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 2008  luglio 26 Sabato calendario

Sono appena dieci pagine, disperse fra le quasi cinquecento di un libro sorprendentemente vivo per valere da omaggio accademico

Sono appena dieci pagine, disperse fra le quasi cinquecento di un libro sorprendentemente vivo per valere da omaggio accademico. Ma sono pagine che hanno il dono della trasparenza, e si aggiungono a quelle di un volume di memorie e di un racconto di viaggio per restituirci il profilo della «ragazza del secolo scorso». Rossana Rossanda le ha intitolate Tra due ’89. Storia e rivoluzione. E già alla seconda riga ha voluto dirne il senso: «Non più che una confessione». Tutto iniziò – confessa dunque Rossanda – nel 1989, bicentenario della Rivoluzione francese. Allora le venne «il primo dubbio, e gigante». Il dubbio che la tragedia originaria del sangue innocente (il «sangue «in più», imprescrittibile al tribunale della storia) andasse collocata non tanto nel 1917 della Rivoluzione d’Ottobre, quanto centoventi anni prima, nel 1789 del 14 luglio: nel passaggio forse obbligato, fatale, dalle picche della Bastiglia alle ghigliottine del Terrore. Peggio: il dubbio che François Furet avesse ragione, che ogni Ottantanove contenga un Novantatré. «Che le rivoluzioni sono nel migliore dei casi superflue. Ma sempre esecrande ». Non che la navigata fondatrice del manifesto si lasciasse sfuggire le implicazioni ideologiche delle tesi di Furet, in un’Italia che usciva dall’incubo del brigatismo rosso per entrare nel tunnel identitario del post-comunismo. Non che si nascondesse allora, né si nasconda oggi, la ricaduta dell’entusiasmo manifestato per Furet dai suoi zelanti epigoni italiani: il trionfo di un nuovo pensiero unico, pronto a ritenere terroristico ogni intervento di gruppo o di popolo non autorizzato da un’istituzione della democrazia elettiva. Ma quali che fossero gli usi politici del revisionismo storiografico, Rossanda fu presa allora da un «dubbio radicale», che ancora l’accompagna. Il 14 luglio? «Un vortice nel quale sprofondavo». Si può mai capire (secondo la famosa raccomandazione di Leopold von Ranke) che cosa è veramente successo nel passato, nella storia? E più che mai nella storia delle rivoluzioni? «Quel che è realmente avvenuto sta nella concatenazione di fatti, e questa si disegna in un processo che ha già il segno di un "giudizio di valore". O no? Insomma mi perdo. E divento prudentissima». «Il problema è quando un fatto cambia segno. Come se "il" fatto fosse necessariamente esiguo, e la sua chiave stesse "accanto" e "dopo", nelle onde concentriche che si allargano dal sasso gettato nello stagno. Ma non sto precipitando nel furetismo di destra o di sinistra? Quel sasso resta essenziale, anche se è il primo a scomparire dalla superficie delle acque che ha turbato. Chi non sa di storia deve ripetersi "prudenza, prudenza, prudenza". E chi fa politica? Terribile ».  un’ottantenne piena di dubbi questa ragazza del secolo scorso, anche se le «obliose nuove generazioni » la dipingono come una coltivatrice di certezze finalmente andate in pezzi. Ed è una donna tentata di rimpiangere l’abbandono degli studi giovanili, l’estetica sacrificata alla politica: «Avrei fatto meglio a occuparmi di storia dell’arte». Ma perfino quando trova rifugio nelle sale di un museo, può capitare che la donna si senta pedinata, disorientata, minacciata: «Anche là la storia mi insegue e mi tende tranelli». Così, per esempio, quando contempla il capolavoro di Diego Velázquez, Las Meninas. E non può più andare certa che il pittore si sia proposto una mise en abîme, una rappresentazione della rappresentazione: l’artista che ritrae se stesso mentre fa il ritratto del re e della regina, Filippo IV di Spagna e Marianna d’Austria, riflessi nello specchio sullo sfondo. Perché una recente radiografia ha rivelato come, nella prima versione del quadro, pittore e tela non ci fossero affatto... «Delle Meninas si sa dunque (quasi) tutto, compresi nomi, vita, morte e miracoli dei nove personaggi più un cane più i due riflessi nello specchio. Ma, stringi e stringi, che cos’è il "fatto", realmente avvenuto una volta per sempre, se non la tela medesima e nient’altro, come ci appare al Prado? Tutte le notizie non sono che appendici superflue e perdipiù variabili, del solo veramente avvenuto, quella metà superiore tutta in penombra, quelle luci dorate e azzardose sul primo piano e smaglianti su una porticina in fondo, quelle pennellate che a un metro di distanza sembrano fondersi e non sono fuse, quella loro densità sontuosa sulle sete e sui colori spenti – insomma niente e tutto? Divertente, interessante, l’iconologia non mi darà mai ragione dell’addensarsi di idee, emozioni, saperi, ambizioni, tecniche, in "quel" dipinto. Non devo tornare alla visibilità pura, che storia non è? Oppure no, diviene anch’essa? Ma diviene e non sedimenta. Non fa storia?». Se soltanto i critici sempiterni di Rossana Rossanda fossero capaci di altrettante domande, se soltanto si lasciassero scuotere da altrettanti dubbi riguardo al loro proprio feticcio, le sorti magnifiche e progressive del capitalismo. E se sapessero che – a onor del vero – la ragazza del secolo scorso non ha avuto bisogno né di Furet, né del 1989, per ammettere che i conti della storia non le tornavano affatto. Successe un quarto di secolo prima del bicentenario della Rivoluzione francese: nella Spagna del 1962. Inviata in missione clandestina dal Pci di Togliatti, una Rossanda trentottenne percorse in lungo e in largo la penisola retta ancora dall’inflessibile dittatura di Franco. Incontrò i capi di un’opposizione antifranchista diffidente, stanca, immatura, e riconobbe ben maggiore la lucidità di una destra pronta a liquidare il fascismo dall’interno, senza neppure l’ombra di una rivoluzione. Nella Spagna del 1962 Rossanda toccò con mano la caduta delle sue certezze, raccontandola in un libro dell’81 che Einaudi ha ristampato da poco, Un viaggio inutile: piccolo grande libro sulla solitudine delle idee, «quando la società esce da loro e le abbandona come binari fra le erbe». Già quel libro, in fondo, niente più che una confessione. Il riconoscimento di tutta la distanza che corre – in politica come nella vita – fra la coscienza e la scelta, il capire e il potere. E al Prado, già allora, la scoperta che neppure l’arte garantisce un rifugio: «Perfino El Greco, che da lontano amavo, mi ha rivelato facilità e imbrogli». A volte, sembrano valere per la Rossanda di oggi le parole che lei stessa ha scritto sui vecchi anarchici sopravvissuti alla guerra civile spagnola, che «ora interrogavano la storia, senza più esecrazioni, senza speranze». Altre volte, sembra prevalere in lei una giusta fierezza: l’orgoglio di chi sa come l’intero suo viaggio sia stato tutt’altro che inutile. «Fu una bellissima storia, di quelle da cui esci torchiato come un panno dalla lavatrice e ti appendi ad asciugare bello pulito, alla fine. Se questa non è vita, che cosa lo è?».