Sandro Modeo, Corriere della Sera 23/7/2008, 23 luglio 2008
una rimozione naturale, perché l’impulso adattativo ce la impone: ma là in fondo – dietro il velo rassicurante delle nostre abitudini – la vita biologica viene incessantemente scolpita e plasmata dalla morte
una rimozione naturale, perché l’impulso adattativo ce la impone: ma là in fondo – dietro il velo rassicurante delle nostre abitudini – la vita biologica viene incessantemente scolpita e plasmata dalla morte. E questo sia a livello individuale, con l’apoptosi (in greco «caduta delle foglie ») che programma la morte cellulare selettiva del nostro organismo (già nell’embrione le piccole mani vengono discriminate dalla membrana palmare proprio grazie a tale processo); sia a livello di specie, con virus e batteri che perforano a ondate le nostre corazze immunitarie e rimodellano il nostro assetto genetico. Ora un libro ormai classico di Andrew Nikiforuk (la prima versione è del 1991) ci esorta a rimuovere la rimozione e a osservare il paesaggio senza filtri, evidenziando nell’azione del Quarto cavaliere (quello, richiamato nel titolo, cui l’Apocalisse delega le folate epidemiche) uno dei co-fattori decisivi nel farsi e disfarsi della storia dell’Homo sapiens. Farsi e disfarsi perché l’onninvadenza dei microrganismi (molto più antichi dell’uomo, come mostra una semplice spora di 25 milioni di anni fa nell’intestino di un’ape conservata nell’ambra) non è solo distruttiva: senza il loro invisibile brulichio attivo non ci sarebbe la fotosintesi, gli stomaci dei ruminanti non convertirebbero l’erba in zuccheri e il formaggio non potrebbe stagionare. Il punto è che le loro linee evolutive non sempre sono compatibili con quella umana, soprattutto a causa della nostra evoluzione culturale. La collisione inizia più o meno tra 10 e 7 mila anni fa, con la duplice rivoluzione dell’agricoltura e della domesticazione animale: le zolle rimosse per seminare grano e orzo e la convivenza dell’uomo con pecore e maiali portano a un métissage di Dna inedito e al dilagare di virus, batteri e funghi in villaggi densamente popolati e quindi a elevato rischio di contagio. Da lì in poi – come si vede nella progressione serrata, quasi allucinata di Nikiforuk – ogni epidemia ha marchiato a fondo caratteri etnici, economia e costumi delle società umane, con i germi che hanno trovato di volta in volta congeniali situazioni geografiche e ambientali per deflagrare e mostrificare i nostri corpi e i nostri volti, magari dopo aver convissuto con noi in altri contesti per periodi più o meno lunghi. La malaria nella sua forma grave, il Plasmodium falciparum – comparsa in Africa nell’acqua tra i solchi di terreno per le patate dolci, dopo vaste deforestazioni – viene portata dalla zanzara anofele nella rete idrica romana, contribuendo alla decadenza dell’impero. La lebbra – micobatterio ospitato in origine dal bufalo indiano o dall’armadillo – produce, con l’isolamento degli infetti, la nascita di lebbrosari e lazzaretti, cioè di archeo-ospedali. La peste – veicolata dalle pulci mongole ed esplosa in Europa come «Morte Nera» nel 1348 – è decisiva nel crollo del feudalesimo (con la servitù della gleba falcidiata – 30 milioni di contadini morti in due anni – e con i superstiti riconvertiti in ascendente borghesia commerciale) e nella scomparsa del latino, senza più monaci a insegnarlo. Il vaiolo – planato in Europa dal Medio Oriente intorno al X secolo d.C. – ha scatenato quell’ «Apocalisse biologica» alla base della colonizzazione del Nuovo Mondo (100 milioni di amerindi morti in meno di 100 anni). La sifilide – importata dai marinai di Cristoforo Colombo – ha sollecitato l’invenzione sia delle parrucche (per ovviare alla calvizie provocata più dal mercurio che dal morbo) sia delle «protezioni» nei rapporti sessuali (in lino ruvido o interiora di pecora). E la tubercolosi – il cui batterio risalirebbe addirittura a tre milioni di anni fa – è di fatto la prima epidemia «industriale», con i duri orari di lavoro ad accentuare predisposizioni ambientali (malnutrizione e luoghi insalubri) costitutivi della fragilità immunitaria alla base di ogni epidemia. Notevole la zoomata sulla visione sociale e culturale volta a volta indotta da ogni epidemia sui contemporanei. I lebbrosi (con i guanti, la veste marchiata a «L» e il campanello o l’intonazione del De Profundis per annunciarsi) sono emblemi di uno «stigma» virato in capro espiatorio (Filippo V il Lungo ne porta al rogo migliaia, Edoardo I d’Inghilterra li fa seppellire vivi) che ritroveremo nella colpevolezza sessuale di sifilitici e malati di Aids. Se la Morte Nera mina l’autorevolezza del credo cattolico, favorendo l’affermarsi delle eresie e poi delle Chiese riformate, il vaiolo – a rovescio – scuote la fede dei «nativi» americani nei loro totem e li spinge tra le braccia dei missionari spagnoli. E alcuni tratti della Tbc – sguardo spento e consunzione – strutturano il mito romantico del «genio malato», da John Keats a Frédéric Chopin. Senza dimenticare le implicazioni classiste e razziste di tante epidemie, dato che per esempio i patrizi veneziani fuggono la peste nelle loro dimore di campagna, mentre la tratta dei neri è stata a lungo legittimata dall’«indisponibilità » per il lavoro schiavistico degli indiani via via falcidiati. Scontando qualche topica (il grande storico e pensatore francese Hippolyte Taine presentato come «turista americano»), qualche passaggio datato (sull’Ebola e sui virus attuali) e un ossessivo pregiudizio antimedico (è vero che vaccini e farmaci – salvo il caso del vaiolo – sono stati fallimentari, ma ogni misura igienico- sanitaria lo sarebbe stata altrettanto senza la descrizione dei microrganismi e delle loro modalità di trasmissione), il lavoro di Nikiforuk ci conduce con rigore davanti a due aspetti decisivi. Da un lato insiste sulla necessità di estendere la qualità della vita a livello globale: un morbillo o una diarrea sono oggi innocui per i bambini occidentali, ma possono essere ancora mortali in uno slum messicano. Dall’altro, ci ricorda spietatamente l’irriducibile e velocissimo trasformismo dei microbi, dimostrato da tanti ceppi farmaco- resistenti, specie agli antibiotici. In assoluto, nessuna profilassi è una garanzia: il nostro corpo e il nostro genoma non sono monadi isolate, ma forme del vivente sempre in coabitazione e in competizione con altre. La peste del 1656 a Napoli vista dal pittore Luca Giordano, 1634-1705 (Napoli, Palazzo Reale, particolare)