Massimo Gaggi, Corriere della Sera 26/7/2008, 26 luglio 2008
Mentre «Berlino incorona Obama», come titolano alcuni giornali europei, in Ohio – uno degli Stati decisivi per la corsa alla Casa Bianca – John McCain mangia wurstel e crauti in mezzo alla gente alla Casa della Salsiccia, una trattoria tedesca di Columbus
Mentre «Berlino incorona Obama», come titolano alcuni giornali europei, in Ohio – uno degli Stati decisivi per la corsa alla Casa Bianca – John McCain mangia wurstel e crauti in mezzo alla gente alla Casa della Salsiccia, una trattoria tedesca di Columbus. «Vorrei fare anch’io un discorso politico in Germania – spiega ai cronisti che lo seguono – ma preferisco parlare ai nostri alleati da presidente degli Stati Uniti, anziché da semplice candidato ». il primo pugno della nuova e più aggressiva strategia elettorale scelta dal «mastino» Steve Schmidt, l’allievo di Karl Rove al quale McCain ha appena affidato la regìa della sua campagna: si cerca di dare agli americani l’irritante sensazione che Obama «voli alto», che consideri ormai scontata la sua vittoria a novembre. L’altro colpo arriva qualche ora più tardi quando il candidato repubblicano si presenta a un evento dell’organizzazione anti-cancro di Lance Armstrong. Il campione del ciclismo Usa aveva invitato anche Obama «ma lui preferisce girare per l’Europa» commenta con finta costernazione McCain. E, poi, velenoso: «D’altra parte lì ha dei fan adoranti... anche se credo che in realtà si tratti dei giornalisti americani». Il senatore dell’Arizona sa di avere davanti un’impresa difficilissima: riconquistare la Casa Bianca dopo la disastrosa presidenza Bush (indici di popolarità ai minimi storici) e mentre il suo stesso partito perde colpi. Nelle intenzioni di voto per il Congresso i democratici sono nettamente avanti ai repubblicani, in alcuni sondaggi anche di 13 punti. Accusato di essere troppo ripetitivo e di mancare della brillantezza oratoria di Obama, McCain vuole passare al contrattacco tirando fuori tutta la sua grinta: quella che gli ha già consentito di capovolgere una corsa per la «nomination » che, proprio un anno fa, per lui sembrava finita ancora prima di cominciare. Ma i grandi giornali americani – dal New York Times al Los Angeles Times – che ieri, anziché sui trionfi europei, hanno titolato in prima pagina sulle difficoltà di Obama, l’hanno fatto non perché intimiditi dal sarcasmo di McCain, ma perché vari segnali indicano che per il senatore nero le cose si stanno facendo più difficili. Se il sondaggio Zogby continua a dare Obama nettamente favorito su McCain, sia pure con un margine un po’ ridotto, quello della Cnn ridimensiona a tre punti (44 a 41) il vantaggio del candidato democratico mentre quello quotidiano della Gallup restringe la «forbice» a due punti (45 a 43) rispetto ai sei (47 a 41) di una settimana fa. Un quarto poll, quello condotto dalla Nbc e dal Wall Street Journal, mantiene, invece, i sei punti di distacco (di nuovo, 47 a 41) di un mese fa. Ma, interrogati su quale sia il candidato col quale si identificano di più, gli stessi partecipanti a questo sondaggio scelgono McCain con un margine dell’11 per cento. Un’indagine della Quinnipac University su quattro degli Stati «in bilico» (Michigan, Minnesota, Wisconsin e Colorado) segnala, infine, un netto recupero di McCain. Dopo settimane di grande visibilità mediatica, insomma, Obama non solo non ha aumentato il distacco dal suo rivale, ma sembra avere qualche difficoltà. Per gli strateghi repubblicani è la conferma che la partita del 4 novembre è ancora apertissima e che il senatore dell’Illinois va attaccato sul suo punto debole: la difficoltà a entrare in sintonia con l’elettorato degli Stati interni, con gli anziani e con gli operai bianchi della «pancia» dell’America. Un trattamento non molto diverso da quello riservato, quattro anni fa, a John Kerry, messo sulla graticola anche per la sua popolarità in Europa. Alla convention repubblicana Rudy Giuliani andò giù duro: disse che l’appoggio degli europei in realtà indeboliva Kerry perché, nel momento delle decisioni difficili, il democratico sarebbe stato tentato di compiacere gli amici di Oltreatlantico, anziché fare gli interessi del suo Paese. Un assist per il vicepresidente Dick Cheney, pronto a spiegare che «invece Bush non chiederà mai il permesso a nessuno per difendere gli americani». McCain non è Bush, non apprezza i metodi di Cheney, non dimentica di essere stato vittima dei colpi bassi dell’attuale presidente nelle primarie del 2000. E, vista la centralità della politica estera nella sua piattaforma elettorale, non può insistere più di tanto nel criticare i contatti internazionali di Obama. Al tempo stesso il senatore nero è molto più capace dell’algido Kerry di interpretare gli umori delle diverse platee, da un angolo all’altro del Paese. Ma anche per lui sarà difficile evitare di ritrovarsi etichettato come un intellettuale supponente, poco in sintonia col Paese: uno che dialoga coi giovani e con l’aristocrazia tecnologica ma ha poco da dire agli umili, quelli che cercano un presidente nel quale si possono identificare. Fin qui Obama ha dimostrato capacità politiche straordinarie, ma ha ancora molta strada davanti a sé. La frattura col mondo di Hillary Clinton, ad esempio, è stata sanata solo a parole. Ci vorrà qualcosa di più della colonna della Vittoria di Berlino per esorcizzare il fantasma di Dukakis: il liberal che vent’anni fa, di questi tempi, era dato dai sondaggi per vincente, ma che a novembre fu superato in volata dal modesto Bush «senior».