Piergiorgio Odifreddi, L’espresso 31/7/2008, pagina 100, 31 luglio 2008
L’espresso, giovedì 31 luglio Ama definirsi "uno scienziato fallito". Invece è un uomo di successo, un autore di bestseller, un classico della divulgazione, dai suoi libro vengono tratti dei film
L’espresso, giovedì 31 luglio Ama definirsi "uno scienziato fallito". Invece è un uomo di successo, un autore di bestseller, un classico della divulgazione, dai suoi libro vengono tratti dei film. La sua fortuna è cominciata nel 1966, quando ancora giovane e sconosciuto, il dottor Oliver Sacks venne assunto all’ospedale Beth Abraham del Bronx, dove trovò un gruppo di pazienti sopravvissuti alla pandemia di encefalite letargica degli anni 1916-1927, che li aveva congelati nei movimenti e lasciati catatonici. Sacks li trattò con un farmaco sperimentale che permise loro di tornare temporaneamente alla vita, prima che gli effetti collaterali riprendessero il sopravvento e li rinchiudessero di nuovo nella prigione del loro corpo. La narrazione dello straordinario caso in ’Risvegli’ e l’omonimo film con Robert De Niro, catapultarono il dottore a una fama mediatica consolidata con le raccolte di casi clinici ’Emicrania’, ’L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello’, ’Vedere voci’ e ’L’isola dei senza colore’ l’ultimo ’Musicofilia’. C è poi ’Zio Tungsteno’, un’autobiografia e, allo stesso tempo, una storia della chimica dalle origini agli inizi del Novecento. Nel suo ufficio di New York abbiamo parlato con Sacks non solo della sua opera, ma anche della sua vita, non meno interessante dei libri che ha scritto, delle droghe che ha sperimentato, e del fascino che su di lui esercitano i suoi pazienti. E abbiamo scoperto un personaggio di stampo rinascimentale. Professor Sacks, cominciamo dalla sua infanzia. Ha raccontato di aver letto da bambino tanti libri scientifici e tutti in ordine storico... "Credo di essere stato precoce. Quei libri li ho non solo letti, ma conservati, e ciò che ho perso ho cercato di recuperare. Ad esempio, uno dei miei favoriti era ’L’interpretazione del radio’ di Soddy: quando mio padre morì, nel 1990, andai a recuperare i miei vecchi libri nella casa dove ero nato nel 1933, e quando presi quello di Soddy in mano si disintegrò in polvere, mangiato da un fungo. Ma non potevo starne senza: ho speso un bel po’ di tempo per ritrovarlo e di soldi per ricomprarlo". Ha detto una volta che la scienza è una cura contro il caos mentale... "Ho chiesto al mio psicanalista se ero schizofrenico, e lui disse di no. Allora gli domandai se ero nevrotico, e lui rispose: lei è un po’ più di nevrotico. Oltre quello, non ho approfondito. Ma il fatto è che, quando avevo dieci o undici anni, mio fratello Michael impazzì, e io rimasi terrorizzato nel vederlo allucinato, a volte catatonico per il terrore: avevo paura di lui, e paura per lui. Ma anche di me stesso e per me stesso: mi chiedevo se quello che succedeva a lui fosse preordinato anche per me". Suo fratello è guarito? "No, ha vissuto una vita tragica. Ha fatto vari lavori, in maniera meticolosa: era ossessivamente scrupoloso e accurato. Ha smesso di lavorare verso i cinquant’anni". Lei è medico, scrittore, neuroscienziato, divulgatore. Come fa a conciliare tanti mestieri? "A Oxford ho cominciato a studiare la combinazione chiamata PPP: Physiology, Psychology, Philosophy, (Fisiologia, Psicologia, Filosofia), con l’idea che le tre branche dovessero confluire. Questo era un pio desiderio negli anni ’50, ma forse si sta realizzando ora. Nel ’65 arrivato a New York, decisi di essere un vero grande scienziato: ho preso una borsa di studio in neurochimica e neuropatologia. stato un disastro". Non sembrerebbe a giudicare dai risultati. "Sono sempre stato impacciato. Rovescio le cose, perdo i campioni, e una volta ho lasciato cadere un hamburger in una centrifuga molto costosa. Così a un certo punto mi dissero: Sacks, se ne vada! Si dedichi ai pazienti, non alla ricerca. Dunque, sono uno scienziato fallito, anche se uno scrittore popolare". Un suo professore disse: Sacks andrà lontano, se non cerca di andare troppo lontano. "Tendo a essere stravagante e esagerato. Per esempio, un mio libro di centomila parole ha come origine due milioni di parole. Altra mia stranezza: calcolo l’età in base alla tavola di Mendeleev". Quella degli elementi chimici? "Sì. E ho l’abitudine di fare come regalo di compleanno un po’ dell’elemento corrispondente all’età. A un amico che ha compiuto 80 anni, ho regalato una bottiglia di mercurio: se fosse stato un anno più giovane, avrei dovuto dargli del platino. E oggi ho in macchina un bel pallone di zeno per un amico che compie 54 anni". La tavola di Mendeleev si vede nella sua camera nel film ’Risvegli’... "La tavola è il mio amuleto: ne porto una nel portafoglio da sessant’anni, come altra gente porta la foto del figlio o l’immagine della Madonna. E ne avevo una gigante su una parete del mio appartamento, all’epoca del film". La star di quel film è Robert De Niro "Passò quarantott’ore con il paziente il cui ruolo recitava, perché, disse, si può avere un’idea di cosa significhi essere Amleto o Ofelia, ma non un malato di Parkinson. Era così bravo, che un giorno mi chiese di mostrargli come un paziente si sarebbe bloccato in una certa situazione. Appena glielo mostrai, mi cadde addosso in una maniera tale che mi fece vacillare. A quel punto capii che non stava fingendo: era diventano parkinsoniano. A volte, a cena dopo le riprese, vedevo il suo piede rivolto all’interno, come se gli fosse rimasto un frammento di distonia. E a volte diceva cose che il vero paziente avrebbe potuto dire". Anche lei ama sperimentare certe situazioni su se stesso? "Essere, ricordare, immaginare, imitare: sono tutti aspetti di un’unica cosa". Per questo che ha cercato di diventare parkinsoniano? "Una volta ho preso un forte neurolettico con effetti parkinsoniani. Volevo vedere cosa succedeva, e farlo vedere ai miei studenti. E mi sono stupito nell’osservare che il mio braccio sinistro continuava a lungo a galleggiare in aria in maniera catatonica. Ma anche l’opposto mi affascina: una volta sono andato al Metropolitan Museum con un amico, un artista con sintomi parkinsoniani. Lui ebbe una crisi, si fece un’iniezione di apomorfina direttamente attraverso i pantaloni, e dopo mi disse: ’Ora ho dimenticato di essere parkinsoniano. Ma in 30 o 40 minuti, quando l’effetto svanisce, me lo ricorderò’". Nei suoi libri sembra però essere cauto sull’uso delle sostanze chimiche come medicine. "Negli anni ’60 ho provato di tutto, anche le droghe. Anzi, ero quasi diventato dipendente. Avevo avuto un’adolescenza magica con la chimica, in senso intellettuale. Ma poi tra i 15 e i 30 anni ero passato attraverso anni confusi e depressi: interminabili anni di scuola, che non ho mai amato, perché io devo fare le cose per conto mio. Solo a 33 anni, quando cominciai ad avere i miei pazienti, ricominciai a godermi le cose. Nel frattempo le amfetamine erano state un modo per rivitalizzare la passione intellettuale, che avevo perso". Quando cominciò a drogarsi? "Verso il 1963, più o meno a trent’anni, e terminai nel febbraio 1967. Non so quanti danni mi feci, ma sono sicuro di aver fatto fuori milioni dei miei neuroni. Ciò nonostante, eccomi qua, quarant’anni dopo, vivo e vegeto". Faceva esperimenti su se stesso? "Dire così sarebbe un tentativo di legittimazione. In realtà le droghe le ho prese sia edonisticamente, per piacere o curiosità, che distruttivamente, per farmi del male. Prendevo amfetamine a dosi enormi: pillole da 400 milligrammi, che per 24 ore raddoppiavano la pressione e triplicavano il polso, fino a 200 battiti. Molti dei miei amici ebbero infarti o morirono e io stesso, l’ultimo giorno del 1965, mi vidi allo specchio nel mezzo di una mania amfetaminica e mi dissi: Oliver, non sopravviverai un altro anno". Come fece a smettere? "Ci fu un episodio preciso. Avevo cominciato a lavorare in una clinica per malati di emicrania nel 1966, poco dopo la catastrofe in laboratorio (quando ho buttato l’hamburger nella centrifuga): era una specie di posto nel nulla, ma la cosa divenne immediatamente di estremo interesse per me, per la varietà sia del fenomeno che dell’impatto che può avere sul paziente. Una notte andai nella sezione dei libri rari della biblioteca e presi un volume scritto nel 1873: ’L’emicrania, il mal di testa e altri disturbi collegati’, di Edward Liveing. Era un venerdì notte, la sera in cui avevo l’abitudine di prendere una forte dose di amfetamine, e indulgere in fantasie. Ma questa volta non riuscii a staccarmi dal libro e cominciai a leggerlo sotto l’influenza della droga, che sembrò investire le pagine e l’argomento. Al culmine dell’eccitazione mi sembrò che mi si aprisse un paradiso neurologico e vidi l’emicrania come una meravigliosa costellazione. Lessi con una concentrazione catatonica: gli occhi fissi, le labbra secche e un senso di profonda meraviglia. Mi dissi: che libro meraviglioso, che meraviglioso argomento, il meglio della scienza medica dell’era vittoriana. Mi domandai chi avrebbe potuto essere il Liveing del nostro tempo, e ingenuamente scorsi una mezza dozzina di nomi nella mente. Poi esclamai ad alta voce: scemo, puoi esserlo tu! Fotocopiai il libro, che divenne l’ispirazione di ’Emicrania’, e smisi di prendere amfetamine". Parliamo di casi clinici, ne ha mai trovati con strane capacità matematiche? Io sono un matematico... "Ho scritto un articolo sui matematici ciechi dalla nascita, o quasi. Un matematico francese, che mostrò che una sfera si può rivoltare dall’interno all’esterno, in seguito dichiarò di essere stato aiutato nella scoperta del risultato dalla sua immaginazione tattile, che la gente normale non ha". Quindi, a volte, non avere un senso può essere vantaggioso. "C’è un libro meraviglioso intitolato ’Mani privilegiate’, di un paleontologo olandese Geerat Vermeij, che divenne cieco all’età di due o tre anni: con la sensitività preternaturale delle sue mani è riuscito a descrivere aspetti dei molluschi marini che altri scienziati avevano mancato". Si può essere ciechi in tanti modi diversi? "Sì. Ho scritto un saggio intitolato ’The mind’s eye’ - l’(occh)io della mente - sui diversi modi di essere ciechi, o sui diversi adattamenti alla cecità. Per alcuni essa stimola una compensazione dell’immaginazione visiva, una specie di realtà virtuale o quasi-allucinatoria controllabile. Altri perdono il mondo visivo o rinunciano ad alcuni suoi aspetti (memoria, nostalgia, valori visivi), dedicandosi ad altri sensi. L’individualità usa ciò che ha, e non è noto quanto essa sia determinata dalle circostanze, o dagli sforzi volontari". Il mio maestro di piano associava colori alle tonalità. " un’associazione diffusa. Un compositore mi ha raccontato che quando aveva cinque anni disse al suo insegnante di piano che gli piaceva molto un certo pezzo blu, in re maggiore. Ma si possono associare anche i colori ai numeri, dato che lei è un matematico. Io me ne sono interessato da quando ho letto il libro ’Indagini sulle facoltà umane e il loro sviluppo’, che Francis Gaulton ha scritto nel 1883: fu il primo studio dettagliato e statistico sulle associazioni cromatiche delle lettere o delle cifre. Mentre studiava la memoria e l’immaginazione visiva, Gaulton si accorse che qualcuno gli diceva di vedere le lettere o le cifre colorate: non si trattava di un’immaginazione, perché era invariabile, irresistibile, ininfluenzabile, e risaliva sempre alle memorie più remote". Si diverte ancora coi suoi strani pazienti? "Quando lavoravo in clinica la gente diceva che nessun dottore ambizioso avrebbe dovuto studiare casi come quelli, ma io l’ho fatto per quarant’anni e non mi stufo mai: continuo a vedere cose nuove, o cose vecchie sotto una nuova luce. E mi sono arrabbiato quando un mio collega, un giorno, disse che dopo vent’anni uno ha visto ormai tutto: non è vero, un argomento non si esaurisce mai". Piergiorgio Odifreddi