Paolo Baroni, La Stampa 27/7/2008, 27 luglio 2008
Ci sono le maestre d’asilo e gli addetti ai call center, gli impiegati pubblici ed i neo-laureati con contratto da co
Ci sono le maestre d’asilo e gli addetti ai call center, gli impiegati pubblici ed i neo-laureati con contratto da co.co.pro, i postini e i lavoratori stagionali, i ricercatori dell’università e quelli degli enti pubblici e gli operatori dei servizi sociali: i precari, non da oggi, in Italia sono un esercito. Molti sono costretti a rivolgersi ai magistrati per uscire da una sequenza infinita di contratti a termine soprattutto quando l’azienda o l’ente che li ha assunti li lascia a casa senza motivo. Perché magari stai antipatico al capo, perché hai flirtato coi sindacati o magari sei rimasta incinta. Nel nostro Paese i precari sono tra i 2 ed i 3 milioni, qualcuno azzarda anche 3 milioni e mezzo. L’ultimo rapporto ufficiale del governo, datato novembre 2007, ferma l’asticella a quota 2 milioni e 719 mila, l’11,8% del totale degli occupati. Di questi 246 mila operano nel settore agricolo, gli altri 2,473 milioni nell’industria, nell’artigianato e soprattutto nei servizi. La parte del leone la fanno i lavoratori a tempo determinato, interinali, stagionali, assunti con contratto a chiamata o contratto di inserimento. Sono 237 mila in agricoltura, ben 1,985 milioni negli altri settori. Poi ci sono i «collaboratori» (404 mila) ed infine i prestatori d’opera occasionale (93 mila). Le imprese la chiamano «flessibilità», i sindacati invece parlano di «sfruttamento». Il precariato, nel terzo millennio, è un fenomeno che tocca soprattutto i lavoratori più giovani e le donne. Il 39,6% dei precari «non agricoli» ha meno di 24 anni ed un altro 21,1% ha un’età compresa tra i 25 ed i 29. Le donne arrivano al 14,9%, in pratica allineate con le medie europee, mentre gli uomini sono all’8,8% del totale degli occupati, decisamente sotto il livello degli altri paesi. Nove su 10 spiegano di aver accettato contratti «da serie B» perché non hanno trovato di meglio e forse è per questo che il 18% (contro una media del 6,2% del totale degli occupati) dice di essere in cerca di un’altra occupazione. Metà di loro punta ad un’occupazione «stabile», ma c’è anche chi punta a guadagnare di più (soprattutto in agricoltura) o ad avere un’occupazione più qualificante o con migliori opportunità di carriera (questo vale soprattutto per i prestatori d’opera). Già, la carriera. Altra nota dolente. Secondo le elaborazione di fine 2007 del ministero del Lavoro dopo 36 mesi dall’ingresso nel mondo del lavoro con un contratto a termine 1 lavoratore su 4 è ancora inquadrato come apprendista e solamente 1 su 3 è passato ad un contratto a tempo indeterminato. A questi dati, però, Confindustria ribatte sostenendo che tra i propri associati buona parte dei contratti a termine viene «stabilizzato». Uno dei fenomeni più recenti riguarda l’uso distorto dei contratti di apprendistato, favoriti dall’estensione progressiva dei limiti di età (fino a 29 anni) e da altre modifiche normative: le statistiche segnalano un picco in corrispondenza coi mesi estivi mentre si nota che le spese sostenute sono in gran parte frutto di incentivi pubblici: si è infatti passati dal 30,1 del 2000 al 41,5% del 2005. E’ chiaro che una tale massa di rapporti atipici produce un’enorme mole di cause di lavoro. Il caso delle Poste è eclatante: dopo aver raggiunto un’intesa nel 2006 per sanare la posizione di circa 15 mila tra sportellisti e portalettere assunti con contratti stagionali a distanza di due anni si è ritrovata a fare i conti con altre 14 mila cause. Se da un’azienda pubblica si passa direttamente allo Stato la musica non cambia: le ultime stime, datate 2006, parlano di almeno 350 mila precari. Il governo Prodi fece passare un provvedimento per stabilizzarli tutti ma distanza di due anni anziché sanare le posizioni si peggiora sempre di più. L’ultimo caso, è un vero paradosso, perché riguarda l’Isfol (l’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori): qui i recenti tagli inseriti nella manovra hanno reso a tutti gli effetti precario il posto di 300 dipendenti su un organico di 800. E’ andata meglio ai dipendenti dei call center, la figura simbolo del lavoro precario. Il giro di vite imposto nel 2006 dall’allora ministro del Lavoro Cesare Damiano, ha fatto sì che venissero assunti a tempo indeterminato ben 20 mila lavoratori. E del resto a metà aprile anche la Cassazione era stata molto chiara: chi svolge lavoro in un centralino con l’obbligo di osservare un orario, utilizzando strumenti e l’ambiente messi a disposizione dal datore, ha diritto ad un contratto stabile. Stampa Articolo