La Repubblica 24 luglio 2008, ADRIANO SOFRI, 24 luglio 2008
Le quattro vite di Karadzic macellaio della storia. La Repubblica 24 luglio 2008 Radovan Karadzic era un buffone, la storia, maestra di morte, lo promosse a gran macellaio, ora, a distanza di tredici anni, la cronaca l´ha estratto da un pubblico esercizio di omeopatia da strapazzo e di saggezza orientale
Le quattro vite di Karadzic macellaio della storia. La Repubblica 24 luglio 2008 Radovan Karadzic era un buffone, la storia, maestra di morte, lo promosse a gran macellaio, ora, a distanza di tredici anni, la cronaca l´ha estratto da un pubblico esercizio di omeopatia da strapazzo e di saggezza orientale. Nel suo sito aveva raccolto, "personalmente", un decalogo di "proverbi cinesi", per esempio "Chi non è capace di accordarsi con i suoi nemici, finisce per esserne dominato", oppure "Non puoi impedire agli uccelli del dolore di volarti sulla testa, ma puoi impedire loro di farsi il nido nei tuoi capelli". Il dottor Dragan Dabic, è il nome della terza vita di questo miserabile – prima vita da cialtrone, seconda da macellaio all´ingrosso, terza da cialtrone, della quarta stiamo per parlare – non andò lontano a trovarsi i suoi nemici: i vicini di casa, i colleghi di lavoro, la gente di tutti i giorni che lo conosceva e si raccontava le sue avventure boccaccesche, le sue vanità da bellimbusto e le sue poesie d´accatto. Nella seconda vita i riflettori e le telecamere e i flash cominciarono all´improvviso a svolazzare attorno al suo completo di grigio e forfora, e lui non smetteva di sobillare il ciuffo. Nella terza vita, appena interrotta, sulla sua capigliatura di guru e nella sua barba di profeta gli avvoltoi potevano fare il nido. Il Novecento è il secolo che va da una Sarajevo all´altra. La lunga avventura di quest´uomo ridicolo che le circostanze della storia – la storia! – e complicità e viltà dei grandi della terra promossero al rango fitto dei grossi assassini del Novecento trapassa ora, quando finalmente viene portato su un banco di imputato, nella tentazione della mitizzazione e della minimizzazione. Lo si leggeva già in parecchi commenti del giorno dopo. Quando la malvagità e il sangue esondano, si vuole trovare ai piccoli uomini che l´occasione ha reso grossi assassini una qualche grandezza, un fascino "mefistofelico", una predestinazione. Andatelo a dire a Sarajevo, ai suoi colleghi di lavoro, ai poeti e agli scrittori di cui quella città è così ricca, alle donne di Srebrenica, che c´era qualcosa di grande in quel grande criminale. E il grottesco impudente narcisismo dell´ultima puntata, il dottor Dabic che compariva nelle televisioni locali a spacciare pillole di valeriana e di sapienza orientale, anche questo suscita l´ammirata incredulità degli osservatori, che lo prendono come un gioco, il bel numero di un illusionista: premessa ai numeri ulteriori che il banco d´imputato all´Aja gli offrirà l´occasione di allestire, come già fin troppo al suo collega belgradese, Vojislav Seselj, a beneficio della propria vanità e dell´orgoglio serbo-bosniaco. difficile alle persone "estranee", anche quando una notizia viene accompagnata dall´apposita didascalia – «è responsabile dello sterminio di decine di migliaia di donne e uomini, dell´eccidio quotidiano perpetrato per tre anni dalle alture della sua città contro i concittadini chiusi nella valle come in un recinto di mattatoio, degli stupri di massa programmati per sfogare odio, foia e disprezzo e per impadronirsi del ventre delle donne del nemico, della strage genocida di tutti i maschi di una cittadina proclamata rifugio delle Nazioni Unite» – sentire davvero di che cosa si tratta. «Hanno preso uno di quelli che cercavano da tanto tempo, uno di quelli della ex Jugoslavia, aveva una barba, certi capelli, non sembrava davvero lui, accanto alle vecchie fotografie...». Qualche cronaca più esperta approfondisce la cosa: «Non aveva nemmeno l´accento bosniaco», figurarsi, il vecchio trombone montenegrino... Non lo trovavano? Neanche un anno fa, il nostro Gigi Riva scriveva sull´Espresso: «Ha una fluente, lunghissima barba. Veste con la tunica dei monaci ortodossi. Talvolta porta dei sandali ai piedi». L´hanno trovato, bastava dare un´occhiata nei monasteri ortodossi, è bastato dare un´occhiata sull´autobus. Dunque i telegiornali hanno mandato le immagini di Belgrado, con qualche pattuglia di fascio-serbisti impegnati a tirar sassate e appiccare un paio di roghi per protestare contro l´arresto, e, simmetricamente, le immagini di Sarajevo, con i cortei di auto e clacson e i ragazzi seminudi a festeggiare come per una vittoria calcistica. Tutto doppio, tutto simmetrico: il Karadzic di ieri e quello di oggi, i manifestanti di Belgrado e quelli di Sarajevo, l´America che loda la cattura e la consegna all´Aja, la Russia che obietta e chiede la chiusura del tribunale dell´Aja – non si sa mai, dovesse venire il giorno della Cecenia. Tutto doppio: la fotografia dell´Eichmann del 1942, "così giovane, un ragazzo", e quella, "così stempiata", dell´Eichmann del 1960. (Quattordici anni dopo Norimberga: Karadzic stava per battere il record, è ancora in corsa Mladic, il macellaio in divisa). Ce ne volle di tempo per cominciare a capire chi fosse, chi fosse stato, quell´Eichmann, e ci si scandalizzò quando nel resoconto del processo di Gerusalemme Hannah Arendt nominò la banalità del male. Di fronte alla pazzia furiosa e sanguinaria del 1992-1995, come accontentarsi del dottor Dragan Dabic? Lo si promuoverà – seduttore, diabolico – o lo si ridurrà alla curiosità quotidiana – come ha fatto a travestirsi in quel modo?... Eppure assistiamo ogni giorno allo spettacolo della piccineria e del ridicolo che conquista il potere – "una farsa", ha detto bene il dottor Dabic. A Sarajevo non c´era festa come quando si vince la partita: quelle erano immagini di bocca buona. A Sarajevo si conosce la meschinità dell´uomo e l´enormità del male. Tredici anni non bastano nemmeno a dare una patina di oblio al lutto e alla disperazione di 43 mesi, di mille e trecento notti. «La morte è un capomastro serbo», scrisse uno scrittore vero, Marko Vesovic, calcando Paul Celan. La morte mieteva all´ingrosso e al minuto sulla città assediata, affare di granate e di bombe d´aereo, migliaia in un giorno, o di cecchini divertiti dalla gara al bersaglio più ambito – i bambini, più piccoli, punteggio più alto. Tutti i giardini della città assediata erano diventati cimiteri, nei cimiteri i morti giovani sorpassavano i vecchi, i professori bruciavano i libri per scaldarsi un po´ e tutti facevano la fame e le signore badavano a indossare almeno una biancheria intima decorosa, prima di uscire, per il caso di essere colpite e soccorse. In questi giorni Mihaela Secrieru, di ritorno dall´11 luglio di Srebrenica, dove ancora in decine di migliaia si sono radunate a ricordare e dare sepoltura ai corpi esumati dell´anno, mi ha mostrato una quantità di immagini della nuova vita di Sarajevo. Mi hanno colpito soprattutto le chiome degli alberi, dei pioppi cipressini che svettano in gara coi minareti di Bascarsija: che si fossero restaurati i minareti me lo aspettavo, che i pioppi avessero risuscitato le loro fronde verdi sui moncherini mutilati dalla pioggia di granate, questo mi ha commosso di più. troppo facile figurarsi che cosa sia successo dentro i corpi e le anime dei sarajevesi. "Festeggiato"? Certo, hanno salutato la cattura di Karadzic come un pezzo di ciò che è giusto, che deve essere, che doveva essere da tanto tempo. Ma quella notizia arrivata nella notte da Belgrado (notizia di riscatto per Belgrado) ha grattato via la leggera vernice di normalità, gran traffico d´auto, bentornato inquinamento, ragazze dalle gambe lunghe e dalle gonne corte, e malavita e droga da tempo di pace, la vita, insomma, e ha restituito alla memoria di ciascuno le notti di allora, le notti ubriache dei boia di Pale e le notti di coprifuoco senza luce né sonno della gente di sotto, ammazzata dentro le sue stesse case, umiliata nei suoi stessi sogni. Quella gente ha visto per anni, mentre faceva la fame e tremava di freddo e seppelliva i suoi, lo psichiatra ciarlatano che si passava la mano nella cresta di capelli e la concedeva ai grandi della terra, ai presidenti dell´Europa (Mitterrand!), ai capi delle Nazioni Unite. E a Pale e a Ginevra i giornalisti e le telecamere facevano la coda per sentirlo: privilegio della modernità, al tempo del ghetto di Varsavia e di Auschwitz non era così facile andare a intervistare Eichmann e brindare con lui. Questo dilettante di tutto, della paranoia e della strage, adesso andrà all´Aja. Magari è libera la cella che toccò a Milosevic. All´Aja è interdetta la pena di morte. Tutto il resto gli è dovuto. ADRIANO SOFRI