Daniele Martini, Panorama 31/7/2008, pagina 90, 31 luglio 2008
Panorama, giovedì 31 luglio Il tesoretto c’è, anzi, è un tesorone. Però non si trova in via XX Settembre a Roma, nella sede del ministero dell’Economia di Giulio Tremonti
Panorama, giovedì 31 luglio Il tesoretto c’è, anzi, è un tesorone. Però non si trova in via XX Settembre a Roma, nella sede del ministero dell’Economia di Giulio Tremonti. Sta qualche centinaio di metri più in là, al numero 92 di via Nazionale, ben custodito nei caveau della Banca d’Italia del governatore Mario Draghi. Come i tesori delle fiabe manda bagliori e riluce perché è tutto d’oro: oltre 2 mila tonnellate di lingotti ben impilati e allineati, spesso stoccati da decenni. In alcuni casi contrassegnati dai marchi della storia: la falce e martello dell’Unione Sovietica, l’aquila americana, la svastica nazista. Tutti insieme hanno un valore di 44 miliardi e 800 milioni di euro, secondo la stima della stessa Banca centrale inserita alla voce «attivo» dello stato patrimoniale al 31 dicembre 2007. A cui vanno aggiunti circa 24 miliardi delle riserve costituite dalle attività in valuta della stessa banca nei confronti di residenti e non residenti nell’area euro. In totale le riserve sono pari a circa 69 miliardi, 5 in più rispetto al 2006, una massa enorme di risorse equivalenti a due o tre Finanziarie pesanti. Per legge quei beni sono di proprietà della Banca d’Italia che li conserva «a salvaguardia della credibilità del sistema europeo delle banche centrali», ma non tutti, solo una parte. Un’altra quota rilevante viene da riserve residuo di altre stagioni, essendo state costituite a difesa della lira. Ma dal momento che ora la lira non c’è più, c’è chi si chiede se abbia ancora senso conservare intonsi tutti quei miliardi o se piuttosto non sarebbe opportuno utilizzarli in un modo più produttivo per il sistema paese. La proposta di mettere a frutto le riserve della Banca d’Italia non è nuova, anzi come un fiume carsico appare e scompare nel dibattito economico e politico tagliando trasversalmente destra, centro e sinistra tra favorevoli e contrari. Si inabissa nei momenti in cui l’Italia spera di aver imboccato la via virtuosa del risanamento dei conti pubblici e rispunta quando l’emergenza torna a mordere. Ora siamo senza dubbio in questa seconda fase, con gli indicatori fondamentali dell’economia interna e internazionale che volgono verso il brutto: crisi finanziaria mondiale, prezzo del petrolio raddoppiato in 3 mesi, inflazione dell’area euro intorno al 4 per cento, crescita italiana praticamente bloccata, consumi al palo, produttività anemica. in questo scenario che la proposta di attingere alle riserve nazionali torna di attualità, rispolverata e arricchita da Geminello Alvi, brillante commentatore ed economista del consiglio degli esperti dell’Economia, il quale di recente l’ha inserita nel pentalogo consegnato a Tremonti, un promemoria riservato «Per l’uso dei patrimoni pubblici» (Panorama 30). L’idea di utilizzare le riserve delle banche centrali, per la verità, non è esclusiva dell’Italia, dove pure il debito pubblico è uno dei più giganteschi del mondo (1.600 miliardi circa alla fine del 2007). già stata tradotta in pratica, tutto sommato senza grandi clamori, in altri paesi d’Europa, dalla Francia all’Austria, che hanno messo a frutto le riserve per finanziare grandi progetti di ricerca e sviluppo, e dalla Spagna che, invece, ha preferito destinare quelle risorse all’abbattimento del debito. In Italia uno dei primi politici a lanciare timidamente l’idea fu Romano Prodi, ai tempi del suo primo governo, tra il 1996 e il 1998, ma poi il progetto fu riposto nel cassetto. Dalla sponda del centrodestra alcuni anni dopo ci riprovò Bruno Tabacci, oggi deputato della Rosa bianca, con un emendamento alla Finanziaria 2003 preparato d’intesa con il servizio studi della Camera, ma sbrigativamente considerato inammissibile e accantonato. Cambiata maggioranza, a luglio di un anno fa il centrosinistra rispolverò il progetto con il sottosegretario all’Economia, Alfiero Grandi. La proposta fu inserita in una risoluzione votata da Camera e Senato, ma anche in quel caso non se ne fece nulla. Tabacci avrebbe voluto usare le risorse a riduzione del debito, Grandi, invece, per rinvigorire gli investimenti in ricerca e innovazione. Parlando con Panorama, entrambi affermano di non avere cambiato idea. Ma anche gli oppositori restano molti, sia in uno schieramento sia nell’altro. Un anno fa il capogruppo di An in commissione Bilancio di Montecitorio, Mario Baldassarri, parlò di «vero e proprio assalto», mentre l’economista Tito Boeri, più vicino al centrosinistra, l’editorialista Francesco Giavazzi e Lamberto Dini, tra l’altro ex direttore di Bankitalia, sostennero all’unisono che con quel sistema non si sarebbe risanato un bel niente. «Il problema vero» dissero «era casomai la capacità o l’incapacità politica di attaccare la spesa corrente rimasta a livelli patologici nonostante tutti i tentativi di riduzione». Angelo De Mattia, uno dei collaboratori più ascoltati dall’ex governatore Antonio Fazio, sull’Unità scrisse che l’idea di utilizzare le riserve, pur non essendo un dramma, avrebbe richiesto modifiche costituzionali e comunque non poteva essere imposta, ma eventualmente frutto di una scelta autonoma della Banca centrale. La Banca d’Italia, però, è sempre stata contraria a toccare le riserve, considerate uno dei pilastri a sostegno della sua autonomia. Fazio liquidò a suo tempo la faccenda come un’«idea balzana» e, citando William Shakespeare, arrivò a dire che c’era «del metodo nella follia» di chi la proponeva. Più di recente a difesa delle riserve italiane il presidente della Banca europea, Jean-Claude Trichet, con ruvidezza ha parlato addirittura di tentativo di «esproprio». In Italia quando si tocca la faccenda delle riserve, inoltre, c’è da considerare un elemento in più, quello della proprietà. Perché quelle risorse sono sì della Banca centrale, che in questi decenni le ha fatte lievitare con oculatezza. Ma Banca d’Italia a sua volta è posseduta non da azionisti pubblici, bensì privati, banche in particolare, dall’Intesa Sanpaolo all’Unicredit, dalla Banca nazionale del lavoro al Monte dei Paschi (tabella a pagina 90), sempre rispettose al massimo dell’autonomia dell’istituto di Draghi, ma i cui manager devono rispondere del loro operato agli azionisti, alcuni stranieri. I quali, c’è da giurarci, difficilmente sarebbero entusiasti all’idea di perdere parte del patrimonio. Daniele Martini