Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  luglio 22 Martedì calendario

Scarpelli: così nacque la commedia all´italiana. La Repubblica 22 luglio 2008 Il 26 luglio di cinquant´anni fa usciva I soliti ignoti di Mario Monicelli, il film che rivoluzionò la commedia cinematografica non solo italiana

Scarpelli: così nacque la commedia all´italiana. La Repubblica 22 luglio 2008 Il 26 luglio di cinquant´anni fa usciva I soliti ignoti di Mario Monicelli, il film che rivoluzionò la commedia cinematografica non solo italiana. Perché per la prima volta in un film comico un personaggio moriva tragicamente (il Cosimo di Memmo Carotenuto). Perché, a parte Totò, il cast era fatto da attori mai identificati come brillanti o comici. Perché fu giocata sul nobile, altero profilo di Vittorio Gassman una scommessa che solo con il senno di poi può apparirci ovvia. Chi parla è Furio Scarpelli (89 anni a dicembre), sceneggiatore del film con lo stesso regista, con Age e con Suso Cecchi d´Amico. Perché I soliti ignoti ha avuto tanta fortuna? «Per un insieme di ragioni riguardanti la situazione, l´epoca, la società di quel momento. Uno degli aspetti dei Soliti ignoti era la parodia. L´ironia era alla base di tutto quello che si faceva, come dovrebbe sempre essere per una commedia. In questo momento diciamo che è entrata un po´ in crisi, ma all´epoca l´ironia era fortissima e serviva come misura delle cose, anche della politica, serviva a misurare gli errori commessi dal paese nel ventennio precedente, era un´offesa e anche una difesa». Come nacquero i personaggi del film? «I personaggi non potevano avere una sola faccia psicologica. E all´epoca i nostri grandi caratteristi e i nostri grandi attori sapevano fare dei personaggi che contemporaneamente erano balordi ma sinceri, ammirevoli ma condannabili, stupidi e al tempo stesso furbi. Ecco, questo era uno degli elementi sui quali ci poggiavamo per fare quello che si chiamava film comico, non ancora commedia all´italiana. L´obiettivo apparente era fare parodie e imitazioni, ma ci abbiamo messo qualche cosa di più, cioè l´osservazione di persone che appartenevano alla vita, al selciato romano, a ciò che conoscevamo o avevamo conosciuto nella nostra giovinezza postfascista. Non è che ci sforzavamo tanto per metterlo giù, veniva un po´ da sé. L´amore per il cinema americano, per il jazz, per la cultura che ci veniva proibita nel ventennio, fece nascere in noi l´ironia. Questo spirito poi è restato, tra guerra, dopoguerra e ricostruzione, e la voglia di ironizzare come giudizio, come aggressione o come difesa, è rimasta nel raccontare cose che pur non essendo di natura politica erano ugualmente politiche». L´intento parodistico, in particolare, era rivolto ad alcuni successi francesi, film come Rififi o Grisbi. «Non solo. C´erano gli americani del colpo perfetto, del colpo grosso. E c´era lo stile francese, quell´inconfondibile timbro noir anche nell´immagine. Tanto è vero che Monicelli disse: io questo film comico lo giro come un film drammatico. Ecco, benché girato a Roma quando a Roma si facevano le commedie allegre con tutti i giovanotti in canottiera, il sole, il mare, i cocomeri e le sedie a sdraio, I soliti ignoti è quasi cupo, non c´è colore, le scene sono tutte all´alba o al tramonto, nelle parti più grigie e depresse della città. L´immagine di quel film è profondamente malinconica». Con un misto di ambienti veri e finti, di periferia e del centro. «E di metafora, cioè la tristezza della vita di queste persone. Al di sotto delle risate c´era una cosa serissima, il desiderio di una vita migliore. Su questa pietra di fondazione è stato costruito tutto il resto. C´era la miseria, la povertà, la solitudine, la fame, il freddo e quindi gli esseri umani che desideravano qualcosa di meglio e da questo nasce il colpo. Questo è uno stimolo creativo da dramma, ma la commedia deve avere base drammatica altrimenti non è una commedia. La commedia è la trasposizione ironica del dramma della vita». Oltre che un´idea di Roma, il film trasmette un´immagine che è ancora pre-boom mentre il boom sta cominciando. «E´ cominciato ma non ha sfiorato ancora quella classe sociale lì, che vive di sogni. Questo ci ha consentito anche di esagerare, perché la realtà è più esagerata di quello che noi immaginiamo. Basta guardare il mondo, anche oggi, è più esagerato di quello che può pensare chi di professione fa lo sceneggiatore o il regista: è la differenza che c´è tra persona e personaggio». Nel film c´è una cosa che diventerà propria di Monicelli, ma sempre con la sua complicità e quella di Age: la formula corale, il gruppo di disgraziati. «Certo, è perché vivevamo collettivamente. L´Italia era, e spero lo sia ancora, plurale. C´era una specie di pluralità di pensiero che univa ex giovanotti che venivano dal Nord ed ex giovanotti che erano a Roma, come Age e me. Che cosa ci univa a Dino Risi, mezzo svizzero e mezzo padano? A Comencini, a Germi, a Soldati? Quell´ironia di cui si parlava. E questa a Roma ha trovato la piazza, il terreno propizio perché fruttificasse». Con il senno di poi si esalta l´invenzione di quel cast. «Intanto va detto che un film potesse andare bene o male era secondario all´epoca, si faceva veramente quello che ci sembrava giusto. E quella volta ci si era innamorati giustamente di un Gassman che, da attore di alta tradizione, si potesse camuffare da romano che parodiava gli eroi dei film americani. Questo era un rischio, ma quello che oggi si chiama rischio all´epoca era stimolo. Si diceva semplicemente: oh, famo ”sta cosa perché non è stata fatta. Lo spirito anche della produzione era: se lo spettatore qualche cosa non la sa, meglio, gliela diciamo noi. Ora avviene il contrario: ma ”sta cosa lo spettatore non la conosce, quindi è inutile che gliela diciamo. Monicelli vide in una trattoria un tale che aveva sempre le palpebre a mezz´asta, era Tiberio Murgia, e l´ha fatto diventare attore. Ora gli attori non sono più in grado di camuffarsi da personaggi diversi da quello che sono. Adesso fanno il giovanotto per sempre, pure a 50 anni». Dal punto di vista della scrittura, può indicare qualche segreto della riuscita del film? «Non contava molto l´aspetto tecnico. Immagini che invece di fare questa conversazione su un´opera già fatta, stiamo conversando su qualcosa da fare. Diremmo: senti, ma tu l´hai visto quel film? Ma hai visto quell´attore? Ma non si potrebbe fare così? Era una ricerca che ci appagava indipendentemente dal guadagno, perché tra l´altro guadagnavamo poco, sia Age che io, soprattutto io che continuavo a fare il giornalista, perché non riuscivo a mantenere la famiglia soltanto con i film». Ancora all´epoca dei Soliti ignoti? «Diciamo che stava finendo, ma fino a poco prima io ero redattore di Vie Nuove, dell´Avanti, e anche del Marc´Aurelio, altrimenti non ci si faceva. E non c´era nessun dettame del tipo: siccome è andato bene quel film, facciamone un altro così. No, tanto è vero che Monicelli poi di fare il seguito dei Soliti ignoti si è rifiutato». Lo fece Nanni Loy, e venne bene. «Ma non aveva più la genialità della scoperta, oramai avevamo capito che anche i ladruncoli sono degni di umano rispetto». Perché si dice che comincia da qui la vera commedia italiana? «Perché ci sono tutti gli elementi di cui ho detto, che però non venivano messi in modo meccanico. Non era più la commedia soltanto per far ridere, ma una commedia che anche tramite il sorriso raccontava la vita sociale. Nei Soliti ignoti c´è il carcere femminile, c´è la fame, c´è un uomo tipo Capannelle, un ex giovanotto che aspirava a diventare fantino e non lo è mai diventato, però si veste in quel modo, sportivo dice lui. E´ commedia all´italiana perché potevano essere utilizzate le vicende raccontate anche per fare non una commedia ma un dramma esistenziale». PAOLO D´AGOSTINI