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 2008  luglio 25 Venerdì calendario

la Repubblica, venerdì 25 luglio «Non vi ho parlato dei cicisbei. la cosa più ridicola che un popolo stupido abbia potuto inventare: sono degli innamorati senza speranza, delle vittime che sacrificano la loro libertà alla dama che hanno scelto»

la Repubblica, venerdì 25 luglio «Non vi ho parlato dei cicisbei. la cosa più ridicola che un popolo stupido abbia potuto inventare: sono degli innamorati senza speranza, delle vittime che sacrificano la loro libertà alla dama che hanno scelto». Il popolo stupido di cui Montesquieu, in visita nella penisola nel 1728, si prendeva gioco era ovviamente quello italiano, ma il grande pensatore francese che si preparava a scrivere L´Esprit des lois non era certo il solo viaggiatore straniero a ravvisare nel cicisbeismo un tratto distintivo del costume del nostro paese. E numerosi erano anche gli italiani - pensiamo a scrittori come Parini, Goldoni, Alfieri, o pittori come Pietro Longhi o Giandomenico Tiepolo - che nel corso del secolo avrebbero stigmatizzato il fenomeno. Ma ammesso e non concesso che esso costituisse davvero una anomalia italiana in che cosa consisteva esattamente e quali erano le ragioni che le avevano consentito di mettere radice nel Bel Paese e prosperarvi per tutto il Settecento? A questi interrogativi si propone oggi di rispondere, sul filo di una ricerca storica attenta a studiare tanto la realtà del costume quanto le sue rappresentazioni, l´importante studio di Roberto Bizzocchi, Cicisbei. Morale privata e identità nazionale in Italia (Laterza, pagg. 361, euro 20). Una ricerca di carattere necessariamente indiziario poiché ha per oggetto una relazione di coppia - quella della dama e del suo cicisbeo - che si svolgeva alla luce del sole e su cui le testimonianze e i commenti abbondano, ma la cui natura intima e privata rimaneva invece accuratamente occultata, costringendo lo storico a procedere per ipotesi. Neologismo entrato in uso nel primo decennio del Settecento, il termine cicisbeo designava infatti l´accompagnatore ufficiale di una dama sposata di cui fungeva, con il pieno assenso del marito, da cavalier servente. Il suo compito consisteva nel passare con lei molte ore al giorno, nello scortarla al teatro, al ballo, in società, nel dimostrarle fedeltà, nel prodigarsi in tutti i modi per risultarle gradito, ma questo "servizio" doveva essere improntato alla più assoluta castità o, quantomeno, lasciarlo credere. Ora è vero che nelle società d´Antico Regime il matrimonio aristocratico non presupponeva un´intesa sentimentale e consentiva ai coniugi di condurre una vita indipendente; è vero che già un secolo prima la civiltà francese aveva fatto della galanteria un obbligo mondano, come è ugualmente vero che "questa delicata simulazione dell´amore" poteva servire da schermo a sentimenti più reali, ma solo in Italia questi vari fattori si erano saldati in un rapporto istituzionale che implicava ufficialità e durata. Bizzocchi mostra bene come a determinare questa "eccezione" italiana siano state ragioni economiche, sociali e culturali di diversa natura, riconducibili tutte allo specifico contesto storico della penisola. La prima novità del suo studio è proprio quella di mostrare, sulla base di una ampia documentazione, il carattere nazionale del cicisbeismo, solitamente considerato una peculiarità veneziana e genovese. E se per tutto il corso del Settecento l´usanza si diffondeva nelle maggiori città italiane ciò era dovuto in primo luogo alla sua capacità di conciliare l´esigenza di rinnovamento che accomunava le élites del paese agli imperativi della tradizione. Il cicisbeismo si spiega senza dubbio alla luce di una nuova volontà di libertà della società italiana che si apre progressivamente alla cultura dei Lumi e, ispirandosi al modello francese, inaugura una socievolezza, una "conversazione" come si diceva allora per metonimia, incentrata sulla presenza femminile. Ma questa rivoluzione che apriva improvvisamente al gentil sesso le porte del carcere domestico era troppo radicale per non richiedere degli accorgimenti. A differenza di quanto avveniva in Francia dove le dame del bel mondo sfarfalleggiavano anche sole da un salotto all´altro, le loro sorelle italiane non potevano uscire di casa senza la scorta di un accompagnatore che, scelto con il beneplacito del marito, aveva il compito di vigilare su di loro. Di qui, rileva Bizzochi, quella "doppia anima del cicisbeismo, fra controllo e libertà", che avrebbe dato origine a un compromesso destinato a indignare i benpensanti - "e tuto xe causa la libertà", commenta sconsolato un personaggio dei Rusteghi di Goldoni! - fino ad assurgere, nella Histoire des Républiques italiennes du moyen âge (1807-1818) dell´illustre storico ginevrino Sismondi, a simbolo del lassismo e della decadenza morale degli italiani. Eppure, come ben spiega Bizzocchi, la pratica del cicisbeismo non assolveva solo alle nuove esigenze del gentil sesso. Era anche una risposta al problema del celibato maschile che nel ceto nobiliare poteva riguardare anche il cinquanta per cento degli uomini adulti. Finalizzata a preservare l´integrità del patrimonio familiare a favore del figlio primogenito, la norma del maggiorascato metteva in effetti in circolazione molti giovani senza prospettive matrimoniali per i quali il cicisbeismo fungeva da utile surrogato, consentendo loro di intrattenere una relazione femminile privilegiata, di trovare accoglienza in una casa ospitale, di ricoprire un ruolo riconosciuto in società. E se, all´interno dell´ambito domestico della dama che era chiamato a servire, il cicisbeo svolgeva un compito sussidiario a quello del marito, questo legame consentiva altresì, alla stregua dei veri e propri matrimoni, ad allargare la cerchia delle solidarietà e delle relazioni interfamiliari in vista di una più ampia strategia sociale su scala cittadina. La parte più interessante del libro è, tuttavia, quella che si propone di indagare la natura della relazione privata che si dissimulava dietro i comportamenti rigidamente codificati di una commedia mondana di cui gli stessi osservatori contemporanei denunciavano l´ipocrisia. In effetti, come escludere una possibilità di coinvolgimento affettivo, sentimentale, erotico, da parte di uomini e donne abituati a passare gran parte della loro vita insieme? Bizzochi cerca di trovare una risposta analizzando, sulla falsariga di un nutrito corpus di testi autobiografici e di carteggi editi ed inediti, alcuni casi di cicisbeismo a Bergamo, Venezia, Lucca, Firenze, Milano, Torino. Nelle storie che egli ricostruisce ci imbattiamo in personalità celebri come Alfieri, Beccaria, i fratelli Verri, o in figure femminili di cui non avevamo notizia ma che appartengono a famiglie importanti. Autentiche tranches de vie che ci coinvolgono come romanzi - straordinaria quella di Pietro Verri nel ruolo di cicisbeo innamorato -, gli episodi passati al vaglio da Bizzocchi mostrano bene come il cicisbeismo potesse all´occorrenza aprirsi a tutte le esperienze della vita - l´amore, il dono di sé, la gelosia, la fedeltà, il tradimento, l´abbandono. E se nessuna di queste storie ci fornisce la prova provata dell´esistenza di una relazione sessuale, ciò dimostra che il sentimento del pudore era, all´epoca, molto diverso dal nostro. Il cicisbeismo sarebbe scomparso con la fine della società d´Antico Regime e l´Ottocento avrebbe perseguito un idea dell´amore e del matrimonio incompatibili con il pittoresco compromesso raggiunto da un´Italia provinciale e arretrata eppure desiderosa di recuperare il tempo perduto. Ma non sarebbero state certo le donne a beneficare del cambiamento. Benedetta Craveri