Corriere della Sera 24 luglio 2008, Francesca Bonazzoli, 24 luglio 2008
Dai fondi oro al mega sole: una sfida ai bagliori divini. Corriere della Sera 24 luglio 2008 In competizione con Dio stesso nella creazione – a volte con l’ambizione di perfezionarla, altre inventando una natura ex novo – gli artisti hanno sempre intuito che il segreto alchemico stava lì, nella luce, mistero di ogni origine
Dai fondi oro al mega sole: una sfida ai bagliori divini. Corriere della Sera 24 luglio 2008 In competizione con Dio stesso nella creazione – a volte con l’ambizione di perfezionarla, altre inventando una natura ex novo – gli artisti hanno sempre intuito che il segreto alchemico stava lì, nella luce, mistero di ogni origine. Già 2500 anni prima di Cristo gli egizi crearono con le piramidi un simbolo del Sole connesso alla terra attraverso la punta; anche i monumenti preistorici di Carnac e di Stonehenge erano costruiti in modo da catturare il sole al loro centro nel giorno del solstizio d’estate. I mosaici bizantini a fondo oro, da Santa Sofia a Istanbul a San Vitale a Ravenna fino alla Cappella Palatina di Palermo o alla Basilica di San Marco a Venezia, rappresentano la stessa volontà di mettere in comunione il fedele con il divino. Lo spazio dell’oro è infatti infinito, senza alto né basso, occidente o oriente: una dimensione sacra e atemporale, incommensurabile e abbagliante. Tanto radicata era la percezione della luce come principio creatore che ancora fino all’inizio del Quattrocento il divino era rappresentato con l’oro: è vero che Giotto aveva per primo immerso la storia sacra nel tempo storico affrescando ad Assisi cieli, nuvole, alberi e case come mai s’era visto prima, ma ancora nel 1426, persino Masaccio, il ventenne che sovvertì la cultura tardogotica adottando i principi della prospettiva e dell’incidenza naturale della luce, quando dipinse la Crocifissione per il polittico del Carmine di Pisa, oggi a Capodimonte, scelse di riportare la scena in uno spazio assoluto usando l’oro per trasformare l’episodio storico della passione di Cristo nel simbolo della redenzione dell’umanità: la Storia diventava così Provvidenza. Ci volle Piero della Francesca per portare finalmente in terra il segreto della «divina» proporzione. Come? Ancora una volta attraverso la luce che investe le figure costruendone il volume e rivelando così l’identità assoluta fra macrocosmo e microcosmo. Chiara, fissa e trasparente, è la luce che crea l’armoniosa verità delle forme. Con la prospettiva e la luce, Piero fonda così l’ideale universalistico dell’arte che è la totalità del sapere, dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo come si vede nei ritratti del duca di Urbino e di Battista Sforza immersi senza mediazioni nella luce atmosferica per rivelare insieme l’immensità del paesaggio e i dettagli, per esempio, della perfetta rotondità di una perla. Ma è solo un breve periodo: dopo il Rinascimento la luce torna ad essere un divino mistero. Nel Seicento l’arte non è già più strumento di verità, ma prodotto dell’immaginazione, esperienza emotiva e non razionale. Così nelle tenebre di un secolo violento, corrotto, dedito all’apparenza e a tentare di oscurare i progressi della scienza, la comprensione della realtà per Caravaggio si concentra in un attimo di luce, in una rivelazione drammatica che coglie la verità nella sua luminosa flagranza squarciando le ombre quotidiane. Come nelle vocazioni di San Matteo e di San Paolo, la grazia è una lama di luce: un momento improvviso e fuggente in una vita dominata dal buio, dalla violenza e dalla morte. Da allora le forme e le teorie dell’arte sono molto cambiate, ma la luce ha continuato ad avere il compito di lacerare il mistero della creazione. L’epoca felice e spensierata dell’Impressionismo è stata solo una parentesi che di fatto non pretendeva di capire la realtà, ma solo di coglierla nel suo attimo di dissolvenza. L’aspirazione non era arrivare all’assoluto: la luce era mero fenomeno ottico, non chiave di interpretazione. Così oggi l’arte è ancora lì, nello stesso punto da dove era partita, a sfidare la creazione attraverso la luce: nella Turbine Hall della Tate Modern illuminata dall’artista danese Olafur Eliasson con un enorme sole artificiale, nelle installazioni al neon di Dan Flavin o nel Lightning field di Walter De Maria che mette in relazione cielo e terra attraverso 400 aste che spuntano dal suolo attirando i fulmini con un effetto grandioso, l’esperienza dell’arte che facciamo è ancora al confine col misticismo. Chiamatela spiritualità o religiosità, sempre di un’aspirazione all’assoluto si tratta, come nelle piramidi, nei menhir, nei fondi oro o in Caravaggio. Tanto che il più radicale degli artisti di oggi che lavorano con la luce, il quacchero James Turrell, ha costruito la sua spettacolare opera d’arte dentro un vulcano estinto nel deserto dell’Arizona, il Roden Crater: sedici immensi ambienti ipogei che, grazie a precisi tagli architettonici, calcoli fisici, matematici e astronomici attuati con l’aiuto di grandi specialisti per incanalare la luce secondo particolari effetti luminosi, consentono al visitatore di fare un’esperienza fisica e spirituale. Fino ad ora, probabilmente la sfida più grande che un artista abbia mai lanciato alla creazione del Sommo Artista. Francesca Bonazzoli