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 2008  luglio 23 Mercoledì calendario

IL DOPOGUERRA DEI RIFIUTI

Il Sole 24 Ore 23 luglio 2008
Le strade non raccontano mai tutta la verità di un popolo. E la monnezza non può trasformarsi nell’unità di misura antropologica della napoletanità. Ora che le vie sono pulite, si può riemergere dall’apnea lunga sei mesi e respirare l’aria impregnata di inchiostri, inspirare nuvole di vapore di ferri da stiro sugli abiti di alta sartoria, ascoltare lo stridio dei freni di treni merci in viaggio verso l’Europa. Sono le fabbriche di Napoli che torna alla vita come dopo la guerra, una Napoli che ogni giorno si confronta (e vince) sui mercati di tutto il mondo.
"Kobetsu kaizen!". L’urlo muto nipponico risuona come un mantra nella fabbrica modello di Arzano, immensa periferia degradata a nord di Napoli. La toponomastica è come un contro mantra: Afragola, Caivano, Acerra. E poi Villa Literno, Casal di Principe, Casapesenna: la toponomastica del malessere, la mappa dei rifiuti, l’itinerario del disamore. Ma stavolta non c’è spazio per le cattive notizie. Ora le strade sono liscie e pulite come tavoli di biliardo. Ora gli industriali si incoraggiano a vicenda e visitano reciprocamente le loro fabbriche per ricominciare ad apprendere, farsi coraggio, ricostruire pezzo dopo pezzo l’autostima frantumata dall’alluvione di monnezza che ha sconvolto Napoli e la Campania.
Gianni Punzo, cavaliere del lavoro eduardiano con il naso adunco e le idee perforanti, la dice a modo suo. «Il mio amico Antonio D’Amato ci ha asciugato le lacrime e ci ha esortati a rialzarci». In giapponese "kobetsu kaizen" significa miglioramento continuo. E la fabbrica di D’Amato, la Seda, è una sequenza di sofisticatissime macchine per la stampa con "inchiostri ad acqua" sormontate da cartelli che il consulente giapponese dei circoli di qualità ha imposto di affiggere dappertutto. "Kobetsu kaizen" e poi milioni di confezioni, ognuna con un logo diverso scivolano come pagine di giornale sulle rotative. Nestlé e Barilla, McDonald’s e Unilever. Che a qualche chilometro da qui ha creato il polo di ricerca sul gelato più avanzato al mondo. Senza la Seda, che ha stabilimenti in Germania, Galles e Portogallo, le grandi multinazionali del food non potrebbero impacchettare i loro prodotti. Novanta milioni di consumatori si ritrovano ogni giorno in mano un prodotto di questa fabbrica napoletana dove Antonio e il fratello Gianfranco si muovono come i principi di Salina a Villa Donnafugata. Tra gli inchiostri e la carta ci sono nati. E questo odore di stampa che invade le narici lo inspirano ogni giorno insieme con i 2mila dipendenti europei del gruppo. «A chi lavora con noi chiediamo pensiero e passione», spiega Gianfranco. I campani che lavorano in Seda ci riescono talmente bene da stupire l’inflessibile consulente nipponico. La carta arriva solo da Paesi scandinavi e Stati Uniti, gli unici capaci di attestare che sia materia prima riciclata. Il 98% del prodotto finito è riciclabile, ma i ricercatori napoletani hanno testato con successo un nuovo materiale riciclabile e compostabile (neologismo da rifiutologi, significa che può trasformarsi in fertilizzante). Riciclo, compost, frazione organica secca fanno parte del nuovo lessico partenopeo, stimmate semantiche sopra altre stimmate che rammentano l’umiliazione patita in questi interminabili mesi. La Napoli di questi giorni ricorda il dopoguerra. Dalle macerie morali spunta l’inesauribile vitalità di un popolo che ricomincia a lottare. L’unico dubbio è che Seda sia come un castello medievale, con un ponte levatoio che la isoli dal territorio. La materia prima alla quale i D’Amato non rinuncerebbero per nessuna ragione al mondo è l’intelligenza prensile di uomini e donne votati al kobetsu kaizen.
Qualche chilometro più in là, c’è un altro castello autosufficiente e "autonomo" costruito pietra dopo pietra da Gianni Punzo, per una vita venditore a piazza Mercato di biancheria da "letto e da tavola". Punzo parla un dialetto che è una specie di esperanto. Lo capiscono in Cina e in Australia. Ma soprattutto lo capiscono i suoi colleghi bottegai, che trent’anni fa accolsero con entusiasmo la sua idea preveggente di delocalizzare il polo dei grossisti a Nola. «Mille persone insieme nella città del qualunquismo sono il massimo possibile: questa è la più grossa cooperativa vivente del Sud» scandisce nel suo irresistibile slang. Prima il Cis, poi l’interporto e piattaforma logistica che «inspira merci dal Mediterraneo e le espira nel Nord Europa»; infine il vulcano buono di Renzo Piano, un centro commerciale che replica la forma conica di quello cattivo. Dopo l’intuizione del Cis, il cavaliere del lavoro Gianni Punzo "espira" quella ferroviaria. Prima inaugura un treno privato di trasporto merci per Amburgo via Segrate (Milano) e Monaco. Poi suggerisce a Luca di Montezemolo e Diego della Valle l’idea del trasporto ferroviario passeggeri sui binari dell’alta velocità. Nasce così la Ntv: copyright napoletano di uno che dal suo piano rialzato ("Della Valle abita al 18°, Montezemolo al 20°", ironizza lui per ristabilire le differenze) non si lascia impaurire neppure dal calo dei consumi: «Ci sono Paesi del Mediterraneo che hanno gli armadi vuoti e le tasche piene».
Quegli armadi si stanno popolando dei vestiti di una grande sartoria, la Kiton. Ai napoletani molte cose si possono rimproverare, non certo la mancanza di stile.
Ciro Paone, due occhi neri come catrame e la battuta fulminante, è riuscito a far sedere attorno a un enorme tavolo della sua fabbrica di Arzano (lo stesso paese della Seda dei D’Amato) cinquecento sarti che nel chiuso delle loro case di Casandrino o Frattamaggiore hanno imparato a cucire affiancando piccole sedie impagliate a quelle delle loro mamme perennemente sedute alle finestre di umili case. Se qualcuno volesse girare uno spot sulla sapienza dei napoletani è lì che deve andare. La grande intuizione di Paone è quella di giocarsi tutto sull’abito sartoriale in anni nei quali gli italiani comprano solo abiti industriali. Ora i negozi Kiton sono a Pechino, Seul, Tokio, Mosca e New York. Nel 2002 il sarto napoletano si è tolto pure lo sfizio di comprare il building sulla 54esima strada di proprietà del Banco di Napoli. «C’è voluto molto amore e tanta pazzia», ripete Paone per raccontare la sua avventura umana e professionale. Amore, pazzia e kobetsu kaizen. Il mantra della rinascita napoletana.
Mariano Maugeri