Maria Brambilla, L’espresso 31/7/2008, pagina 148, 31 luglio 2008
L’espresso, giovedì 31 luglio Piante di plastica e prati sintetici, ghiaia di vetro colorato che scricchiola piacevolmente sotto i piedi e vialetti di morbido caucciù, cascate di lucidissimi nastri di acciaio e specchi che moltiplicano virtualmente lo spazio: materiali che hanno poco a che fare con quelli destinati da sempre all’arredo dei giardini ma che invece hanno rivelato insospettate doti decorative, e proprio per questo vengono ormai usati a piene mani da una schiera sempre più nutrita di paesaggisti e inseriti in spazi verdi che possono durare poche ore o una vita
L’espresso, giovedì 31 luglio Piante di plastica e prati sintetici, ghiaia di vetro colorato che scricchiola piacevolmente sotto i piedi e vialetti di morbido caucciù, cascate di lucidissimi nastri di acciaio e specchi che moltiplicano virtualmente lo spazio: materiali che hanno poco a che fare con quelli destinati da sempre all’arredo dei giardini ma che invece hanno rivelato insospettate doti decorative, e proprio per questo vengono ormai usati a piene mani da una schiera sempre più nutrita di paesaggisti e inseriti in spazi verdi che possono durare poche ore o una vita. Ma che in ogni caso, grazie a queste insolite presenze, appaiono lontani anni luce da quelli popolati solo da rose e tulipani. Una tendenza attualissima, anche se ha cominciato a imporsi una trentina di anni fa col mitico Bagel Garden, un’installazione stravagante e ironica a cavallo fra la Pop Art e la rigorosa geometria di un parterre del XVII secolo, ideata nel cortile della sua casa di Boston da Martha Schwartz, la più trasgressiva e anticonformista fra questi exterior designer di ultima generazione: una doppia fila di ciambelle (assolutamente autentiche ma prudentemente protette con una mano di vernice trasparente) sistemate a intervalli regolari su un tappeto di ghiaia viola steso fra due siepi di bosso perfettamente potate. Allestito in un batter d’occhio e destinato a durare solo il tempo necessario ad ospitare una festa organizzata per dare il benvenuto a un marito tornato da un viaggio, questo innovativo instant garden è finito invece sulla copertina del prestigioso Landscape Architecture Magazine, accolto da critiche feroci ma anche da lodi entusiastiche. Che, alla fine, lo hanno promosso al ruolo di icona del nuovo paesaggismo concettuale. Qualche anno dopo elogi e polemiche a non finire si sono riversate anche sul surreale Splice Garden, uno spazio rigorosamente artificiale, declinato in tutte le tonalità di verde, e progettato da questa fantasiosa garden designer sul tetto-terrazza di un edificio di Cambridge, nel Massachusetts. Dove facendo di necessità virtù (il pavimento non avrebbe potuto sopportare il peso di una fila di vasi pieni di terra), si era deciso di mettere da parte piante e fiori per far posto a siepi squadrate in laminato metallico e a cespugli di plastica potati a sfera - versioni ipermoderne degli elementi che hanno caratterizzato i grandi parchi rinascimentali dell’occidente - appoggiati, al posto delle consuete pietre, su una distesa di ghiaia (sintetica) giudiziosamente rastrellata come vuole la tradizione orientale dei giardini zen: uno spiazzante innesto di stili ideato in sintonia con il lavoro che si svolgeva nei laboratori di ingegneria genetica ospitati ai piani inferiori. Il solco tracciato da questi due stravaganti progetti è stato poi ampliato, sviluppato e incrementato, da un agguerrito esercito di paesaggisti che anno dopo anno, e un po’ in tutto il mondo ma soprattutto negli Stati Uniti, hanno messo a punto un ventaglio variegato di idee nuove e brillanti destinate sia alle terrazze e ai minuscoli giardini privati che ai grandi spazi pubblici. Sulle quali ora fa ampiamente luce un libro scritto da Tim Richardson, critico attento delle nuove tendenze giardiniere: ’Avant Gardeners - 50 Visionaries of the Contemporary Landscape’ (Thames & Hudson). Una sorprendente carrellata di realizzazioni intelligenti e originali, come i due roof-gardens gemelli creati da Ken Smith, estroso ex allievo della Schwartz, sul tetto del MoMA a Manhattan: due bizzarri parterre che non si possono attraversare ma solo guardare dalle finestre degli edifici intorno, e dai quali la natura è stata completamente esclusa e sostituita con 185 pietre di plastica bianca o nera, 560 bossi artificiali potati in topiaria, 150 chili di scintillante ghiaia di vetro azzurro acquamarina e 4 tonnellate di frammenti di gomma riciclata. Oppure i giardini popolati da enormi vasi di silicone colorato che sono il marchio di fabbrica di Paula Hayes, paesaggista newyorkese approdata all’universo del landscape design dopo un brillante soggiorno in quello della scultura. Come fa notare la Hayes, la caratteristica più interessante del silicone non è tanto la durata ma piuttosto la sua particolare semitrasparenza che lascia filtrare un po’ di luce, e così le pareti del pane di terra che avvolge le radici delle piante sistemate all’interno di questi insoliti e morbidi contenitori si possono coprire di muschi e licheni, un valore aggiunto delizioso e ben visibile. E poi i giardini urbani firmati dall’inglese Paul Cooper, altro ex scultore che per i suoi indaffarati clienti costretti a passare gran parte della giornata fuori casa progetta spazi che danno il meglio di sé dopo il tramonto del sole. Per esempio è riuscito a risollevare le sorti di un infelice e buio fazzoletto di terra sul retro di una casa londinese costruendo una serie di grandi rettangoli in plastica translucida bianca e sistemandoli in diversi punti come se si trattasse dei pannelli espositivi di una galleria d’arte. Di giorno queste quinte ritmano piacevolmente lo spazio del giardino, di notte invece, grazie all’effetto combinato di dispositivi a fibre ottiche e proiettori collocati in vari angoli, si trasformano in fantastiche macchie blu, rosse o gialle a seconda dell’umore del proprietario, o in schermi su cui scorrono le immagini più diverse. In effetti oltre a suggerire tecnologie e materiali assolutamente innovativi alcuni esponenti di questa promettente avanguardia cercano anche di proporre un diverso modo di intendere e vivere i giardini. Per esempio la statunitense Topher Delaney, una dei più osannati mostri sacri del paesaggismo concettuale, è convinta che gli spazi verdi debbano contribuire in tutti i modi al benessere fisico e psicologico di chi li frequenta, e per questo modella sempre i suoi progetti su quella che chiama la storia privata dei committenti, con i quali resta a lungo in contatto sia prima che dopo l’impianto dei loro giardini. Così per una cliente reduce da un matrimonio andato in pezzi ha disegnato un liberatorio e propiziatorio Divorce Garden dove, sparsi fra i fiori e i ciuffi d’erba, sono stati sistemati i frammenti di quella che era stata una terrazza progettata dall’ex marito. Invece Andy Cao - paesaggista di origini vietnamite trapiantato a Los Angeles e passato alle cronache per le sue scintillanti installazioni tappezzate con ghiaia di vetro - è andato ancora più in là e per una delle ultime edizioni del Festival dei giardini di Cornerstone (versione californiana di quello francese di Chaumont-sur-Loire) ha ideato un Lullaby Garden, congegnato per assicurare ai visitatori uno stato di totale benessere, sorta di rassicurante ritorno nel grembo materno che si poteva ottenere addentrandosi, a piedi nudi e al suono di una ninnananna, in un protettivo micropaesaggio di morbide onde realizzato con 200 tappeti in filo di nylon colorato e lavorato ai ferri. Maria Brambilla