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 2008  luglio 28 Lunedì calendario

VENDOLA VINCE IL CONGRESSO DI RIFONDAZIONE COMUNISTA

CORRIERE DELLA SERA 28 LUGLIO 2008
MARIA TERESA MELI
«Questo non è un partito, ma una comunità terapeutica»: Nichi Vendola ha l’aria sconvolta e la palpebra che vibra come per un impercettibile tic. E’ l’una e mezza di notte e tra qualche ora il governatore della Puglia annuncerà il suo ritiro dalla corsa alla segreteria di Rifondazione comunista.
E’ la notte più tormentata dei bertinottiani. Quella in cui, per la prima volta, si accorgono senza alcuna possibilità di dubbio, che ormai è andata, che il rivale Paolo Ferrero ha vinto il congresso.
Nell’atrio dell’albergo dove alloggiano i dirigenti della maggioranza divenuta nel giro di poche ore minoranza, Vendola si sfoga: «Ci sarebbe da chiamare il 113 per come si comportano. Una cosa raccapricciante: sono peggio della destra».
Mentre parla, il governatore lascia andare ogni tanto l’occhio nel vuoto, quasi pensasse: «Ma chi me l’ha fatto fare ». «Hanno preparato – continua – un documento delirante: vogliono fare la costituente comunista».
Ma siccome è un uomo intelligente, a Vendola non sfugge che quel che è successo è anche colpa della fu maggioranza di Rifondazione: «Abbiamo guidato questo partito per anni e anni e non avevamo capito com’era fatto, e così ha vinto Ferrero che sarà segretario proprio come voleva lui». «E che – aggiungerà più tardi l’ex leader Franco Giordano – aveva pianificato tutto da tempo».
Il governatore si infila in ascensore. Trascorre una manciata di minuti e arriva Fausto Bertinotti. Prima scherza (ma mica tanto) con un amico: «Qui bisogna cominciare a temere per la nostra incolumità fisica. Questi sono peggio di Antonio Di Pietro: riapriranno tutte le galere ».
Quel che ha impressionato, e non poco, l’ex presidente della Camera sono stati i pugni chiusi e l’inno utilizzati per «intimidire» quelli che non avevano ancora deciso se votare o meno Ferrero. E’ tardissimo, ma Bertinotti si ferma davanti all’albergo con qualche giornalista e un po’ di aderenti alla componente. Non ha l’aria esasperata di Vendola, cerca di razionalizzare quel che è accaduto e riflette ad alta voce: «Abbiamo perso e dobbiamo fare autocritica perché non lo avevamo immaginato. Ora l’unica cosa che possiamo fare è ritirare Nichi, toglierlo da questo guazzabuglio: si eleggano il loro segretario».
Il giorno dopo però l’ex presidente della Camera appare meno propenso ai ragionamenti e molto molto più stufo della situazione. Tanto che dopo che i ferrariani, per controllare i loro, hanno ottenuto la votazione per appello nominale dei documenti politici e non per semplice alzata di mano e di delega, Bertinotti sale sul palco e dice rivolto alla platea: «Voto la mozione due, ma lo avrei fatto anche dal mio posto». Poi mentre scende gli sfugge un «Vaff...» indirizzato di tutto cuore a Ferrero e soci.
Ma al di là degli insulti e delle autocritiche, Vendola e i suoi devono ora affrontare un problema non da poco. «Potrei fare la secessione della Puglia», scherza il governatore. Ma sa che la scissione potrebbe essere uno degli esiti di questo congresso. Ovviamente non ora, onde evitare che la sinistra scompaia. Magari tra un anno... Adesso però è una prospettiva assai lontana a cui il presidente della giunta regionale pugliese non vuole neanche pensare. E Bertinotti alla domanda risponde solo con un enigmatico: «Io saprei cosa fare ma deve essere Nichi a decidere». E la decisione è quella di restare.
La formula si chiama «separati in casa». Perciò niente ingresso nella segreteria del partito, come confermano sia l’ex capogruppo Gennaro Migliore che Vendola. In compenso la corrente ha già un nome, Rifondazione per la sinistra (e non è un caso che il termine "comunista" non sia presente in nessuna versione e non ci sia neanche una vaga allusione). Ha un compito, quello di creare una sorta di partito nel partito: la corrente farà tessere per iscrivere al Prc più gente possibile e si doterà, come spiega Vendola, «di strumenti di lotta politica e d’informazione».
E Rifondazione per la sinistra ha anche un obiettivo. Lo spiega Rina Gagliardi, ex senatrice e bertinottiana di ferro: «Non è affatto detto che questo nuovo gruppo dirigente regga. Sono troppo diversi, litigheranno su tutto, c’è la possibilità che tra meno di un anno scoppino e a quel punto...». A quel punto la situazione potrebbe ribaltarsi.
Maria Teresa Meli


CORRIERE DELLA SERA 28/7/2008
FABRIZIO RONCONE
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
CHIANCIANO – Finisce male. Un caldo schifoso, zanzare, compagni che si voltano e ti dicono: «Paolo Ferrero? Paolo chi? Boh, no, scusa...». Pessimo affare quando i comunisti litigano. Questi di Rifondazione, poi, sono degli specia-listi: feroci da subito. Dall’inizio. Dal primo congresso.
«Che anno era?». Giovanni Russo Spena, rifondarolo dalla fondazione (veniva da Democrazia proletaria) ha certi suoi modi eleganti e un po’ confusi. «Ah, sì, certo: era il 1991... Beh, anche allora... ti dico una cosa che pochi ricorderanno: l’ultimo giorno di congresso, fui addirittura costretto ad organizzare una delegazione per andare a casa di Sergio Garavini, segretario ormai in pectore, e pregarlo... non ricordo se qualcuno fosse in ginocchio, ma può darsi... e pregarlo di venire a concludere con la relazione finale ». Perché voleva restarsene a casa? «Perché sosteneva che Cossutta, pur di diventare presidente del nuovo partito, avesse modificato lo statuto senza consultarlo ». Garavini fu commosso dal vostro pellegrinaggio? «Fu commosso, sì, e divenne segretario».
Ma durò due anni. Ventiquattro mesi di furibonde guerre sotterranee con l’Armando, che aveva imparato l’arte del complotto politico studiando direttamente al Cremlino; finché, sull’italico orizzonte rosso, non comparve un ex gran capo della Cgil polemicamente uscito dal Pds, Fausto Bertinotti, già all’epoca dotato di erre alla Gianni Agnelli e di morbidi maglioni di cachemire («sebbene il primo, ci crediate o no, lo acquistammo al mercatino dell’usato di via Sannio, a Roma»: giura sua moglie Lella, grande amica di Valeria Marini).
Cossutta pretende che Bertinotti diventi subito segretario (23 gennaio 1994). Ma, già un anno dopo, deve affrontare un clamoroso caso: 14 deputati votano infatti la fiducia al governo di Lamberto Dini, ex ministro berlusconiano sostenuto da Lega Nord, dal Ppi e dal Pds. In giugno, i soliti 14 deputati, più 3 senatori, più 2 europarlamentari, più un gruppo di dirigenti guidati da Luciana Castellina e Lucio Magri, escono dal Prc per dar vita al Movimento dei Comunisti Unitari, che tre anni più tardi confluirà nei Ds.
Il partito, nonostante tutto, è però in salute, assorbe gli scossoni e il 21 aprile del 1996 raggiunge il suo massimo storico (8,6%). Segue appoggio esterno al governo di Romano Prodi. E segue la prima bordata di discorsi cui Bertinotti ci abituerà: il boicottaggio della Nike e l’atelier delle sorelle Fendi, l’amicizia con il subcomandante Marcos e la passione per il Grand Hotel di Rimini.
Un frullato. Un comunismo a volte misterioso. Mozioni ed emozioni. Qualcosa che comincia a diventare romantico e visionario. Finché Cossutta non ci sta più. Il 16 settembre 1999, il governo presenta la Finanziaria. A Bertinotti sembra un eccellente argomento per chiudere; Cossutta è per la trattativa. Ma perde.
«Tranne Cossutta – ripete ancora adesso Bertinotti – nessuno mi ha mai definito stalinista. La sua è chiaramente una patologia». Il 5 ottobre Cossutta si dimette da presidente. Quattro giorni dopo, il governo Prodi cade; 48 ore, e i sostenitori di Cossutta fondano il Partito dei comunisti italiani. Bertinotti sorride. Frequenta i salotti più chic. Rilascia interviste: «L’economicismo non si presenta più come un atteggiamento povero di antagonismo reale, ma si trova costretto a scegliere...».
La strategia, almeno, è più chiara: delineare meglio il nuovo corso del Prc e puntare su un partito più marxista e meno leninista, sostanzialmente più movimentista. Per tragica coincidenza, arrivano gli scontri del G8 di Genova e l’inizio della grande stagione pacifista. così che il partito entra nel movimento.
«La nostra stagione migliore», ammette, cupo, Ferrero. Poi gli anni sono volati con una rapidità che non avrebbe sorpreso Quasimodo. L’idea di fondare «un partito europeo di sinistra alternativa». Poi il terribile congresso di Venezia (marzo 2005): che molti compagni considerano come l’inizio della fine. Di lì a poco, Bertinotti deciderà di provare a essere di lotta e di governo, andrà a sedersi sulla poltrona di presidente della Camera, mentre il no global Francesco Caruso farà il deputato coltivando piantine di marijuana alla Camera e Vladimir Luxuria vi farà ingresso in tailleur rosso lacca. Il segretario Franco Giordano, a Vicenza, sfiderà la folla inferocita di militanti che manifesta contro la costruzione della nuova base militare. Franco Turigliatto, sottoposto a processo politico, verrà espulso – «Hai tradito e boicottato la linea politica del partito...» – e andrà a rinforzare lo schieramento degli esuli, da Marco Ferrando a Salvatore Cannavò. Lo stesso Bertinotti, all’università La Sapienza, verrà contestato duramente, con fischi e grida dai giovani compagni dei collettivi: «Sei un guerrafondaio ». Le elezioni dello scorso aprile, come si sa, hanno poi fatto il resto. Ragioniamo, ricordiamo, e ci sono compagni che scuotono la testa, che si mordono le labbra, camminando nei vialetti di questa stazione termale ed è curioso vedere tanta gente che viene qui per cercare di allungarsi la vita, mentre un partito ha invece scelto Chianciano, bizzarro, no? per iniziare la sua agonia.
Fabrizio Roncone

CORRIERE DELLA SERA 28 LUGLIO 2008
MARIA TERESA MELI
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
CHIANCIANO – E a sorpresa (amara sorpresa per Vendola e i suoi che capiscono solo la sera prima di aver perso), Paolo Ferrero viene eletto segretario di Rifondazione comunista.
L’ex ministro della Solidarietà sociale che per mesi aveva detto e ridetto che mai si sarebbe candidato alla leadership del partito oggi è sceso in campo.
Ma quelle erano dichiarazioni ufficiali. In realtà era da tempo che Ferrero mirava a questo obiettivo. Ed è riuscito a raggiungerlo, pur non avendo ottenuto la maggioranza sulla sua mozione, unendosi con le altre minoranze. Nel nome del comunismo, della lotta al «progetto dell’Unione Europea » e della riesumata battaglia «contro la Nato», com’è scritto nel documento.
 una vittoria che spacca il partito, quella dell’ex ministro. Ferrero infatti viene eletto con pochi voti di scarto: 142 voti favorevoli contro 134 contrari. Di più: se ai no si aggiungono le schede bianche e gli astenuti, l’ex ministro vince per soli 2 voti.
Vendola, che sulla sua mozione aveva la maggioranza relativa, ufficializza il ritiro della candidatura in una conferenza stampa.
Ma il «governatore» della Puglia parla anche prima, dal palco, per ammettere la sconfitta: «Questo esito è la fine della storia di Rifondazione. Questo congresso è il compimento della sconfitta della sinistra e ha prodotto un arretramento culturale. Ma noi non intendiamo abbandonare per un attimo, per un millimetro Rifondazione comunista. Staremo qui a costruire la nostra battaglia».
Vendola annuncia la costituzione di una sua componente, Rifondazione per la sinistra, e assicura che non se ne andrà. Però non rinuncia a dire che il Prc versione Ferrero «rischia la marginalità».
Ed effettivamente le paure sono tante. Soprattutto nella componente ex pci che si è unita a Ferrero. Con qualche compagno di partito persino Claudio Grassi ammette: «Sarà difficilissima, ma noi non potevamo fare altro che votare Ferrero ». Il quale Ferrero ha l’espressione di chi finalmente ha raggiunto il suo scopo.
La sua elezione viene accolta con Bandiera Rossa e l’Internazionale, mentre si levano i classici pugni chiusi.
Di questo congresso di Rifondazione comunista resta l’amarezza dell’ex segretario Franco Giordano, che dopo la sconfitta elettorale si era dimesso: «Io l’ho fatto perché lo ritenevo giusto e non potrei più riprendere un posto di vertice per coerenza. Ferrero, che era l’unico nostro ministro nel governo Prodi, in quel governo, cioè, che secondo lui è stato la causa del nostro insuccesso elettorale, si è candidato a fare il segretario. Come se non avesse nessuna responsabilità nella nostra sconfitta».
Ferrero fornisce la sua versione dei fatti: «Io ho ammesso subito i miei errori e forse i militanti hanno apprezzato il fatto che un dirigente abbia ammesso di aver sbagliato ».
Dall’altra parte la pensano in maniera assai diversa. L’ex sottosegretario Alfonso Gianni lo spiega con una sola parola: «Ipocriti ».
M. T. M.

CORRIERE DELLA SERA 18/7/2008
FABRIZIO RONCONE
DA UNO DEI NOSTRI INVIATI
CHIANCIANO – «Vuole intervistarmi? E perché? Per farmi fare la comunista nostalgica?».
No, signora Angela Scarparo: solo per chiederle qualcosa del suo compagno...
«Il compagno Paolo Ferrero».
Appunto.
«Beh, le dirò: è valdese nella testa, nell’animo. Ed è questo, credo, che piace, che è piaciuto ai militanti».
Sia un poco più precisa.
«Ha un rigore estremo. Se dice una cosa, è quella. Se promette, mantiene. E infatti, guardi, viverci insieme...».
Cosa?
«Mi esaspera. Vede, io sono di origine meridionale, i miei genitori sono napoletani... e, insomma, un conto è essere inflessibili nella vita politica, un conto nella vita privata».
Esempi?
«Ha una fissazione: pur vivendo, in pratica, negli alberghi, non sopporta l’idea di farsi servire il caffè in camera. Gli pare brutto. E sa quand’è stato il primo giorno che ci siamo concessi questo normale sfizio?».
No, quando?
«Questa mattina. Ma ho dovuto pagare io, di nascosto, la cameriera».
Un modo per festeggiare.
«Lo ammetto: quando dopo il suo intervento, mentre tornava al suo posto, i compagni han cominciato a cantare Bella ciao e, dopo, Bandiera rossa... beh, è stato un momento di gioia. Paolo è stato ripagato del suo impegno, della sua coerenza ».
Solo che adesso l’esperienza di Rifondazione volge al tramonto...
«Può essere la fine di tutto, ma anche l’inizio di tutto».
Lei è una comunista retorica.
«Io sono una compagna di base. E penso che sia finito il tempo di gestire i conflitti, è di nuovo ora di provocarli. Oggi, chi non ha una casa, non protesta perché tende a vergognarsi... mentre noi, negli anni Settanta, le battaglie per la casa, le occupazioni le abbiamo fatte con successo. Ecco, dico che è il momento di ricominciare».
Un’ultima domanda: come andò, nel 1993, con il filosofo Giacomo Marramao?
«Lo denunciai pubblicamente. C’era già la moda delle veline, e io non avevo alcuna voglia di essere simpatica in cambio di una recensione favorevole...».
Accusa spiacevole. Vi siete più incontrati?
«Incontrati, e chiariti. Ciascuno prendendosi le proprie colpe. Lui ammettendo di aver detto cose che potevano essere fraintese. E io spiegando che, senza dubbio, all’epoca ero un po’ troppo bacchettona...».
Fa. Ro.
Militante Angela Scarparo, compagna di Paolo Ferrero

CORRIERE DELLA SERA 28 LUGLIO 2008
PAOLA DI CARO
ROMA – Senza magari fare il tifo, ma Nicola Latorre la sua preferenza per una Rifondazione comunista guidata da Nichi Vendola l’aveva espressa. E oggi che il governatore della Puglia esce sconfitto dalla sanguinosa battaglia congressuale che ha squassato il Prc, il vice capogruppo del Pd al Senato, dalemiano doc, non fa passi indietro: «Avevamo ragione noi a dire che le due piattaforme congressuali erano radicalmente alternative: una, quella di Vendola, interpretava l’idea di un soggetto politico profondamente innovativo nella forma, e orientato a portare in una esperienza di governo le istanze di una sinistra radicale. L’altra piattaforma invece mette insieme di tutto, dalle case del popolo ai trotzkisti, si espone a rischi - va in piazza Navona e si ritrova alleata con chi, su temi come l’immigrazione, ha posizioni di destra - , è un rassemblement di un’altra epoca, tutto identitario, che si rifugia in accampamenti ormai vuoti, vecchissimi, in cui non si danno risposte alla crisi aperta dal voto di aprile e in cui si ripetono parole che non significano più nulla».
Una di queste parole d’ordine però è molto chiara: mai più alleanze con il Pd.
«Quel che è veramente grave, è che viene negata la possibilità di portare la sinistra radicale in una sinistra di governo. E questa impostazione pone un problema serio non tanto rispetto all’alleanza con il Pd, visto che non ci sono elezioni politiche in vista, ma rispetto alle esperienze di governo locale ».
Sta dicendo che sarà difficile, nelle giunte dove governate assieme, la convivenza tra Pd e Prc, e ancora di più l’alleanza per i prossimi voti locali?
«Beh, oggettivamente si aprono interrogativi molto seri, ci sono problemi da superare. E l’onere di dare risposte sarà di chi ha vinto il congresso».
Lei si troverebbe in difficoltà, oggi, a stringere alleanze sul territorio con il Prc di Ferrero?
«Se dovessi votare domani in Puglia, non avrei alcuna difficoltà a riproporre l’alleanza con Vendola. Per il resto, vedremo quello che succederà».
Ritiene possibile una scissione tra le due anime di Rifondazione?
«Sarebbe inutile fare congetture, sto alle dichiarazioni dei protagonisti. Certo, dal punto di vista politico, le due ipotesi in campo pongono visioni fortemente alternative. Bisognerà capire come la minoranza di Rifondazione intenderà far valere le proprie ragioni nel partito. Ma, e lo dico con tutto il rispetto per il Prc, vedo molto inconciliabili le due posizioni...»
Adesso che Rifondazione sceglie posizioni sempre più antagoniste, al Pd toccherà spostarsi a sinistra per raccogliere i consensi dei delusi della sinistra radicale?
«Certamente il Pd ha, ancor più di prima, la responsabilità di mettere in risalto il carattere riformista della nuova sinistra che rappresentiamo, e che deve allargare il suo raggio di azione. Perché è indubbio, c’è un’area sempre più vasta dal punto di vista sociale che reclamerà rappresentanza sociale al Pd».
E questo, a proposito di alleanze da ricostruire, non rischia di scoprirvi al centro?
«Non credo proprio. Il Pd non può rinunciare a rappresentare la sinistra riformista di questo Paese, sono sicuro che è una necessità condivisa anche dai tanti cattolici che sono con noi, da chi viene dalla Margherita... Non dobbiamo rimanere prigionieri degli schemi. Dobbiamo invece aspirare a conquistare un consenso sempre più ampio con un impianto politico e culturale che vada oltre le culture del ’900 e interpreti le esigenze vere del Paese».
Paola Di Caro


COMMENTO DELLA STAMPA DI CUI NON RIESCO A SCARICARE LA FIRMA
28 LUGLIO 2008
La storia non finisce mai, ma a volte mette la retromarcia. Una retromarcia così vistosa, così rapida, così spericolata che l’automobile potrebbe anche sbattere irrimediabilmente contro un muro. Questo rischia di accadere a Rifondazione comunista, vista la conclusione del congresso di Chianciano. Oppure, già che siamo in clima comunista (molto comunista), possiamo anche parafrasare Lenin e dire che il partito che fino a ieri è stato di Bertinotti, e che da oggi è di Paolo Ferrero, fa un passo indietro per farne altri due indietro.
La sconfitta di Nichi Vendola, che pure aveva ottenuto la maggioranza relativa ma non quella assoluta necessaria per diventare segretario, è una sconfitta che significa la cancellazione di tutto quello che è stato - nel bene e nel male - il partito guidato da Bertinotti. Con le sue svolte culturali e politiche, la rottura con la tradizione comunista più ortodossa, la scelta della non violenza, i rinculi movimentisti e a volte estremisti, ma anche la decisione di allearsi con il centrosinistra per tentare addirittura l’avventura del governo (avventura però fallita). Una sconfitta che cancella anche qualsiasi ipotesi di alleanze future, dal Pd a quel che resta della sinistra radicale (tranne forse con i comunisti duri e puri di Diliberto).
Niente di tutto questo, la Rifondazione di Ferrero sarà un partito autarchico, molto identitario (dove l’identità sta nell’essere comunisti, che poi nessuno è ancora riuscito a spiegare che diavolo significhi nel terzo millennio), che non guarda la sfera della politica ma passa oltre per immergersi nel «bagno purificatore» del sociale e magari del giustizialismo di Di Pietro, che con la tradizione rifondarola non c’entra nulla «ma che almeno fa opposizione». Un partito che riscopre antiche parole d’ordine, slogan e inni che solo a sentirli non fanno venire nostalgia di un passato remoto ma glorioso, semmai provocano la sensazione sgradevole di non sapere più dove si sta, in che mondo si vive, in quale periodo storico. E soprattutto per fare che (ancora Lenin), con chi, quando, come...
Un tuffo all’indietro, insomma, a occhi chiusi e senza neanche sapere se sotto c’è un po’ d’acqua. Non indirizzato verso la tradizione comunista italiana, insomma il Pci, ma molto più modestamente ai quei gruppi extraparlamentari degli anni Settanta (e pure a quelli meno innovativi) che se non funzionarono allora, figuriamoci oggi. Mettendo oltretutto insieme pezzi sparsi che non c’entrano nulla l’uno con l’altro, vecchi militanti di Democrazia proletaria (appunto Ferrero e Russo Spena) con uomini nati e cresciuti nel Pci e poi nella Rifondazione cossuttiana (Grassi e Burgio), improbabili trotzkisti e comunisti anti-imperialisti, qualche scampolo stalinista. Una maggioranza fatta ad hoc, costruita artificialmente per battere Vendola, Giordano, Bertinotti.
I quali escono da questo congresso non solo sconfitti ma anche increduli, come se avessero scoperto solo oggi che genere di partito è il loro (o forse era, chissà quanto resisteranno lì dentro). E qui una qualche responsabilità dell’ex leader e di tutti quelli che per quattordici anni hanno gestito Rifondazione non manca, anzi. Cosa facevano, dove guardavano, chi pensavano di rappresentare mentre il loro partito gli si trasformava sotto gli occhi, cambiando così radicalmente natura? Un accenno di autocritica (altro concetto caro al comunismo storico) sarebbe stato gradito. Purtroppo non c’è stato.