La Repubblica 22 luglio 2008, LUIGI SPAVENTA, 22 luglio 2008
La crisi finanziaria e la lezione del ´29. La Repubblica 22 luglio 2008 Questa crisi finanziaria è forse la più grave dal dopoguerra: per la sua diffusione, per la sua persistenza, soprattutto per gli effetti che ha già dispiegato e potrebbe ancora dispiegare sull´economia reale
La crisi finanziaria e la lezione del ´29. La Repubblica 22 luglio 2008 Questa crisi finanziaria è forse la più grave dal dopoguerra: per la sua diffusione, per la sua persistenza, soprattutto per gli effetti che ha già dispiegato e potrebbe ancora dispiegare sull´economia reale. Di qui a evocare una ripetizione del 1929 tuttavia ce ne passa: troppo diverse, per fortuna, sono le condizioni ambientali. Si dice 1929; ma il crollo di borsa avvenuto in quell´anno segnò solo l´inizio di una profonda e lunghissima recessione. Ci volle quasi un decennio per tornare al punto di partenza: dopo una caduta di oltre il 25% fra il 1929 e il 1932, il prodotto interno americano recuperò il livello iniziale solo nel 1935, con un´altra recessione nel 1937. prima della guerra la disoccupazione toccò il 25% negli Usa e raddoppiò in Inghilterra. Il male americano si diffuse a tutto il mondo libero, che visse anni bui. Si dibatte ancora sulle cause di quella crisi, ma l´importanza di alcuni dati è generalmente riconosciuta. Gli Stati Uniti erano una potenza economica dominante, che non riusciva tuttavia a esprimere una leadership: se si fermava il suo motore, si fermava il mondo. Il pensiero economico prevalente, di cui erano prigionieri i responsabili della politica economica, forniva risposte esattamente sbagliate: la politica monetaria americana dell´epoca fu una somma di errori grossolani e tale fu, sino al "new deal", quella fiscale. In alcuni paesi la libertà di movimento era impacciata dai tentativi di ritorno a un cambio fisso con l´oro. L´impostazione isolazionistica americana produsse le tariffe della legge Smoot-Hawley: un´iniziativa protezionistica a danno delle altre economie e dei consumatori americani: prontamente reciprocata da altri paesi, provocò una drastica riduzione dei commerci e, con essi, della crescita mondiale. Per grazia di Dio, oggi le cose stanno diversamente: la lezione del ”29 e la persistenza carsica delle lezioni keynesiane (depurate dalle sue scorie) ha cambiato in via definitiva il mindset dei responsabili della politica economica; la storia economica dell´ultimo decennio ha alterato - per il meglio, come ora ci si deve accorgere - la geografia della crescita. I cambiamenti introdotti dopo la seconda guerra mondiale hanno dotato le economie avanzate di un sistema di ammortizzatori che non esisteva nel decennio orribile: indennità di disoccupazione e altri meccanismi di sostegno dei redditi. Uno degli obiettivi assegnati dalla legge alla banca centrale americana è la crescita; un altro, implicito, è quello della stabilità finanziaria, che induce ad evitare il fallimento di grandi banche anche con mezzi eterodossi. La stessa Bce, più rigida sui tassi d´interesse, non ha esitato a provvedere al mercato tutta la liquidità necessaria accogliendo in garanzia anche titoli di dubbio valore. Il governo e il Congresso degli Stati Uniti sono anche troppo proni ad aprire il rubinetto delle elargizioni fiscali. Questa crisi l´occidente industrializzato se l´è fatta tutta in casa: con la degenerazione di un suo modello finanziario, favorita da politiche monetarie permissive negli anni della grande bonanza e consentita da regolatori colpevolmente o dolosamente sonnacchiosi. Ne è rimasto relativamente immune il sistema finanziario dei Paesi emergenti. Questi Paesi, e non gli Stati Uniti, sono oggi il motore della crescita mondiale, a cui danno un contributo pari a un multiplo di quello dei paesi avanzati: non si tratta solo di esportazione, se oggi i consumi interni di Cina e India contano più di quelli degli Stati Uniti. In più, essi ormai impiegano le loro enormi riserve valutarie non solo in titoli del Tesoro americano, ma anche, con prospettiva di medio termine, in industrie e banche dell´occidente bisognose di capitale. Se continua, e soprattutto se non si alzano barriere di protezione, l´impetuoso sviluppo delle economie emergenti contribuisce a contenere i danni della crisi che i Paesi vecchi hanno voluto regalarsi: paradossalmente, un beneficio per essi della globalizzazione. A contenere i danni, ma non a lasciare le cose come stanno. La dislocazione ad est del motore della crescita, l´impiego all´ovest dei capitali dell´est, la contrazione del sistema finanziario occidentale, costretto a mettere a dieta i propri bilanci, la perdita di credibilità delle autorità preposte alla sua vigilanza (quelle che davano lezione all´Asia nel 1997) non possono alla lunga restare senza conseguenze più profonde. Questa crisi, al di là degli esiti immediati, segna comunque un´accelerazione nella ridefinizione degli assetti di potere e di influenza dell´economia mondiale. LUIGI SPAVENTA