Il Sole 24 Ore 20 luglio 2008, Mario Margiocco, 20 luglio 2008
Il ’29 che l’America non dimentica. Il Sole 24 Ore 20 luglio 2008 E finalmente sul palcoscenico di Broadway il grande Ed Wynn, entrato in scena su una sorta di cammello, trovava, dopo molti tentativi all’orecchio dell’animale testardo, il comando giusto: «Goldman Sachs!»
Il ’29 che l’America non dimentica. Il Sole 24 Ore 20 luglio 2008 E finalmente sul palcoscenico di Broadway il grande Ed Wynn, entrato in scena su una sorta di cammello, trovava, dopo molti tentativi all’orecchio dell’animale testardo, il comando giusto: «Goldman Sachs!». Il presunto quadrupede crollava sulle ginocchia anteriori lasciando che la platea avvolgesse Wynn, smontato e trionfante, in un applauso e una grande amara risata. The Laugh Parade fu uno dei pochi show di successo nell’America del dopo ’29, a migliaia furono pronti a pagare nel ’31 l’allora incredibile somma di 5,50 dollari. Lo spettacolo cercava di portare qualche sorriso su quella che fu, dopo la Guerra civile, la più grande tragedia americana, e presto una tragedia mondiale: la crisi di Borsa del ’29 e la Grande depressione degli anni 30. La scena del cammello era il clou. I disoccupati superavano ormai il 20% (erano il 28 a San Francisco ad esempio) e si avviavano ad essere, e a lungo, il 25% a livello nazionale: una famiglia su quattro senza reddito; l’indice Dow Jones industriale, che aveva toccato il 3 settembre del ’29 il picco di 381,17 punti, dopo mesi però di oscillazioni sospette, sarebbe sprofondato dopo altri alti e bassi ai minimi di 41,22 dell’8 luglio ’32, più basso di quanto fosse stato negli ultimi decenni dell’800. Per tornare sopra i 381 solo nel 1954. Come dire che chi aveva comperato da giovane ai massimi nel ’29 e non era uscito in tempo avrebbe trascorso gran parte della vita adulta prima di rivedere la cifra nominale. Sono molti mesi ormai che il ’29 viene agitato come uno spauracchio. Comprensibilmente come termine di confronto e di misura delle attuali difficoltà finanziarie americane e gobali. Con deboli argomenti come modello destinato a ripetersi. Troppe cose sono diverse oggi. A partire dalla lezione che gli errori degli anni 30 hanno lasciato. Forse insufficiente come garanzia a tutta prova, ma ben presenti. Il ’29 fu negli Stati Uniti, e anche in Europa, una vera tragedia. Tutti hanno ricordato per la vita intera che cosa facevano e dove erano il 29 ottobre del ’29, il giorno peggiore di una serie nera. Una data fatidica insieme a poche altre. Le fortune dei Kennedy Del ’29 americano vengono inevitabilmente alla memoria sconcertanti anedottiche, e brutti ricordi storici, di leggerezza e cupidigia. Di straordinaria attualità, certamente. Come di straordinaria attualità sono anche le storie di chi per abilità o fortuna dal ’29 riuscì a salvarsi. Tutta l’America partecipò al clima di euforia, ma solo una netta minoranza acquistò azioni. Joseph Kennedy, il padre del futuro presidente, e uno degli spregiudicati finanzieri che più trasse vantaggio da Wall Street, vendette in tempo, e raccontava spesso di aver deciso di uscire quando si accorse che persino i lustrascarpe parlavano di investimenti in Borsa. Forse per la sua particolare esperienza con tutte le tecniche finanziarie, oltre che per il suo contributo alla campagna elettorale, del ’32, Franklin D. Roosevelt lo nominò nel ’33 a capo della neonata Sec, l’organo di controllo della Borsa. Fra quelli salvati dall’accortezza – e quindi molto liquidi a valori crollati, il sogno di ogni finanziere ”, uno dei più noti fu Abraham E. Fitkin, un mancato pastore pentecostale diventato re delle utility, che vendette nel ’27 per 300 milioni al gruppo Insull di Chicago. Samuel Insull, rovinato dal crack di Borsa, accusato di avere venduto a man bassa titoli rischiosi al pubblico, costretto a fuggire in Europa, si salvò un poco, moralmente, per la generosità con cui aiutò i propri dipendenti coinvolti nelle perdite. John D. Rockefeller Jr era a Detroit per onorare Thomas Alva Edison, il 29 ottobre del ’29, ma aveva già da tempo dato ordine quietamente di liquidare e, come vari altri bei nomi della finanza, si salvò. Due dei personaggi usciti peggio da quell’epoca, sul fronte finanziario, furono John Jakob Raskob e Charles Edwin Mitchell. Raskob era il manager che creò l’asse finanziario tra Du Pont e Gm, controllando di fatto quest’ultima, e fu l’uomo dietro la costruzione dell’Empire State Building. In un non dimenticato articolo per il Ladies Home Journal intitolato «Everybody ought to be rich» (tutti dovrebbero essere ricchi), offriva la sua ricetta: un investimento settimanale costante di 15 dollari in azioni ordinarie. Dimenticandosi evidentemente che il salario medio dell’operaio americano era tra i 17 e i 22 dollari a settimana. Mitchell era stato definito dal financial editor del New York Post «l’ideale del banchiere moderno» nel maggio del ’29, e veniva bollato come «responsabile di questo disastro più di 50 altri messi insieme» nel novembre dello stesso anno dal senatore Carter Glass. Presidente di National City Bank (oggi Citibamnk), "Sunshine Charlie" o "Billion Dollar Charlie" era ancora al suo posto quando la Commissione senatoriale d’indagine creata nel ’32 e che aveva come avvocato d’accusa l’italo americano Ferdinand Pecora lo costrinse ad ammettere che i compensi ricevuti nel ’27-29 ammontavano a 3,556 milioni di dollari. Fu, per Mitchell, la fine. La fine di un’epoca Come il ’29 fu la fine per un’intera stagione politica, repubbicana sostanzialmente ma non solo, visto che Raskob per fare un nome era un fervente e influente democratico. Il presidente Hoover sarebbe stato perseguitato fino alla tomba – morirà nel ’64 mentre ironia della sorte Lyndon Johnson lanciava la sua lotta definitiva alla povertà – da un obiettivo ambizioso dettato nella vittoriosa campagna elettorale del ’28, quando dichiarò che «noi in America siamo più vicini al trionfo finale sulla povertà di quanto l’umanità sia mai stata nella storia di qualsiasi terra. Da noi l’ospizio dei poveri sta scomparendo». I repubblicani perdevano nel ’30 il controllo della Camera, avuto ininterrottamente dal ’16, e arretravano pesantemente al Senato. Avranno un vero presidente repubblicano (Eisenhower lo era a metà e portò tutto sommato il partito nel mainstream del New Deal) solo con Richard Nixon del 1968. Con il Grande Crash finiva un’epoca. «La nuda realtà è che il credo individualista del ciascuno per sé – scriveva Charles A. Beard per più aspetti padre della moderna storiografia progressista americana – con gli investimenti rapaci da un lato e lo sfruttamento del lavoro dall’altro... non funziona in un’era di tecnologia, scienza ed economia razionalizzata». anche il clima elettorale americano del 2008 e non solo la crisi finanziaria, a spingere a paralleli con il ’29. Fino a che punto John McCain riuscirà a limitare i danni e fino a che punto invece il partito repubblicano, già esausto di suo, sarà travolto anche dalla crisi di una finanza con cui più dei democratici si è identificato? Un ritorno al passato, quasi 80 anni dopo? Il ’29 resta, nella storia economica, qualcosa di ben preciso e di assai diverso rispetto al 2007-2008. «Capire la Grande depressione è il Sacro Graal della macroeconomia», scriveva nel 2000 in un saggio Ben Bernanke, l’attuale presidente della Federal Reserve che di quegli anni è considerato uno dei massimi esperti. Bernanke ha fatto sua la tesi di fondo di Milton Friedman e Anna Schwartz, e cioè che fu la stretta monetaria decisa dalla Fed a partire dal ’28 e soprattutto nel ’31 la causa prima del disastro (si veda a lato). Il grande storico dell’economia Charles P. Kindleberger, che si alterava a sentir citare la tesi di Friedeman, ha sempre sostenuto che ridurre tutto alla moneta è un errore, e molte altre cause – tra cui l’instabilità del credito, il rallentamento economico, la caduta dei prezzi, la scarsa collaborazione internazionale – pesarono in modo decisivo. Non c’è dubbio che la Fed, ultima nata fra le grandi banche centrali (’13-14), inesperta, trovatasi di colpo a gestire la prima finanza mondiale e quella che dopo la Prima guerra era una moneta appetita quanto e più della sterlina, frenò mentre doveva assicurare liquidità. Così come è chiaro, e questa è una delle poche analogie con il 2007-2008 americano, che in entrambi i casi vi fu politica monetaria troppo espansiva. Oggi e dal 2002 per sostenere l’economia americana dopo gli attacchi terroristici e assicurare la rielezione di George G. Bush nel 2004. Allora, sotto la guida di Benjamin Strong presidente della Fed di New York, per sostenere le economie europee e ricreare l’ordine monetario del "gold standard", in un clima abbastanza confuso in cui gli Stati Uniti volevano con New York e la finanza la leadership, mentre i politici di Washington la volevano assai meno. «A mental addict to Europe», così Hoover definì Strong nelle sue memorie, accusandolo per i danni del ’29. Il decano dei lustrascarpe L’eccesso di denaro facile (Strong moriva nel ’28)fu indubbiamente fra i deterrenti della speculazione. Non ci fu boom immobiliare. Anzi i prezzi delle case scesero gradualmente, in tutti gli Stati Uniti, dal ’25 al ’33. Vi furono crolli dopo il ’29, e un magnifico cottage a Montauk Point, sulla punta est di Long Island, valutato due anni fa 800mila dollari, ne costava 400 a metà anni 30. Vi fu speculazione sui terreni in Florida, terribile, e altrove. E il padre di Hemingway, medico a Chicago, anche per quanto aveva perso in Florida, con speculazioni sbagliate, oltre che per il diabete, si suicidò nel ’28. Il decano dei lustrascarpe della vecchia New York ormai più che scomparsa, Joe Bologna, arrivato nel 1896 a 18 anni da Castelgrande (Basilicata) quando i lustrascarpe lavoravano 15 ore al giorno per 4 dollari a settimana, aveva dato di spazzola per banchieri e bancari, contando fra i suoi aficionados anche il giovane avvocato Franklin D. Roosevelt. Un paio di clienti lo iniziarono ai segreti di Borsa. E Joe Bologna, che non vendette quando all’inizio di ottobre del ’29 avrebbe potuto incassare circa 250mila dollari di allora e cambiare del tutto vita, visse fino a 86 anni morendo nel ’59 da decano dei lustrascarpe. Mario Margiocco