza psicodramma da conversione. Il «contratto unico a tutele crescenti nel tempo», proposto da diversi mesi sulla voce.info, rappresenta esattamente questa soluzione. Sarebbe un contratto a tempo indeterminato fin dall’inizio. Tuttavia, le imprese avrebbero diritto a interrompere il rapporto di lavoro nei primi tre anni dietro il pagamento di un indennizzo che crescerebbe con la durata del lavoro.
Le soluzioni tecniche non mancano. però evidente che un tema tanto sensibile richieda una seria discussione in Parlamento e un coinvolgimento delle parti sociali, fermo restando che la maggioranza ha il diritto-dovere di decidere i dettagli della nuova disciplina. Una riforma dei contratti di lavoro è però cosa diversa da un’imboscata parlamentare, come frettolosamente avvenuto la scorsa settimana.
pietro.garibaldi@carloalberto.org
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CORRIERE DELLA SERA 28 LUGLIO 2008
PAOLO FOSCHI
ROMA - «Perché queste polemiche solo adesso, a scoppio ritardato? Dov’era l’opposizione quando l’articolato è stato approvato? Nessuno del Pd ha espresso contrarietà nel merito, anzi...»: Giancarlo Giorgetti, presidente della Commissione Bilancio della Camera ed esponente della Lega Nord, difende la norma sui precari finita al centro della bufera. E va al contrattacco. «Un blitz notturno? Non è vero. stato tutto trasparente. Alcuni deputati della maggioranza hanno presentato vari emendamenti, che sono stati unificati e fatti propri dai relatori. Poi il governo, con una modifica, ha recepito il testo nel maxi-emendamento. Tutto ciò accadeva dieci giorni fa. Oggi alzano la voce. Mi sembrano attacchi strumentali».
«Siamo intervenuti - aggiunge il deputato del Carroccio - per impedire a chi dieci anni fa ha lavorato alle Poste per soli tre mesi, magari su chiamata di un dirigente amico, di essere assunto senza concorso. Non abbiamo alcuna intenzione di comprimere i diritti dei precari. Però una situazione del genere deve essere corretta». Una rivalsa contro la «Roma ladrona» dei ministeri e degli enti pubblici? «No, un atto di giustizia», taglia corto Giorgetti.
Dietro il contestato provvedimento, c’è anche la mano di un deputato che nei giorni scorsi aveva scatenato non poche polemiche, creando imbarazzo nella maggioranza: Maurizio Fugatti, leghista veneto, che era riuscito con un emendamento presentato in tarda notte a far azzerare i vertici dell’Autorità dell’Energia. Un colpo di spugna poi cancellato dal governo. Fugatti, insieme a tre compagni di partito (Gianluca Forcolin, Silvana Andreina Comaroli e Matteo Bragantini) è il firmatario di uno dei primi embrioni della norma-anti precari. «Ma il nostro testo - spiega il leghista - riguardava in maniera esplicita solo i lavoratori precari delle Poste». Qualcuno ha insinuato che il testo sia stato imbeccato da Confindustria o dalle stesse Poste: « stata una nostra iniziativa autonoma, per sanare una palese ingiustizia», replica Fugatti.
L’emendamento - come si legge negli atti parlamentari - era arrivato all’esame delle commissioni Bilancio e Finanze l’8 luglio, insieme ad altri testi simili presentati da Gioacchino Alfano, del Pdl, e da Massimo Enrico Corsaro, esponente di An, ex assessore della Lombardia all’Industria. «Nel mio emendamento non si fa alcun riferimento alle Poste, era pensato per tutte le aziende che sono gravate da questi contenziosi. Ed è finalizzato a fornire un indennizzo in tempi rapidi ai lavoratori, senza dover attendere per anni una sentenza», dice Corsaro. A quel punto sono intervenuti i relatori della legge, Giorgio Jannone e Marino Zorzato, entrambi del Pdl, che hanno fatti propri gli emendamenti in un testo unificato, poi recepito nel maxi- emendamento del governo con una modifica: l’indennizzo in cambio del reintegro nel posto di lavoro riguarda «solo (e non anche) coloro che hanno vertenze in corso». E adesso la polemica infuria. «Ho sentito un ministro (Maurizio Sacconi, ndr) dire che il governo non riconosce la paternità del provvedimento commenta con amarezza Massimo Corsaro - , ma se hanno inserito la norma nel maxi- emendamento evidentemente non la consideravano sbagliata. Non capisco perché ora prendano le distanze... ». Forse perché - suggerisce un deputato romano di An chiedendo l’anonimato «martedì (domani) il governo incontra i sindacati. E con tanti fronti di protesta aperti, sui precari è forse meglio abbassare i toni».
Paolo Foschi
CORRIERE DELLA SERA 28 LUGLIO 2008
STEFANIA TAMBURELLO
ROMA - La norma anti-precari sta scatenando un vero pandemonio. L’opposizione chiede a gran voce la sua cancellazione («Siamo al paradosso» commenta Pierluigi Bersani, ministro ombra del Pd), mentre per ora il governo si limita a disconoscerne la paternità. Con una eccezione, quella del ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta, che prima afferma senza esitazione che la «norma va rivista» e poi in serata si schiera con la presa di distanza assunta dal ministro del Lavoro, Maurizio Sacconi. Più cauta Giorgia Meloni, responsabile del dicastero per Politiche giovanili, per la quale la norma «rischia di creare disparità di trattamento tra medesime situazioni». Per il sottosegretario alla Presidenza Paolo Bonaiuti «l’emendamento è nato in Parlamento e siccome riguarda quattro milioni di giovani è bene che se ne discuta in Parlamento ». A chiedere la rapida modifica della nuova regola sono Enrico Letta, ministro ombra del Pd, e Pierferdinando Casini, Udc. Oltre, ovviamente, all’intero mondo sindacale: la manovra «è tutta di tagli e deprime l’economia », afferma il leader della Cgil, Guglielmo Epifani. Ed intanto si apre un altro fronte, quello delle casalinghe escluse dalla norma, contenuta nella manovra, che concede l’assegno sociale solo a chi ha lavorato per almeno dieci anni.«Basta coi diritti traditi, noi siamo state tutte con Berlusconi e lui un ringraziamento ce lo deve dare» dice la presidente di Federcasalinghe Federica Rossi Gasparrini.
Ma nè le casalinghe nè i precari, sembrano destinati, per lo meno per ora, ad essere accontentati. Il governo infatti pare intenzionato a blindare la manovra. Tanto che sta studiando anche il modo di accogliere, senza dover mettere le mani nel provvedimento, le osservazioni del Quirinale sulla flessibilità del bilancio. Non per nulla al ministero del Lavoro, si sta mettendo a punto una nuova norma sui precari da inserire nel disegno di legge che completerà la manovra. In ogni caso il pallino per ora lo ha proprio il dicastero dell’Economia, dove peraltro si ritiene che si tratti della classica «tempesta in un bicchiere d’acqua ». Sarà proprio Giulio Tremonti, infatti, a dover probabilmente suggerire le possibili soluzioni.
Nel frattempo ci si interroga sull’ambito di validità della norma.
«E’ molto limitata nei numeri e riguarda soprattutto le Poste », confermano gli autori dell’emendamento, un gruppo di deputati della Lega, guidato da Maurizio Fugatti, e del Pdl, capeggiati da Gioacchino Alfano. In realtà la loro proposta, che consente al giudice del lavoro di stabilire un indennizzo da 2 a 6 mensilità al posto dell’assunzione per il precario che chiede al tribunale la regolarizzazione del posto di lavoro, era più ampia: riguardava tutti e solo un intervento tardivo del governo, addirittura dopo la stampa del testo, aveva delimitato il raggio d’azione a «solo» i contenziosi in corso. Trasformando così una regola generale in una norma «transitoria ». In una sorta di «sanatoria » come fanno sapere dal ministero del Lavoro. Che interesserà, una volta approvata, soprattutto i 13 mila aspiranti dipendenti delle Poste ma anche i lavoratori precari di banche editoria, e Rai.
Stefania Tamburello