La Stampa 25 luglio 2008, Lorenzo Mondo, 25 luglio 2008
L’epopea stracciona del sergente in Russia. La Stampa 25 luglio 2008 Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato
L’epopea stracciona del sergente in Russia. La Stampa 25 luglio 2008 Ho ancora nel naso l’odore che faceva il grasso sul fucile mitragliatore arroventato. Ho ancora nelle orecchie e sin dentro il cervello il rumore della neve che crocchiava sotto le scarpe, gli sternuti e i colpi di tosse delle vedette russe, il suono delle erbe secche battute dal vento sulle rive del Don. Ho ancora negli occhi il quadrato di Cassiopea che mi stava sopra la testa tutte le notti e i pali di sostegno del bunker che mi stavano sopra la testa di giorno». Comincia così, all’insegna di un’epica semplicità, Il sergente nella neve di Mario Rigoni Stern. Dove l’autore sembra chiedere a una concentrazione di tutti i sensi la possibilità di evocare e raccontare l’inenarrabile. Il protagonista del libro - un diario sciolto in romanzo - è lo stesso Rigoni, classe 1921, all’epoca sergente maggiore del 6° reggimento alpini, battaglione Vestone, cinquantacinquesima compagnia, plotone mitraglieri. Sulla fine del 1942, si trova in una postazione sulla riva del Don, «nel paese dei cosacchi», un dato capace per sé solo di accendere la fantasia di un lettore come lui, appassionato di Tolstoj. Siamo alla prima parte del libro, intitolata «Il caposaldo». Dall’altra parte del fiume ci sono i russi, che sparano pigri colpi isolati, ma la lepre che, inseguita dal suo sguardo vigile, scatta tra le rive suggerisce l’idea che tutti si apprestano a diventare cacciatori e cacciati. I bunker italiani sono abbastanza confortevoli, nei discorsi e nei richiami degli alpini - per lo più provenienti dalle regioni del Nord - si sente un’aria di casa, sembra a momenti di stare al paese. C’è tempo, nell’ozio forzato, nelle rituali ricognizioni, per disegnare nitidi e affettuosi profili dei compagni, per tratteggiare di scorcio umanissime, private avventure. Lombardi, anche nel raro sorriso, porta la morte impressa nel volto. Tourn, il piemontese sempre allegro, intona e diffonde la canzone della bella pastora che dorme «all’ombretta di un cespuglio». Meschini, un ex conducente, manifesta in ogni suo atto la forza di un mulo e ne conserva addosso l’odore. Pintossi il cacciatore s’incanta al pensiero d’un volo di coturnici sulle sue montagne. Baffo, che ha fatto l’Africa, la Spagna e l’Albania, è contrassegnato da una irrimediabile stanchezza di naia. E Giuanin non perde occasione di chiedere, strizzando l’occhio: «Sergentmagiù, ghe rivarem a baita?» (Un leit-motiv che ha il senso di un turbato esorcismo). Rigoni, senza avere l’animo di scoraggiarlo, insiste a dire, quasi presentendo il futuro: «Restiamo uniti». La situazione si inasprisce quando i russi tentano con alcuni colpi di mano di conquistare il caposaldo, quando dall’una e dall’altra parte cominciano a contare i morti: «Vi era un bel sole: tutto era chiaro e trasparente, solo nel cuore degli uomini era buio». Poi arriva improvviso l’ordine del ripiegamento. Prima di lasciare la postazione Rigoni scarica nella notte il suo mitragliatore e piange a dirotto: per l’oscuro domani, per quel lembo di paese che ha nutrito tanti affetti ed è diventato paradossalmente suo: «Nella mia tana, inchiodato a un palo, rimaneva il presepio in rilievo che mi aveva mandato la ragazza per il giorno di Natale». La seconda parte del Sergente nella neve, più estesa, si intitola «La sacca». Gli alpini devono affrettarsi per evitare la tenaglia dell’esercito russo, i morsi delle pattuglie partigiane. Devono conquistare via via i villaggi che si frappongono alla «ritirata». E’ una marcia terribile nella neve, che li costringe a sbarazzarsi di ogni peso che non siano le armi e le scarse vettovaglie. Lasciano una scia di morti e feriti, mentre il gelo attanaglia le gambe e irrigidisce perfino le corde vocali. Fa parte di quella anomala guerra la ricerca famelica degli avanzi di cibo nelle isbe abbandonate o asserragliate. Cammina e cammina è il comandamento imposto, con toni da irridente e fiabesca filastrocca, per avvicinare anche di pochi metri, sulle sterminate distese, il ritorno alla «baita». Un esercito di pezzenti si snoda in una serpeggiante striscia nera, per confluire infine nella tragica, leggendaria giornata di Nikolajewka. E’ il 21 gennaio 1943, l’appuntamento con i durissimi scontri che concederanno ai superstiti un varco verso il miraggio della patria. Ma può accadere che nel furore e nella miseria estrema si aprano spazi di una quiete quasi surreale, in cui gli opposti fronti si confondono o vengono cancellati. Rigoni entra in un’isba dove dei soldati russi, seduti intorno alla tavola, si servono da una zuppiera con un cucchiaio di legno. I nemici si fissano in silenzio, nessuno si muove fin quando una donna (una delle pietose donne di Russia che incontriamo nel libro) riempie un piatto e lo porge all’intruso, che divora il cibo a grandi boccate. Mentre se ne va illeso, riceve in dono un favo di miele da condividere con i compagni affamati. L’episodio rappresenta la punta più aguzza del libro e insieme il suo approdo morale: «Era qualcosa di molto più del rispetto che gli animali della foresta hanno l’uno per l’altro. Una volta tanto le circostanze avevano portato degli uomini a saper restare uomini». A Nikolajewka Rigoni perde i suoi amici più cari e li nomina ad uno ad uno in un asciutto lamento che fa venire in mente l’Antologia di Spoon River: piange i commilitoni che non dormono sulla collina ma tutti, tutti nella terra nera, al vento della steppa, come «i vecchi delle leggende di Gogol e di Gorky». Si chiude così, idealmente, il resoconto del Sergente. Che non rappresenta soltanto il pagamento di un debito, con se stesso e gli altri, ma il preannuncio di una lunga, coerente carriera. Dove l’integrità dell’uomo appare interamente fusa con quella dello scrittore. La guerra ingiusta cui fu costretto a partecipare poco più che ragazzo alimentò tra l’altro in Rigoni una grande simpatia per il popolo russo, una costante ammirazione per i suoi scrittori. Ed è commovente rammentare oggi, a un mese dalla sua scomparsa, la confidenza dei familiari che, appressandosi alla morte, seppe trarre conforto dalla lettura dell’Idiota, il capolavoro di Dostoevskji soffuso di religiosa mitezza e pietà. Lorenzo Mondo