Barbara Spinelli, La Stampa 27/7/2008, 27 luglio 2008
L’estate è la stagione in cui si è più disposti a leggere o a rileggere i grandi libri. La Stampa ha chiesto alle sue firme di raccontare ai lettori i capolavori della letteratura mondialeMoby Dick nasce come libro sulla malinconia
L’estate è la stagione in cui si è più disposti a leggere o a rileggere i grandi libri. La Stampa ha chiesto alle sue firme di raccontare ai lettori i capolavori della letteratura mondialeMoby Dick nasce come libro sulla malinconia. L’incipit è sulla malinconia, il colossale epilogo ha tristezza sublime, l’ordito è intinto in umor nero. Il giovane narratore confessa in apertura che per questo, un giorno, si decise a prendere il mare. Ismaele non ha più «nulla che lo interessi, a terra». Sulla sua anima è sceso un novembre umido e piovigginoso, d’un tratto scopre in sé la propensione a fermarsi dinanzi alle agenzie di pompe funebri, le sue labbra tendono ad atteggiarsi al torvo. Il mare è per lui «il surrogato della pistola o della pallottola. Con un bel gesto filosofico, Catone si getta sulla spada: io quieto mi metto in mare». L’unico modo di «cacciare la malinconia e regolare la circolazione» è andare a vedere la parte acquea del mondo. Giacché «acqua e meditazione sono sposate per sempre». Giacché si rinasce anche dal basso, iniziandosi all’abisso. Questo è Moby Dick: catabasi nell’anima, nei suoi portenti atroci o eccelsi. Viaggio alla sorgente dell’essere, del divino. Ogni personaggio, ogni animale, cominciando dal capitano Achab, partecipa a quest’impresa che dall’umor nero veleggia verso il bianco misterico della Balena. triste anche il Pequod, col suo equipaggio di reietti, cannibali: la «nera tragedia della nave malinconica» tramuta il legno in persona. Paura e solitudine trasformano Pip, il marinaio demente, in anima afflitta, dunque eletta. Le «genealogie degli alti dolori mortali» s’estendono ai profeti, allo stesso Creatore: «Il segno della nascita, triste e incancellabile dalla fronte dell’uomo, non è che l’impronta dell’afflizione di chi l’ha impresso». Il romanzo di Herman Melville ondeggia come i testi profetici, la lingua possente è presa dalla Bibbia di Saint James. Potresti trascriverlo in versi ed è lungo salmo. Non a caso, già nel nono capitolo compare - nel sermone di Mapple - la storia di Giona. Giona è il profeta fuggiasco, il più malinconico e riluttante fra i veggenti. Con tutte le forze elude la chiamata divina. Fugge da Giaffa verso Tarsi, estremo Occidente del mondo allora conosciuto (per padre Mapple è Cadice). Più volte respinge Dio: meglio sarebbe morire, tanto grave è l’opera. Sono tanti, in Melville, a possedere le stigmate di questa riluttanza esistenziale. Sono i segnati dalla sconfitta, i votati all’impossibile: guardano fisso il sole (Achab è un eliotropio). «Preferirei di no», proclama d’un tratto lo scrivano Bartleby, altro eroe afflitto, e incrocia le braccia fino a lasciarsi morire. Anche Giona «preferisce di no», fino al giorno in cui s’inabissa e parla. Moby Dick è il romanzo dell’eterna inclinazione umana a sprofondare in un pensiero esclusivo, che lo abita tutto. Il pensiero di Achab è trovare la bianca balena che un giorno gli amputò la gamba, e sfidarla in un’ultima resa dei conti. Ancor più: è regolare i conti con Dio. Nella lotta genererà, come Prometeo, l’avvoltoio che lo dilanierà. Moby Dick è il poema d’un pensiero dominante e di come esso possa inghiottire, trasformare, procreare il proprio distruttore. il pensiero dominante esaltato da grandi malinconici come Leopardi: «Dolcissimo, possente, / Dominator di mia profonda mente; / Terribile, ma caro / Dono del ciel; consorte / Ai lùgubri miei giorni». Se vuoi questo, se vuoi catturare la tua Moby Dick, se vuoi creare l’Opera, è la via del profeta riluttante che imboccherai: accetterai d’esser inghiottito dal grande pesce, che è poi il rinascere che Gesù, di notte, insegna a Nicodemo. Scenderai come Giona «alle radici dei monti», dov’è l’acqua del mondo. L’acqua si sposa non solo col meditare ma con la metánoia, il mutare della mente. La lacrima di Achab cade nel mare, e «tutto il Pacifico non conteneva tante ricchezze che valessero quella misera goccia». Anche lo scrivere è questo: come spiega Mapple, occorre che «tutto il mondo marino del dolore trascorra sul suo capo» perché Giona apprenda il «dovere del Verbo», divenga Pilota del Dio Vivente, Parlatore di Cose Vere: perché gli scrittori «s’innalzano e crescono con l’argomento», tanto più se l’argomento è il grande Leviatano: plasmato perché nel mare si diverta e scherzi con Dio. Scendere alle radici dei monti è scandagliare pezzo per pezzo il Leviatano (la coda, la gobba, lo strato grasso che avvolgendolo gli consente di restar caldo nell’Antartico) e capire che qui è il suo arcangelico predominio, la sua ubiqua immortalità: «Vivi anche tu in questo mondo senza appartenergli!». Moby Dick non è l’unica opera in cui Melville esalta il precetto di San Paolo. Mapple «pare inginocchiato a pregare dal fondo dell’Oceano». Dall’estraneo fondo marino Giona trova il verbo che non aveva, il Verbo del Vero. Bartleby muto e Billy Budd balbettante sono l’innocenza, ma Giona aggiunge all’innocenza l’iniziazione alla verità. Così la sconsolata cerca della Balena. Ma la verità inseguita da Achab è smisurata, vicina al demoniaco. Questa «verità senza riva» il capitano la troverà solo accordandosi con Satana, la vorrà come Prometeo vuole l’avvoltoio che lo divora. Già Didone, nell’Eneide, sapeva la via: «Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo» - Se non potrò commuovere i celesti, moverò Acheronte. In una lettera del 29 giugno 1851 all’amico Nathaniel Hawthorne, Melville spiega il «segreto motto» del libro: «Ego non baptiso te in nomine». Sono le parole che Achab pronuncia consacrando la lama al Leviatano: «Ego non baptiso te in nomine patris, sed in nomine diaboli». Achab non ucciderà Moby Dick. Non potrebbe d’altronde, perché il Leviatano è giocattolo di Dio e sopravvive all’uomo: come le tartarughe delle Encantadas, precorre i mostri di Lovecraft. Tutto questo peregrinare sfinisce in una sconfitta monumentale, con il Pequod naufragato. Proprio qui è la grandezza. Tutti gli eroi di Melville sono perdenti: Bartleby, Benito Cereno, Billy Budd, Pierre. Singolare America: in pieno ”800, la sconfitta è maestra di vita. «C’è una saggezza che è dolore; ma c’è un dolore che è follia». Tale è la blasfema dismisura, la hybris contro cui si erge Starbuck, il secondo di Achab. La sua vita è «una rivelatrice pantomima di azione, non un addomesticato capitolo di parole», ed egli sa che la verità è ambigua. Sa che il pensare è freddo; che Achab «sa solo sentire, non pensare». Dice bene Ismaele: chi «attraversando i cimiteri accelera il passo, non è fatto per sedere sulle pietre sepolcrali, e rompere la verde umida zolla insieme con l’incommensurabilmente meraviglioso Salomone». Non ha coscienza, non è Uomo dei Dolori, non sente l’Ecclesiaste. Ma sentire e pensare devono incontrarsi, perché l’uomo non è Dio. Achab nella Bibbia è re maledetto, idolatra. Quando fu ucciso, ricorda Ismaele, «i cani ne leccarono il sangue». La caccia di Achab fallisce, incompiuta. Il libro non fallisce ma Melville lo definisce «abbozzo di un abbozzo». Sicché è anch’esso incompiuto, dunque sempre nuovo. «Solo le costruzioni piccole son terminate dai loro primi architetti. Le grandiose, le vere, lasciano sempre il soffitto all’avvenire»: come la cattedrale di Colonia, come il muto abisso in cui, se lo scendi, ritrovi le parole e la Parola. Clicca sull immagine per ingrandirla Clicca sull immagine per ingrandirla Clicca sull immagine per ingrandirla Clicca sull immagine per ingrandirla Stampa Articolo