Corriere della Sera 25 luglio 2008, 25 luglio 2008
DOSSIER ILLECITI TELECOM - TAVAROLI
(da Corriere della Sera - SECONDA PUNTATA)
Corriere della Sera, venerdì 25 luglio
MILANO – Come già nei verbali di Giuliano Tavaroli, capo della Security di Telecom committente del dossier Oak Fund assemblato dall’investigatore privato Emanuele Cipriani, neanche negli interrogatori di Cipriani (ora depositati senza più gli ultimi omissis apposti per oltre un anno dai magistrati) ci sono i nomi di Piero Fassino e quello dell’economista ds Nicola Rossi o almeno di un Rossi qualunque, collegabili in qualsiasi modo al dossier su evocate tangenti ai Ds nella scalata di Colaninno alla Telecom.
In più, però, Cipriani non soltanto contraddice Tavaroli sulla genesi e il trattamento del dossier, ma soprattutto ha un ricordo che stride con la recente intervista giornalistica nella quale Tavaroli ha fatto quei due nomi in questi termini: «Per quel che poi ha scritto Cipriani nel dossier Baffino», i soldi sono «approdati su un conto a Londra dove avevano la firma Nicola Rossi e Piero Fassino».
La strana «macchia»
Perché stride? Perché Cipriani il 28 marzo 2007, davanti ai pm Napoleone e Civardi, dell’operazione Oak Fund (o anche
New Entry, o anche Fondo) dice invece di ricordare che, a proposito di «riconducibilità » del Fondo Quercia «a determinati soggetti», c’era «copia di un documento che indicava un noto soggetto politico». Però il documento «era in parte macchiato. Infatti ricordo che, quando ebbi a ricevere da John Poa ( un investigatore privato anglo-svizzero,
ndr) il documento così macchiato, mi adirai chiedendo spiegazioni e ottenendo per risposta che così Poa lo aveva ricevuto ».
Degno epilogo di un dossier che, dopo aver inseguito «nella pancia di 300 società in giro per l’Europa» (così il Tavaroli giornalistico) i soldi destinati al partito della Quercia, e aver ritenuto di trovarli su un Fondo che acutamente si chiamerebbe Quercia e sul cui conto londinese avrebbe genialmente avuto la firma il segretario del partito della Quercia. Peraltro, questo presunto documento bancario (che la curiosa «macchia» induce a ipotizzare "fabbricato") fa in effetti scorgere, per quel niente che può valere in questo fumoso contesto, un nome italiano di «un noto soggetto politico ». Che però, ammesso lo si prenda in considerazione solo per scrupolo di precisione in una storia tutta di confusioni, sul documento «macchiato» viene prospettato in Massimo D’Alema, non in Fassino o Rossi, cioè nei due nomi che invece Tavaroli ha fatto nell’intervista giornalistica pur conoscendo bene quel poco convincente pezzo di carta «macchiato».
New Entry e casa Bondi
«La denominazione New Entry che io ho dato all’operazione – esordisce Cipriani – richiamava la circostanza dell’acquisizione di Telecom da parte di Tronchetti Provera, e infatti colloco alla fine 2001-inizi 2002 l’avvio delle attività investigative su una situazione che la nuova proprietà intendeva verificare. Il nome operazione Fondo è relativo sempre allo stesso oggetto». Sviluppato investigando su Vittorio Nola (il capo della Sicurezza di Telecom professionalmente estromesso dal falso ritrovamento di una microspia sull’auto dell’ad Enrico Bondi); e sullo stesso Bondi, «alla cui insaputa sorvegliammo anche l’abitazione di Arezzo su invito di Tavaroli» e di cui «fui incaricato da Tavaroli di svolgere investigazioni più approfondite con le solite modalità, anche illecite».
«Buoni motivi»
E’ nell’ambito di questa operazione New Entry che «Tavaroli mi invitò a svolgere investigazioni sul Fondo Quercia (in inglese Oak Fund)». Perché? Anche qui divergono le versioni. Tavaroli ai pm ha sostenuto che «si trattava di un’operazione nata nel 2001 dalla necessità di conoscere gli azionisti di Bell» e di verificare «se una componente del management Telecom avesse lucrato attraverso Oak Fund il sovrapprezzo per l’acquisto di Olivetti». Invece Cipriani afferma che Tavaroli, quando «era ancora in Pirelli ma l’acquisto della Telecom da parte di Tronchetti era già avvenuto», gli commissionò l’incarico espressamente «dicendo che avrei dovuto verificare se dietro quel fondo vi era un partito politico». Altro che, come prospetta Tavaroli ai pm, aver solo riportato a Cipriani «a mo’ di battuta i rumors» sulla vicenda: al contrario, spiega Cipriani, «io chiesi spiegazioni a Tavaroli, ma lui mi disse che la traduzione italiana del fondo era simbolica del partito dei Pds e che aveva i suoi buoni motivi».
Scotland Yard?
Interrogatorio dopo interrogatorio, comincia ad affacciarsi il profilo, per quanto poco definito, di quanti avrebbero contribuito ad alimentare il dossier. Secondo Tavaroli, a lavorare sul dossier poi assemblato da Cipriani sarebbe stata «una importante fonte, ex di Scotland Yard, particolarmente dotata nelle investigazioni in paradisi fiscali. Non conosco l’identità di questa fonte, ma solo che operava da Montecarlo». Diversa la versione di Cipriani: «Tavaroli mi invitò espressamente a rivolgermi all’inglese- svizzero ossia John Poa», alias forse John Maurice Dollar Beare, «persona da me utilizzata per le investigazioni all’estero. Durarono un notevole periodo di tempo nell’arco del quale ebbi modo di ricevere una valanga di report comprensivi di documentazione societaria e bancaria in copia.
Non so con quali modalità John Poa si procurasse quelle informazioni e quei documenti in Paesi tra cui la Svizzera, il Belgio, l’Olanda e i paradisi fiscali».
Il dossier in cantiere, come tante altre volte, prima ancora che eventuale arma di ricatto o raccolta inutile di spazzatura, nel frattempo diventa una buona scusa per mungere soldi a Cipriani (fornitore del gruppo Telecom e quindi in ultima analisi a Telecom): «John Poa si limitava a indicarmi i costi aggiuntivi che il pagamento delle sue fonti comportava ».
Qui nell’interrogatorio si crea un buffo intermezzo. Cipriani dice di ricordare un documento (quello «macchiato» sul «politico») che non ritrova tra quelli esibitigli dai magistrati. Comincia allora una specie di gara ironica tra indagato e pm a chi ricorda meglio tutte le carte del fascicolo. E alla fine, almeno questa volta, l’indagato vince con il pm ma pareggia con un investigatore dello staff dei pm, che capisce a cosa si riferisce, e nelle montagne di carte estrae il foglio. «Riconosco, negli atti che mi vengono esibiti» (e che nel verbale non riportano il nome di D’Alema ma fanno riferimento solo al numero delle schede sequestrate), «i documenti che non trovavo prima».
Per Tronchetti o no
Se Tavaroli nei suoi interrogatori ai pm assicura che non aveva «condiviso l’operazione Oak Fund con altre persone all’interno dell’azienda», e che non aveva «mai riferito al Presidente Tronchetti Provera in ordine ai risultati delle investigazioni effettuate su Oak Fund», Cipriani riferisce invece che, a lui, Tavaroli raccontava l’esatto contrario: «Ogni tanto io sottoponevo a Tavaroli delle sintesi e anche il rapporto conclusivo, molto apprezzato da Tavaroli che fece un salto sulla sedia. Tavaroli mi disse che, sia le notizie relative al rapporto conclusivo sia quelle dei vari
summary, le riferiva al dottor Tronchetti Provera».
Marco Tronchetti Provera è nato a Milano nel 1948 Giuliano Tavaroli
Luigi Ferrarella
MILANO – «Mah, probabilmente hanno messo in mezzo Tavaroli per colpire Mancini». Chi è che leggeva così l’indagine della Procura di Milano sul capo della Security di Telecom? Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta. Almeno stando a quando Marco Tronchetti Provera, che allora presiedeva Telecom, ha raccontato ai pm che il 27 giugno scorso lo hanno interrogato come testimone.
«Quando arriva la situazione critica di Tavaroli, con l’avviso di garanzia, mi rivolgo a Gianni Letta dicendo: "Dobbiamo sostituire, trovare una soluzione, sistemare, non so cosa stia succedendo". E la risposta di Gianni Letta fu: "Mah, probabilmente in mezzo, siccome ci sono delle forti tensioni tra organismi della sicurezza dello Stato, tra una parte e l’altra, lui è amico di una persona molto vicina a Pollari ( l’allora capo del Sismi, ndr), probabilmente hanno messo in mezzo lui ( cioè Tavaroli, ndr) per colpire questo suo amico che si chiama Mancini"», capo del controspionaggio del Sismi, grande amico di Tavaroli e molto legato al direttore del Servizio, oggi fra i 34 indagati per i quali la Procura ha depositato gli atti in vista della futura richiesta di rinvio a giudizio.
Tronchetti spiega che «fu la prima volta che sentii nominare Mancini». Ma in particolare è interessante che l’allora presidente e azionista di riferimento di Telecom aggiunga: «Poi chiesi indicazioni, Letta non aveva nomi da darmi, perché io a quel punto dovevo sostituire Tavaroli. Qui – aggiunge Tronchetti – si apre un altro capitolo collegato: nell’ambito della sostituzione, Tavaroli, dopo l’autosospensione per l’avviso di garanzia, indicò come suo successore Bove; la stessa indicazione ci arrivò per iscritto nei giorni successivi dal dottor Manganelli, e insieme al dottor Buora e all’avvocato Chiappetta facemmo una riflessione, dicendo: bisogna mettere una persona davvero esterna questa volta. Pensavamo di averla messa l’altra volta», con Tavaroli, e invece ora «non sappiamo quello che sta avvenendo». Nasce così una soluzione (il dirigente interno Penna) «tutta fatta in casa, nel senso che con i Servizi la nostra sicurezza non l’abbiamo mai considerata mischiata: nel momento in cui dovevo sostituire il capo della sicurezza, non sono andato a chiederlo ai Servizi, anzi, ho valutato che era opportuna una scelta interna senza influenze esterne, per non entrare in nessun tipo di conflitto dopo quella frase di Gianni Letta».
Gianni Letta
L. Fer.
MILANO – Fare intercettazioni abusive? Oppure avvisare chi era intercettato legalmente dai magistrati? In mezzo all’ormai certezza che con il sistema Radar in Tim si potessero estrarre i tabulati del traffico telefonico senza lasciare traccia, tre anni d’inchiesta finiscono invece senza aver trovato prova di nemmeno un caso di ascolti abusivi. Che però avrebbero potuto esserci: una perizia della Procura conclude che, in teoria, intercettazioni illegali avrebbero potuto essere attivate nelle pieghe delle «debolezze» di alcuni dei nove sistemi presenti in Telecom.
In particolare l’ingegner Andrea Paoloni e il dottor Bruno Pellero, rispondendo il 20 febbraio 2008 ai quesiti posti dai pm il 10 aprile 2007, guardano a Padova. «Dall’interno del Data Centre di Padova, nonostante non si sia in possesso di alcun riscontro concreto che ciò sia avvenuto, sarebbe stato possibile accedere ai dati sensibili riguardanti gli utenti, le attività di intercettazione e i dati di tracciamento (da cui la possibilità di individuare e/o allertare anche gli interlocutori di bersagli intercettati)». Come? « Sniffando le comunicazioni tra i diversi sistemi e la rete radiomobile quando la comunicazione è ormai in chiaro, in quest’ultimo caso non lasciando altra traccia che la presenza magari temporanea di qualche computer in più», quella che il gergo chiama «una fattoria di computers,
meglio del cosiddetto ago nel pagliaio... Laddove si fosse voluto avere un accesso sistematico ai dati sensibili di utenti e intercettazioni, questo sarebbe stato il posto dal quale farlo nel modo più efficiente».
Inoltre, «l’unico modo per allertare un utente che stava comunicando con un bersaglio di attività di intercettazione si sarebbe potuto realizzare proprio qui, attivando un processo di analisi dei dati di tracciamento su Circe ( il sistema di gestione delle intercettazioni,
ndr) o su Iride ( il sistema di trasmissione dei dati, ndr)». Poiché «ciascuna centrale invia i dati di tracciamento al sistema Circe a Padova, che a sua volta li invia ai punti di ascolto ripartendoli sui numerosi impianti ivi presenti» chiamati DFD, «da ciò che si è potuto capire, chi avesse avuto accesso al centro dati di Padova avrebbe potuto facilmente accedere a tali dati, anche senza lasciare traccia».
Del resto, che sui sistemi informativi ci fossero «debolezze» si è accorta per prima proprio Telecom Italia, «che da tempo ha avviato un programma di bonifica», che a Kpmg ha affidato uno studio di sicurezza, e che ai magistrati ha evidenziato i punti critici di cui man mano prendeva cognizione.
Sempre l’azienda ha segnalato (e azzerato nel 2006) il problema delle «sonde Ikon», piazzate nel 2003 per proteggere gli impianti DFD di intercettazione da accessi abusivi esterni, ma a loro volta in teoria tali, per i periti dei pm, da «realizzare con facilità un sistema di allerta», di cui però anche qui «allo stato non è stato individuato » alcun utilizzo che «confermi l’impiego delle sonde a questo fine».
Non è invece possibile che Radar, al quale aveva accesso Adamo Bove, potesse allertare numeri sotto intercettazione. Mentre è vero che il dispositivo DFD effettua una registrazione digitale temporanea delle conversazioni intercettate allo scopo di garantire che non vengano "perse" fino alla ricezione da parte del punto d’ascolto deputato: subito dopo le cancella un software, ma anche qui, «seppure non si abbia alcuna evidenza che ciò sia mai avvenuto, in astratto è possibile intervenire sulla programmazione affinché le conversazioni di interesse, magari selezionate in base all’utenza bersaglio, vengano conservate fino a uno "scarico" effettuato da un operatore che abbia accesso al sistema» e quindi magari «registrate».
Luigi Ferrarella
ROMA – Torna nell’aula di Montecitorio e subito, da parte di tutti, destra e sinistra, parte l’applauso. Un lungo, unanime, applauso. A provocarlo è Antonello Soro. Piero Fassino si siede al suo posto, tra i banchi del Pd e ascolta il suo capogruppo che esprime «i sentimenti di solidarietà di tutto il Parlamento » di fronte ai «veleni » usciti fuori dal dossier Tavaroli. La Camera risponde con un’ovazione e il presidente Gianfranco Fini commenta: «Credo che l’applauso corale di tutta l’assemblea sia la migliore prova di vicinanza ». Poi, visibilmente commosso, l’ex segretario della Quercia, che secondo l’ex responsabile della security di Telecom avrebbe avuto la firma su conti esteri, interviene per ringraziare tutti.
Cita lo stesso Fini, Schifani e Napolitano per la solidarietà espressa. Ma non cita Berlusconi. E fa una sua considerazione su ciò che è accaduto: «Questo episodio, che spero sia presto archiviato, indica la necessità che tutti, chi fa politica, chi produce e diffonde informazione, chi contribuisce con il suo lavoro alla vita del Paese, ispiri sempre il proprio comportamento al principio di responsabilità verso la società in cui vive». Un monito chiaro alle responsabilità dei giornali. Interviene anche la Federazione Nazionale della Stampa esprimendo la sua preoccupazione sul dossier Telecom «per i riflessi sulle attività editoriali del gruppo ». Poi a tarda sera Fassino, che era stato tirato in ballo dall’ex agente della Security insieme a Nicola Rossi, torna ancora su quell’applauso in aula: «La solidarietà non è mai scomoda perché è comunque un’attestazione di stima che conforta e gratifica ».
E alla fine anche Silvio Berlusconi commenta la vicenda. Lo fa con le stesse parole usate a suo tempo da Tronchetti Provera: «Chiacchiere da bar, non ne so nulla».
R. Zuc.
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Corriere della Sera venerdì 1 agosto
ROMA – «Noi non siamo né stupidi né ladri». Così Massimo D’Alema respinge sul settimanale
Tempi le rivelazioni dell’ex capo della security Telecom, Giuliano Tavaroli, sulla riconducibilità a dirigenti del Pd, tra cui Piero Fassino, dell’Oak Fund (Fondo Quercia). «I legittimi proprietari dell’Oak Fund si sono manifestati e ciò dimostra che la cosa non ha nessuna consistenza» ricorda D’Alema, precisando: «per essere detentori di un fondo chiamato Quercia bisognava essere stupidi oltre che ladri».
«Con tutta evidenza sul nostro partito sono state fatte indagini illegittime» denuncia il capo di ReD. «C’è da capire - incalza D’Alema - perché questa robaccia che già era uscita, che girava da tempo, in questi giorni è stata riproposta con tale clamore da Repubblica. Una operazione che io trovo molto grave sul piano professionale. Sul significato politico sospendo il giudizio. Anche se qualche idea viene alla mente».
D’Alema parla di «montatura » e invoca l’intervento della magistratura: «Sicuramente hanno operato spie, provocatori, hanno cercato in vari modi di danneggiare la nostra immagine, infangarci, colpirci, anche perché quella vicenda ha toccato interessi forti nel paese. C’era volontà di vendetta, senza che mai si concretizzasse nulla. Perché non c’è nulla da trovare e non c’è nessun particolare retroscena da scoprire; sul piano giudiziario non c’è nulla di nulla. Si tratta di una operazione non dissimile a quella che fu fatta per Telekom Serbia. Probabilmente ambienti analoghi, o dello stesso genere».
Nell’intervista D’Alema si sofferma, tra l’altro su Antonio Di Pietro: «Non credo dipenda da me il fatto che abbia un peso nella vita politica del paese» Ma «dai giornali, che ne hanno fatto un eroe in certi momenti, e dal fatto che ha il consenso dei cittadini, ma quando uno ha il consenso dei cittadini è meglio che la politica la faccia in Parlamento piuttosto che in giro per le strade».
Una presa di distanza analoga a quella del leader Pd Veltroni. Ieri ha annunciato che non appoggerà il referendum proposto dell’ex pm per abrogare il lodo Alfano. La riforma più importante per Berlusconi, secondo D’Alema: «una legge sulla base della quale non può essere processato ». «Rimando alle saggissime parole di Oscar Luigi Scalfaro » ha detto Veltroni ieri alludendo al monito del presidente emerito («se per caso il quesito dovesse fallire anche per mancanza di quorum, tutta l’opposizione ne uscirebbe male» e «rischieremmo di far passare Berlusconi per uno invincibile»). Per Veltroni la «priorità, ora, è un’altra: i salari e la crescita del Paese, cioè la crisi economica che sta attraversando l’Italia». «Se c’è un modo per perdere sempre è proprio quello di non giocare mai la partita» replica Di Pietro accusando Veltroni di fare come Ponzio Pilato. «Il principio minimo di uno Stato di diritto, cioè che la legge deve essere uguale per tutti, è stato calpestato » ricorda il leader Idv. E sottolinea che alcune battaglie si combattono non per vincerle ma «per potersi guardare allo specchio».
Virginia Piccolillo