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 2008  luglio 22 Martedì calendario

DOSSIER ILLECITI TELECOM-TAVAROLI

(da Repubblica)
la Repubblica, sabato 19 luglio
MILANO - Telecom Italia e Pirelli indagate per le attività illecite di Giuliano Tavaroli, l´ex brigadiere dei carabinieri, diventato numero uno della Security di entrambi i gruppi. E capace di arruolare alle sue dipendenze una vera e propria rete di spioni. I vertici di Pirelli, ai tempi holding di controllo della Telecom, dovevano impedire ai propri dipendenti di commettere atti illeciti, come raccogliere abusivamente informazioni sui lavoratori da assumere, imprenditori, politici e giornalisti. Telecom e Pirelli dovevano organizzare le aziende in modo che nessuno potesse corrompere funzionari pubblici, o altri, per creare quella massa di dossier illegali, noti col nome di Archivio Zeta e custoditi nelle stanze segrete di un investigatore privato di Firenze, Emanuele Cipriani. Una «trama allarmante - l´ha definita il Tribunale del Riesame di Milano in un suo atto - di acquisizione di informazioni riservate da utilizzare contro importanti personaggi dell´imprenditoria, del giornalismo e della politica italiana, prima di incontri che l´alta dirigenza del gruppo aveva in programma con questi personaggi».
Il coinvolgimento dei due gruppi è dovuto alla legge 231, la norma che regola la responsabilità amministrativa delle società. Il decreto legislativo ha introdotto nel 2001 l´obbligo per le aziende di rispondere, in quanto persone giuridiche, per i reati commessi all´interno della propria struttura. Le società dovrebbero cautelarsi adottando e facendo rispettare modelli di organizzazione e gestione interna. Nel caso in cui questi modelli non funzionino, ecco i guai giudiziari, che si possono concretizzare in sanzioni pari in genere ai profitti illeciti realizzati. In questo caso le sanzioni non dovrebbero superare il milione di euro.
La responsabilità dei due gruppi è ipotizzata dai sostituti procuratori Fabio Napoleone, Stefano Civardi e Nicola Piacente nell´atto di chiusura indagini sulla vicenda dei dossier illegali che la prossima settimana, salvo imprevisti tecnici che imporrebbero un rinvio a settembre, verrà notificato alle parti. Per Pirelli, il documento verrà consegnato al legale rappresentante Marco Tronchetti Provera, mentre per Telecom Italia toccherà a Gabriele Galateri di Genola, in quanto presidente in carica.
La Security di Telecom-Pirelli, sotto la guida di Tavaroli, ha avuto a disposizioni risorse, mezzi e tecnologie tali da consentire l´acquisizione di notizie privilegiate nell´interesse del gruppo. Spetterà poi alle società dimostrare che sono stati Tavaroli e la sua banda a eludere i modelli di controllo interno e non le stesse società a comandare gli illeciti. Del resto Telecom e Pirelli sono considerate persone offese dal reato di appropriazione indebita. E nessuno dei vertici (compresi Buora e Tronchetti Provera), al di fuori di quelli finiti nelle ordinanze dei giudici, risulta al momento indagato.
L´attività di Tavaroli avveniva attraverso una sorta di outsourcing: spionaggi commissionati in gran parte a investigatori privati che pur di informare le società nel modo più dettagliato possibile non esitavano a infrangere la legge. Corruzione per un atto d´ufficio, corruzione per un atto contrario ai doveri d´ufficio e corruzione per persona incaricata di pubblico servizio sono i reati ipotizzati e per i quali ora rischiano di pagare le due società milanesi. La chiusura di indagini della prossima settimana sarà solo una prima tappa, in quanto alcuni reati verranno stralciati. Anche il deposito riguarderà solo una parte degli atti: per tutti i dossier illeciti, i pm hanno chiesto la distruzione in attesa della decisione della Corte Costituzionale sulla loro utilizzabilità.
WALTER GALBIATI
EMILIO RANDACIO

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MILANO - Un´organizzazione composta da spie di prim´ordine. Un´attività d´intelligence per scoprire i segreti dell´alta finanza, ma anche un sistema illecito di controllo capillare del territorio. Telefoni, computer, e-mail, per finire al più piccolo dettaglio privato custodito in una qualsiasi banca dati istituzionale. Se si volesse sintetizzare l´affaire Telecom, forse, prima ancora che la giustizia scriva la sua verità, si potrebbero usare queste parole.
Il 4 maggio del 2005, quando la polizia giudiziaria dei pm di Milano piomba negli uffici della Telecom di via Torino a caccia di prove, ha in testa la convinzione che il colosso della telefonia italiana abbia creato negli anni un «grande orecchio» capace di controllare illegalmente chiunque. Nel decreto di sequestro ci sono i nomi di due indagati che risultano a capo di questa organizzazione: Giuliano Tavaroli, responsabile della Security del gruppo guidato da Marco Tronchetti Provera, e quello di un allora sconosciuto investigatore privato fiorentino, Emanuele Cipriani. Per loro, l´accusa è di «associazione a delinquere finalizzata alla violazione del segreto istruttorio».
Il pezzo da novanta cascato nella rete è senza dubbio Tavaroli. Classe 1959, da Albenga, negli anni 80 è brigadiere di una squadra antiterrorismo d´eccellenza che va a caccia di brigatisti rossi. Il suo capo è il colonnello dell´Arma Umberto Bonaventura, poi promosso ai Servizi segreti militari. Parigrado di Tavaroli, l´inseparabile Marco Mancini, il cui destino giudiziario negli ultimi tre anni è costellato di disavventure. Nel ”96 Tavaroli compie il grande salto. Abbandona la divisa e indossa il gessato da manager. Prima in Pirelli, poi, dal 2001, quando Marco Tronchetti Provera ne acquisisce il controllo, anche in Telecom, di cui diventa il responsabile della sicurezza. Il suo declino inizia solo dopo quel 4 maggio. Troppo ingombrante il peso dell´inchiesta sull´immagine dell´azienda telefonica.
Lui, dicono oggi i magistrati, è stato l´artefice del grande orecchio. Attraverso fidatissimi collaboratori, avrebbe arruolato nel suo staff altri carabinieri, ma anche l´ex capo centro della Cia in Italia, John Spinelli, l´uomo di coordinamento con le autorità francesi a Roma, Fulvio Guatteri, l´ex agente del Sisde, Marco Bernardini, per svolgere attività illegali. Quali? Tavaroli, che ha a disposizione budget sconfinati, ufficialmente li utilizza per garantire che gli appalti di Telecom e Pirelli vadano a buon fine, non trovino ostacoli imprevisti. In realtà, le caratteristiche professionali di Cipriani, Spinelli, Bernardini e dell´esercito di uomini che erano stati arruolati dalle aziende milanesi, li avrebbero spinti a ottenere informazioni riservate non proprio e non solo limitate a operazioni trasparenti, corrompendo spesso anche pubblici ufficiali. E nel mirino dell´organizzazione di Tavaroli è finito anche chi, in Telecom o in Pirelli, aspirava solo a ottenere un semplice posto da impiegato, per raggiungere personaggi di primo piano della finanza. Con lo stesso meccanismo sono stati confezionati i dossier sul raider Emilio Gnutti, su Carlo De Benedetti, e, grazie a una serie di incursioni informatiche, sul vicedirettore del "Corriere della Sera" Massimo Mucchetti (secondo Tavaroli responsabile della compilazione di articoli "scomodi" sull´attività imprenditoriale di Tronchetti) e sull´ex amministratore delegato del gruppo Rcs, Vittorio Colao.
Il 21 settembre del 2006, dopo un anno di indagini sotto traccia, l´inchiesta compie il salto di qualità. Tavaroli, Cipriani e altre 18 persone, in gran parte agenti delle forze dell´ordine o investigatori privati, finiscono in carcere. Le accuse parlano anche di corruzione e rivelazione di segreti d´ufficio. Da quel momento saranno altri cinque i blitz che si susseguiranno fino alla primavera del 2007. In carcere, a dicembre, finiscono con l´accusa di rivelazioni di atti coperti da segreto di Stato anche il numero tre del Sismi, Marco Mancini, e due agenti del Sisde. Tutti accusati di aver girato all´organizzazione di Tavaroli dossier riservatissimi confezionati dalla intelligence civile. Tavaroli, nei dieci mesi di detenzione, si è sempre difeso escludendo la responsabilità dei massimi vertici delle aziende per cui lavorava.
(w.g.- e.ran.)

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la Repubblica, domenica 20 luglio
MILANO - L´interesse dello spionaggio di Giuliano Tavaroli, ex numero uno della Security Telecom, non aveva limiti. Spaziava dal campo politico a quello del gossip, dalla finanza allo spettacolo, dalla vita dei dipendenti al giornalismo. La voglia di "conoscere" personale o al servizio dell´azienda, comunque lautamente remunerata, lo ha portato a raccogliere migliaia e migliaia di dossier illeciti. Alcuni con titoli illustri come quelli che riguardano i ministri Umberto Bossi e Giulio Tremonti, o i politici Massimo D´Alema (Ds), Lorenzo Cesa (Udc), Aldo Brancher (FI). Altri con titoli di nicchia come quelli sui finanzieri Diego Della Valle ed Emilio Gnutti. Altri ancora di interesse quasi voyeuristico, come quelli su Afef Jnifen, la compagna di Marco Tronchetti Provera. Tutti insieme gli obiettivi dell´attività illecita, e quindi i possibili danneggiati, famosi e no, potrebbero essere più di cinquemila. Una stima per difetto che serpeggiava ieri nei corridoi di palazzo di Giustizia e che se si dovesse materializzare richiederebbe l´affitto di uno stadio e la necessità di procedere per pubblici proclami sulle pagine dei giornali per la convocazione delle parti.
Sì perché i pm Fabio Napoleone, Stefano Civardi e Nicola Piacente, gli autori dell´inchiesta sulle deviazioni della Sicurezza del gruppo Pirelli-Telecom, ne hanno chiesto, come prevede la legge, la distruzione. Servirà quindi un´apposita udienza davanti al giudice Giuseppe Gennari per decidere il da farsi. In verità un´udienza pilota vi era già stata e lo stesso giudice aveva già chiesto alla Corte Costituzionale di esprimersi sulla opportunità di distruggere dossier che per le persone spiate non sarebbero altro che la prova principale del danno subito. La Consulta avrebbe dovuto esprimersi lo scorso 11 giugno. Ma il 30 maggio aveva comunicato di rinviare la propria decisione, quasi per un atto di cortesia nei confronti del neo-governo in carica. Il senso del rinvio è stato spiegato in un comunicato stampa: «La Corte ritiene di dover attendere le eventuali iniziative legislative e le conseguenti decisioni del nuovo Governo e del nuovo Parlamento, riservandosi di fissare, trascorso un tempo ragionevole, una nuova camera di consiglio».
Nel frattempo, i sostituti procuratori hanno deciso di chiudere le indagini depositando solo quegli atti per cui non doveva essere chiesta la distruzione. Dopo l´avviso ricevuto dalle società Pirelli e Telecom, indagate ai sensi della Legge 231, sulla responsabilità amministrativa, la settimana prossima toccherà a oltre 30 indagati ricevere il documento di chiusura indagini. Le due società hanno intenzione di costituirsi parte civile contro gli ex uomini della sicurezza.
WALTER GALBIATI

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la Repubblica, lunedì 21 luglio
A leggere i giornali, e qualche anticipazione del documento che annuncerà oggi la chiusura delle indagini del pubblico ministero di Milano, l´affaire Telecom sembra essersi sgonfiato come un budino malfatto. Più o meno, si sostiene che fossero all´opera, in Telecom, soltanto un mascalzone (Giuliano Tavaroli) e un paio di suoi amici d´infanzia (Emanuele Cipriani, un investigatore privato, e Marco Mancini, il capo del controspionaggio del Sismi). La combriccola voleva lucrare un po´ di denaro per far bella vita e una serena vecchiaia. I "mascalzoni" avrebbero abusato dell´ingenuità di Marco Tronchetti Provera (presidente) e di Carlo Buora (amministratore delegato). Tutto qui.
L´affaire Telecom è stato dunque, secondo quest´interpretazione, soltanto un bluff mediatico-giudiziario utilizzato (o, per alcuni avventurosi osservatori, organizzato) da circoli politici per sottrarre al "povero" Tronchetti la società di telecomunicazioni.
La ricostruzione è minimalista. Evita di prendere in esame, anche soltanto con approssimazione, la sequenza dei fatti accertati (a cominciare dalla raccolta di migliaia di dossier illegali); la loro pericolosità; i protagonisti (alcuni mai nemmeno nominati); un multiforme network di potere che condiziona ancora oggi un´imprenditoria debole senza capitali e una politica fragile senza legittimità: imprenditoria e politica sorrette, protette o minacciate – secondo convenienza – da alcune burocrazie della sicurezza. E´ nelle pieghe di questi deficit e contraddizioni italiani che è fiorito l´affaire, uno scandalo che nessuno – a quanto pare – ha voglia di affrontare. Vedremo se lo farà la prudente magistratura di Milano.
Per definire almeno la cornice del "caso" e gli attori e un metodo e qualche fondo fangoso, Repubblica – nel corso del 2008 – ha avuto sei colloqui (a Bereguardo, Milano e Albenga) con un Giuliano Tavaroli convinto già da tempo (e quel che accade sembra dargli ragione) che «nessuno avrà interesse a celebrare il "processo Telecom". Nessuno: né i pubblici ministeri, né gli imputati, né la Telecom vecchia, né la Telecom nuova. Ma io non sono e non farò né accetterò mai di essere il capro espiatorio di questo affare. Io vorrò con tutte le mie forze il processo e nel processo vorrò vederli in faccia ripetere quel che hanno riferito ai magistrati. Il mio vantaggio è che tutti – tutti – hanno mentito in questa storia, e io sono in grado di dimostrare che le informazioni che ho raccolto sono state distribuite in azienda perché commissionate dall´azienda e nel suo interesse… Ne ho sentite di tutti i colori. Come Marco Tronchetti Provera che nega di aver mai avuto conti all´estero, come se non sapessi che per lo meno fino al 2006 i suoi conti erano a Montecarlo».
Tavaroli lamenta di essere stato «messo in mezzo» per aprire la strada all´inchiesta Abu Omar. E´ il "signore della sicurezza" Telecom. I pubblici ministeri devono intercettare gli uomini del Sismi che hanno cooperato con la Cia per sequestrare illegalmente il cittadino egiziano, sospettato di essere un terrorista. Con i buoni rapporti di Tavaroli con il Sismi, l´operazione sarebbe stata a rischio. «Così – dice Tavaroli – hanno cominciato a indagare su di me in modo strumentale. Sì, strumentale. Potrei farvelo leggere nelle carte. Nelle carte c´è scritto. Dispongono la perquisizione nel mio ufficio con un unico obiettivo: rimuovermi dal mio posto nella convinzione che, se non lo avessero fatto, non avrebbero avuto campo libero per le intercettazioni dell´inchiesta Abu Omar e quindi per l´ascolto decisivo dei funzionari del Sismi. Pensavano: questo Tavaroli se ne accorge e avverte il suo amico Mancini (era il capo del controspionaggio dell´intelligence) e noi non caviamo un ragno dal buco. Così sono finito nel tritacarne…».
Sarà, quel che è saltato poi fuori giustificava l´iniziativa penale, ma qui conta altro. E´ vero o è falso che, nel tempo, si è creata una sovrapposizione operativa, una contiguità d´interessi tra l´intelligence di Stato, le security delle grandi aziende al servizio di obiettivi ora istituzionali ora politici ora economici, ora l´uno e l´altro? Un "sistema" che per alcuni anni ha avuto il suo centro nella Telecom di Marco Tronchetti Provera?
Tavaroli dice che, se si vuole davvero capire che cosa è accaduto in Telecom, bisogna andare indietro nel tempo.
Una data d´inizio.
«Questo metodo ha, se si vuole, una data d´inizio con la nascita del nucleo speciale di polizia giudiziaria a Torino, un gruppo che non aveva alcuna corrispondenza nell´Arma dei carabinieri. Esisteva soltanto lì a Torino, dove il generale Dalla Chiesa era comandante (Tavaroli lo chiama sempre il Generale, e sembra di vedere la maiuscola). E´ nel "nucleo" che nascono l´operazione di Frate Mitra che conduce all´arresto di Renato Curcio o all´arresto di Patrizio Peci. In quest´occasione furono "infiltrati" in Fiat – con l´assenso e la collaborazione della "sicurezza" dell´azienda – cinque operai "collaborazionisti": uno di essi fu poi reclutato dalle Brigate Rosse; fu l´uomo che indicò al Generale il "covo" di Peci.
Dopo questi successi il metodo trovò una "natura giuridica", una sistematizzazione legislativa. Non è che le nuove leggi lo prevedessero esplicitamente, ma rendevano possibile – meglio, tolleravano – quei sistemi se, in qualche modo, "controllati" dall´autorità giudiziaria. Diciamo che le linee di collaborazione con la magistratura si accorciarono e capitava che il pubblico ministero lavorasse gomito a gomito con il sottufficiale operativo senza la mediazione delle gerarchie. Nacquero le sezione speciali anticrimine. Con l´assassinio di Guido Rossa, comincia la collaborazione anche del Pci e dei sindacati. Ugo Pecchioli offre tutte le informazioni che i militanti e i sindacalisti raccolgono nelle fabbriche. Indicano tutti i nomi di coloro che, in fabbrica, sono o paiono essere vicini al terrorismo. Ci sono ancora in giro ex-sindacalisti che possono essere buoni testimoni di questo lavoro».
(Dunque, vediamo integrati in una sola "piattaforma", l´Arma dei carabinieri con un suo nucleo speciale, le procure alle prese con un "diritto speciale di polizia", le attività informative della più grande impresa privata del Paese, la Fiat, e del maggior partito di opposizione, il Pci, presente in modo massiccio nel sindacato e nelle fabbriche. Lo schema è destinato a riprodursi e, con la sconfitta del terrorismo, a deformarsi, a "privatizzarsi").
«Diciamo che nella lotta al terrorismo nacque un "sistema" e fu selezionata un´élite di professionisti, che è o è stata al vertice della security delle maggiori imprese italiane. Con i pool di magistrati, operavamo a stretto contatto, avevamo molte responsabilità anche di decisione. Accadde quello che nelle aziende si sarebbe chiamato "accorciamento della catena decisionale". Gli ufficiali in parte partecipavano e comprendevano l´importanza dell´esperienza, in parte avvertivano di avere meno potere: contavano le competenze e non il grado sulla spalla. Si forma così una generazione di uomini che emerge per il merito, la competenza. Siamo in un periodo di "leadership situazionali", ovvero di persone che prendono la leadership a seconda delle situazioni e delle circostanze, con grande flessibilità. E´ in questo periodo che si afferma "la dittatura della conoscenza". Conta chi ha competenza e conoscenza e capacità di analisi. Ecco perché io e Marco Mancini ci affermammo nonostante fossimo soltanto dei sottufficiali: noi avevamo competenza e conoscenza. I generali avevano i gradi, ma né l´una né l´altra.
Nel dicembre del 1988, quasi con un colpo di testa – decisi d´istinto, dalla mattina alla sera, appena mi arrivò la proposta – lasciai l´Arma per l´Italtel. Ormai noi dell´Antiterrorismo ci giravamo i pollici. Molti si decisero a riciclare i loro metodi nella lotta alla criminalità organizzata. Non era per me. Io penso che la mafia ti rovini la testa, ti avveleni. Quando mi chiudo alle spalle la porta di casa, voglio poter lasciare fuori anche il pensiero del lavoro. Ma quando hai a che fare con gente che scioglie un bambino nell´acido, come fai a dimenticartelo? Te lo porti a casa, il lavoro. Andai via».
«Lo scambio delle figurine»
«Per il mondo della sicurezza privata, quelli, sono anni decisivi. Nel 1989 cade il Muro, implode l´Unione Sovietica. Le ragioni costitutive di una cultura della sicurezza, della sua organizzazione, metodo, visione del mondo vengono meno. Io ho 30 anni e sono consapevole che devo trasformarmi in un uomo di business. Comprendo subito che la sicurezza deve diventare una funzione dell´azienda, non restare – come era allora – un corpo separato dell´impresa. Tra il 1991/1992 nascono business intelligence, market intelligence, competitive intelligence… Un vecchio mondo si frantuma, prestigiosi "salotti" diventano polverosi e inutili. Mondi che prima erano separati da ostacoli, più o meno, invalicabili – o valicabili a prezzo di grandi rischi – entrano in costante comunicazione. A quel punto i servizi segreti che, con il mondo diviso in blocchi, erano monopolisti dell´informazione perdono, nello spazio di un mattino, la loro supremazia. E´ uno scettro che passa nelle mani dell´impresa privata.
Italtel, per dire, aveva dopo il 1989 150/200 uomini in Urss e agiva con i governi delle singole repubbliche dell´ex-blocco sovietico mentre il Sismi faticava per infiltrare anche soltanto un uomo oltre le linee. Chi contava di più? Chi poteva avere più informazioni?
Queste condizioni creano un nuovo mercato. Comincia lo scambio delle figurine tra security private e servizi segreti. La parola d´ordine convenuta è «diamoci una mano». E´ una collaborazione che cresce, si allarga e sviluppa senza uno straccio di protocollo, senza rendere trasparente e condiviso che cosa è lecito, che cosa non lo è. In ogni altro paese – Stati Uniti, Inghilterra, Francia – ci sono protocolli che regolano i rapporti tra imprese, sicurezza privata e servizi. Da noi, c´è un vuoto che ciascuno occupa come crede.
Nel 1996, aprile, vado in Pirelli. A quel punto le aziende che agiscono sul mercato globale hanno già una sovranità superiore a quella degli Stati. I governi hanno abdicato. L´11 settembre, se riproduce nel mondo una nuova logica bipolare Occidente contro Islam, esalta le potenzialità e il protagonismo delle imprese multinazionali o plurinazionali. Con in più lo straordinario e inedito potere della tecnologia. Cambia di nuovo tutto. Cambiano la cultura e i players dell´informazione. Tutti affidano tutto all´indagine elettronica: tracce elettroniche, carte di credito ecc. ecco che le telecomunicazioni diventano appetite, sempre più strategiche. Le indagini si fanno con le intercettazioni. Di nuovo: difficile dividere lecito e meno lecito. In Francia, la polizia fa le intercettazioni legali; la Direction de la Surveillance du Territoire (Dst) fa quelle illegali. Tutto normale, in Italia no».
«Tronchetti voleva il Corriere»
«Poi Pirelli acquista la Telecom. E´ per tutti noi una sorpresa. Forse non tutti sanno che Tronchetti Provera non aveva alcuna intenzione di entrare in Telecom, in realtà. In quel 2001, stava scalando Rcs. Ha sempre avuto una passione non nascosta per il Corriere della Sera che riteneva, e forse ritiene, un´istituzione essenziale per la democrazia italiana. In quei mesi stava acquisendo posizione e posso credere che si preparasse a lanciare un´offerta pubblica di acquisto. Fu Buora a proporre il dossier Telecom. Tronchetti gli diede fiducia.
Le cose, per noi, non stanno per niente messe bene nel 2001, quando Berlusconi e i suoi si insediano a palazzo Chigi. Era al potere una famiglia impenetrabile, gente che è insieme, gomito a gomito, dai banchi di scuola, gente che pensa soltanto agli affari e all´assalto alla diligenza e tutti – dico, tutto l´establishment – sono "fuori asse". A chi rivolgersi? Come scegliere gli interlocutori "giusti"? E ci sono davvero, in quella compagnia, gli "interlocutori giusti"? Per dirne una. Telecom aveva un contenzioso per un centinaio di miliardi di lire con il ministero della Giustizia. Come venirne a capo? Chi era Roberto Castelli? E quel Brancher lì (era l´"ambasciatore" di Forza Italia presso la Lega di Bossi), che "pesce" era? La verità è che noi in quell´avvio avevamo soltanto pochissimi interlocutori. Ad esempio, Pisanu (ministro per l´attuazione del programma). Vecchia scuola. Formazione politica solida. Interlocutore affidabile. Con lui, Tronchetti filò subito d´amore e d´accordo. Con gli altri soltanto guai. E i guai toccava a me affrontarli. In quel periodo accade qualcosa che mi fa capire.
Accade che dovevamo rivedere gli organici e le responsabilità negli uffici di Roma. Una persona, di cui non voglio dire per il momento il nome, mi sollecita a "salvare", negli uffici della capitale, la signora Laura Porcu. La cosa mi convince e la Porcu viene "salvata". Dopo qualche tempo, la Porcu mi chiede se voglio essere messo in contatto con personalità influenti del mondo romano. Accetto».
«Il network eversivo»
«La Porcu organizza un giro delle sette chiese, un´agenda di incontri con Nicolò Pollari, Francesco Cossiga, Paolo Scaroni (Eni), Enzo De Chiara (uno strano personaggio, finanziere italo-americano, vicino alle amministrazioni Usa, già finito in qualche inchiesta giudiziaria), Pippo Corigliano (Opus Dei) che a sua volta mi presenta Luigi Bisignani che già aveva chiesto di incontrarmi (se fosse stato siciliano, dopo averlo conosciuto, avrei pensato che fosse un mafioso) e la Margherita Fancello (moglie di Stefano Brusadelli, vicedirettore di Panorama), che a sua volta mi riportò da Cossiga, Massimo Sarmi (Poste), Giancarlo Elia Valori, il generale Roberto Speciale della Guardia di Finanza.
Insomma, dai colloqui, capisco che questi qui sono in squadra. Mi immagino una piramide. Al vertice superiore Berlusconi. Dentro la piramide, l´uno stretto all´altro, a diversi livelli d´influenza, Gianni Letta, Luigi Bisignani, Scaroni, Cossiga, Pollari. E´ il network che, per quel che so, accredita Berlusconi presso l´amministrazione americana. Io non esito a definire questa lobby un network eversivo che agisce senza alcuna trasparenza e controllo.
Mi resi conto subito che quella lobby di dinosauri custodiva segreti (gli illeciti del passato e del presente) e li creava. Che quei segreti potevano distruggere la reputazione di chiunque e la vera sicurezza è la reputazione. C´era insomma, tra la Telecom di Tronchetti e quell´area di potere, un disequilibrio informativo che andava affrontato subito e nel miglior modo da noi, riequilibrandolo o addirittura annullandolo con la creazione, a nostra volta, di altri segreti. C´era bisogno di coraggio. Che è proprio la virtù che manca a Marco Tronchetti Provera. Ha il culto di se stesso. Non decide mai. Non se la sentiva di attaccare frontalmente, magari pubblicamente, quel network né voleva "sporcarsi le mani", cioè entrare nel club pagandone il prezzo in opacità, ma incassandone i vantaggi lobbistici. Non prende posizione. Non si "compromette" né in un senso né nell´altro. Per questo quella "compagnia" lo scarica. Come, lo spiegherò presto. Il fatto è che quando Tronchetti si insedia in Telecom è debole. Debole non per l´indebitamento, come tutti pensano. Ma per il suo isolamento nel mondo politico, economico. Tronchetti non piace alla politica. Ne è distante e questo non è gradito. Non capisce la politica di Roma e questo è un problema. Non piace agli industriali. La Confindustria è guidata da Antonio D´Amato, espressione della media industria, e questo è un altro problema. E´ su questa zona di confine che mi dicono di "ballare". E io ballo. Me ne ha dato atto, quando mi ha liquidato, anche Tronchetti. Mi ha detto papale papale: "Forse le abbiamo chiesto troppo". E´ vero, mi chiesero molto. Forse troppo». (continua)
Giuseppe D’Avanzo

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la Repubblica, martedì 22 luglio
Giuliano Tavaroli dice: «Quando Pirelli acquisisce Telecom Italia, agosto 2001, Marco Tronchetti Provera mi annuncia: "Lei verrà con me a Roma". Poi mi chiama Carlo Buora. Lo incontro a Milano in trasferimento dalla montagna al mare – ero in vacanza con i miei – e quello mi dice che non se ne fa più nulla. Mi spiega: "Contrordine, lei resterà in Pirelli, Enrico Bondi (all´epoca, amministratore delegato) vuole con sé in Telecom un altro. Naturalmente ne parlo con Tronchetti Provera che mi rassicura: "Lei si occuperà delle mie cose romane". Le sue "cose romane" erano i suoi guai romani. E c´erano guai dappertutto, in quel momento».
«Gasparri (il ministro delle Telecomunicazioni) non gli piaceva e Tronchetti non piaceva a Gasparri. In estate, al festival dell´Unità di Rimini, Massimo D´Alema lo attacca a testa bassa…
Ho già detto che una concezione moderna della sicurezza (che è reputazione, soprattutto) deve fronteggiare anche – o soprattutto – quella roba lì, gli attacchi politici, le ostilità di parte, i pregiudizi, i veleni. Deve saper leggere e anticipare le iniziative avverse, condizionare le mosse dei rivali o ridurli al silenzio. E´ un lavoro che si nutre di conoscenza. Conoscenza dell´avversario, delle sue ragioni più autentiche e nascoste, ma è anche "sapere" e dunque capacità di adattarsi a quella "emergenza" o sventandola o ridimensionandola. In gergo, le chiamiamo "analisi del rischio" e "analisi di scenario". In quell´avvio di gestione della Telecom, ne avevamo bisogno come dell´aria. Il momento intorno a noi era sconfortante. Non c´era stato soltanto l´11 settembre, c´erano ancora le macerie dello sgonfiamento della bolla speculativa, la catastrofe dei bond argentini».


(Tavaroli qui svela – e nemmeno troppo velatamente – il lavoro di spionaggio a cui, sostiene, «nessuna azienda rinuncia». Lo riduce a raccolta di informazioni, a "mappatura" – diciamo così – dei caratteri, delle opinioni, delle forze e delle debolezze dei potenti, vecchi e nuovi, che, di volta in volta, Tronchetti deve fronteggiare, rassicurare, tenere alla larga. La "conoscenza", come la definisce, è soltanto il punto di partenza del suo lavoro. Per questi giocatori, per questo gioco, è la mossa d´apertura, il livello minimo richiesto per poter entrare in campo. La differenza vera la fa il "sapere", la combinazione di competenze multiple che rende possibili scambi, pratiche, compatibili assunzioni di rischi, la creazione di qualche minacciosa favola da diffondere. Tavaroli adopera un altro vocabolario, un´altra sintassi. Parla di «analisi delle forze in campo», di «amici/nemici» ma, in soldoni, non è che l´esito sia diverso. Sempre di spionaggio si parla. La scena pare questa. Marco Tronchetti Provera, arrivato in Telecom, è consapevole di essere uno "straniero" nella geografia del potere. Le leve del comando – i primi governi Berlusconi hanno un peso politico debole, frammentato, privi di una strategia di lungo periodo, stretti intorno a un uomo solo interessato esclusivamente al proprio destino personale e imprenditoriale – sono custodite e sostenute da uno schema "antico" che Tavaroli, come ambasciatore di Tronchetti, ha incontrato nel giro delle sette chiese romane. «Un network eversivo», lo definisce. Ne indica qualche nome: Letta, Bisignani, Cossiga, Scaroni, Elia Valori, Pollari, Speciale, Corigliano. E´ un´area di potere che costringe un estraneo come Tronchetti in un disequilibrio informativo che lo condanna a subire, sopportare; a essere condizionato. Essere consapevoli di quell´asimmetricità è il punto di partenza. Sapere è allora il terreno della risposta. Come affrontare l´avversario? Come rendergli conveniente venire a patti o rinunciare a ogni ostilità? Come guadagnare un margine di inviolabilità? E´ un confronto sotterraneo e senza esclusione di colpi. A sentire Tavaroli – che va ripetuto non è un testimone neutro, ma il principale indagato dell´affaire – è questo il mestiere che Marco Tronchetti Provera gli affida).


«Di volta in volta bisogna adattare le proprie iniziative all´avversario. D´Alema, per esempio. Penso di contattare Lucia Annunziata, allora direttore dell´agenzia Apcom. Ha buoni rapporti con D´Alema. Scelgo lei come canale per entrare in contatto con il presidente dei Ds. Con Lucia si parla anche di futuro. Lei mi prospetta l´acquisizione dell´agenzia, me ne mostra i vantaggi e le opportunità. Non era una cattiva idea, in fondo. Non avevamo in pancia contenuti e ne avevamo bisogno. Peraltro, saremmo entrati in contatto con il mondo Associated Press, il meglio. L´affare poi si fece, come si sa. Comunque, l´incontro D´Alema/Tronchetti si organizzò e Lucia divenne consulente della Telecom.
Racconto un altro episodio dello stesso tipo. Un giorno mi chiama Buora. Nel suo ufficio ci sono tutti quelli che contano e sembrano sull´orlo di una crisi di nervi. Buora mi dice che Giulio Tremonti (ministro dell´Economia), soffia ai banchieri, in ogni occasione, che Telecom è prossima al fallimento. La voce diffusa in ambienti qualificati da una fonte così autorevole è per noi una sciagura. Mi metto al lavoro. Tra Tremonti e Tronchetti non ci sono rapporti. Ho come la sensazione che Tremonti, da sempre consulente dei maggiori imprenditori italiani, diventato ministro, stia scaricando sui suoi antichi assistiti una ruggine velenosa. Decido di mettermi in contatto con il capo della sua segreteria, un ufficiale della Guardia di Finanza, Marco Milanese, che poi lascerà le Fiamme Gialle per lavorare direttamente nello studio di Tremonti. Contattare Milanese, proprio lui e non altri, è un modo per dire a Tremonti: conosco i tuoi metodi, conosco il tuo sistema, chi lo agisce e interpreta, da dove possono venirti le informazioni – vere o false – che possono danneggiare la mia azienda. Non c´è bisogno di molte parole. Quelle cose lì, si capiscono al volo nel nostro mondo. I due – Tronchetti e Tremonti – si incontrano. I problemi si risolvono. Nessuno parlerà più di fallimento con i banchieri.
Altro episodio. Il Dottore (Tronchetti) mi chiede di dare uno sguardo a Finsiel, allora amministrata da suo cugino Nino Tronchetti Provera. Perché non si vince una gara, perché si perde sempre? Gli appronto una rete di relazioni e qualche "analisi". Ancora. La Kroll, la maggiore agenzia d´investigazione del mondo, riceve da Gianni Letta (sottosegretario alla presidenza del Consiglio) l´incarico di rintracciare il tesoro segreto di Calisto Tanzi (Parmalat). Nell´autunno del 2004, l´uomo in Italia della Kroll, un belga d´origine italiana che si chiama Nunzio Rizzi, incontra Gianni Letta e gli chiede "se il governo ha nulla in contrario che l´agenzia organizzi un´azione di discredito contro Marco Tronchetti Provera". Sorprendentemente, invece di metterlo alla porta, Letta (ha anche la delega ai servizi segreti) prende tempo: "Le farò sapere!". Letta avverte Tronchetti. Che, allarmatissimo, mi spedisce a Roma in tutta fretta. E´ il mio primo incontro con Gianni Letta. Mi tiene lì per quaranta minuti. Beviamo un caffè. Mi dice: noi abbiamo un amico in comune, "il nostro Marco" (Mancini). Letta mi spiega le intenzioni di Rizzi. Organizzo una contro-operazione di discredito ai danni della Kroll. Il 6 novembre 2004, faccio pubblicare che c´è "un mandato d´arresto per l´uomo della Kroll, Nunzio Rizzi". La notizia è del tutto falsa, ma alla Kroll capiscono che gli è andata male. E noi, in Telecom, capiamo il senso di quella storia: hanno mandato a dire a Tronchetti che non si fidano di lui, che la sua reputazione può essere sporcata se gli ambienti politici non fanno barriera e quindi è meglio andare d´accordo».


(Tavaroli chiarisce che dal suo orizzonte di lavoro – e intende la rete di rapporti e liaison che possono rendere trasparenti o protette le intenzioni di Tronchetti – nessuno è escluso. Nemmeno la magistratura).


«Era più o meno il settembre del 2001. Mi chiama Armando Spataro, allora membro del Consiglio superiore della magistratura. Mi dice: "Il tuo capo ha risolto i problemi di Berlusconi". Era accaduto che Pirelli Real Estate avesse rilevato Edilnord di Berlusconi che navigava in cattive acque. Per Pirelli era un affare, per Spataro un favore. Nel 2003 Armando ritorna a Milano come procuratore aggiunto. Ho l´idea di farlo incontrare con Tronchetti. Organizzo il meeting. Ma, quel giorno, commetto un errore grave. Invece di andare via, come facevo sempre, rimango nella stanza e sono testimone della loro conversazione. Che non va per nulla bene. Quasi al termine, Tronchetti chiarisce che magistratura e politica devono reciprocamente rispettarsi e che il lavoro dei giudici non può pregiudicare le responsabilità della politica. E´ più o meno una banalità, ma detta in quel momento suonò alle orecchie di Armando come una difesa pregiudiziale di Berlusconi e una censura per le iniziative della magistratura. Spataro ne ricava la convinzione di avere di fronte un uomo piegato agli interessi di Berlusconi. Nessuno gli ha tolto più quell´idea dalla testa.
Questo era il mio lavoro: creare una rete di protezione personale intorno a Tronchetti e di sicurezza per l´azienda, rimuovere le inimicizie preconcette, le ostilità, il malanimo, le presunte incompatibilità. Non è sempre affare per deboli di stomaco. Ecco che cosa intendo quando dico che il perimetro della security si era di molto allargato. Ecco che cosa intendeva Marco Tronchetti Provera quando mi diceva: "Le abbiamo chiesto troppo". Se avevo bisogno di informazioni sugli antagonisti mi rivolgevo a Emanuele Cipriani (investigatore privato della Polis d´Istinto). Che me le procurava. Sono pronto ad ammettere che ci sono state – ma questi sono affari di Cipriani – indagini illegali. Ammetto che bisognerà spiegare le intrusioni informatiche ai danni di Massimo Mucchetti e Vittorio Colao (vicedirettore del Corriere e amministratore delegato di Rcs). Ma non ci sono state intercettazioni abusive né ricatti. Nell´indagine della procura di Milano, non ce n´è traccia. Il mio lavoro non si è mai arricchito di quella roba lì. Le cose andavano così. Fino a quando sono stato in Pirelli, sono stato più o meno un "centro di servizi". Tronchetti Provera, da Telecom, aveva bisogno di informazioni. Mi chiamava e io provvedevo a raccoglierle. Nessuno si dovrebbe meravigliare. Le aziende vivono di informazioni fino alla raffinatezza delle "analisi predittive". E non esitano a sporcarsi le mani. Un esempio? Per quel che so, l´"Operazione Quattro Gatti", lo sganciamento di Mastella dal centro-destra organizzato nel 1998 da Cossiga, fu finanziato per intero dai gestori della telefonia: Sentinelli (Tim), Novari (3), Pompei (Wind), con il sostegno della Ericsson.
Quando arrivo in Telecom, il lavoro cambia. Agisco "di iniziativa" sulle analisi tipiche della sicurezza. Attenzione, però, il "sistema Tavaroli" non era e non è mai stato il "sistema Cipriani"».


(Tavaroli non ammette che l´uno integrava l´altro, che l´uno sosteneva l´altro e mai parla del ruolo di Marco Mancini, il capo del controspionaggio. Lo ripetiamo ancora: questa è soltanto la verità di un indagato).


«E´ a questo punto che arrivano i primi segnali dal "network eversivo". Si fanno sotto quelli che io chiamo "i massoni". Cominciano a scorgere, avvertendole come una minaccia, tutte le potenzialità di quel lavoro, della mia presenza a Telecom, del mio legame con Marco Mancini in ascesa nel Sismi, delle opportunità di integrazione in un unico "nastro" delle informazioni in possesso per motivi istituzionali di una grande azienda di telecomunicazioni e di un servizio segreto. Lo avevate capito anche voi a Repubblica, ma immaginavate che Telecom fosse il centro del "sistema" e non solo un segmento, il più fragile. Arriva il primo segnale e non faccio fatica a "leggerlo". Le manovre compromettenti (è sospettato di essere coinvolto in un traffico d´armi) di Slaedine Jnifen, fratello di Afef (la moglie di Tronchetti) con uno dei figli di Gheddafi mi sono segnalate prima da Nicolò Pollari. Mi dice: i servizi libici minacciano di ucciderlo. Poi da Luigi Bisignani che aveva avuto l´informazione dalla Guardia di Finanza. Capii la musica. Anche Afef parve a rischio».


(Tavaroli non dice né vuole dire se il dossier raccolto anche sulla moglie di Tronchetti sia stato una sua personale iniziativa o un´operazione commissionata da altri o addirittura concordata con il presidente della Telecom).


«E´ un fatto che Afef si porta dietro tutte le amicizie romane del primo marito, Marco Squatriti (Andreotti, Bisignani, Letta). Ricordo che, quando Squatriti finisce in carcere, il primo che gli va a fare visita, come avvocato anche se non era il suo avvocato, è Cesare Previti. L´uomo deve essere finito al centro di una faccenda molto seria. Perché nessuno s´incuriosisce al finale della storia di Italsanità (era la società dell´Iri che aveva affittato dai privati 28 immobili da destinare a residenze per anziani, impegnandosi a pagare affitti per 1.000 miliardi in nove anni, di cui 572 a Squatriti, titolare degli 11 contratti più consistenti)? Sono stati rimborsati a Squatriti un centinaio di miliardi di lire. Oggi Squatriti non ha più un soldo. Dove sono finiti i denari? E, soprattutto, di chi erano? Forse per tenersi buono questo giro, il Dottore ingaggia Maurizio Costanzo (P2, tessera Roma 152), tutt´uno con Previti, Squatriti, Gianfranco Rossi (il faccendiere romano, arrestato nel giugno 1994, è l´intestatario del conto corrente "coperto" FF 2927 presso la Trade Development Bank di Ginevra, conto sul quale sono affluiti 2 milioni e 200 mila dollari fornitigli da Bisignani e parte della maxitangente pagata dall´Enimont ai partiti di governo), Luigi Bisignani (P2, tessera Roma 203). Tronchetti retribuisce Costanzo con 3 milioni di euro all´anno soltanto, in definitiva, per costruire l´immagine di Afef. Ma, in realtà, Tronchetti vuole tenerlo buono e, nel contempo, alla larga. Costanzo non aveva nemmeno il numero diretto del suo cellulare. Si ripetono i segnali negativi.
Salvatore Cirafici, capo della sicurezza di Wind, un massone, mi racconta che è stato interpellato da un giornalista del Giornale che sta preparando un articolo contro di me, ispirato da Luigi Bisignani. Che ci fossero fibrillazioni in corso, lo deduco anche da altri episodi. Poco dopo il Natale del 2002, diciamo nel gennaio del 2003, Berlusconi convoca Pollari a Palazzo Chigi e gli chiede a brutto muso: "Chi è questo Tavaroli?", "E´ vero che Mancini è un comunista"? Pollari replica, difende Mancini e comunica che sta per nominarlo capo della 1° Divisione. Berlusconi abbozza. Non poteva dire di no a Pollari. Come non glielo ha potuto dire poi, con il governo successivo, Romano Prodi, che ha sempre difeso il direttore del Sismi.
La faccio breve, nel 2004 fonti della Guardia di Finanza fanno sapere in Telecom che "Tavaroli, da punto di forza, è diventato un punto di debolezza". A maggio mi convoca Tronchetti e, alla presenza di Buora, mi consiglia di accettare una aspettativa di tre mesi per far calare il polverone su di me e la società. Accetto, non ho alternative. Per tre mesi, il telefono si fa muto. Non mi chiama più nessuno, se si esclude Adamo Bove (il dirigente della security governance della Telecom precipitato il 21 luglio 2006 da un cavalcavia della tangenziale di Napoli: suicidio o istigazione al suicidio?). Vado in Romania. Mi richiamano in Italia dopo l´attentato al Tube di Londra del 7 luglio 2005. Tronchetti chiede a Letta se può darmi una consulenza antiterrorismo. Letta si dice d´accordo "nell´interesse del Paese". A fine anno, il Dottore mi dice: devi rientrare.
Nel gennaio 2006, quando sono pronto a rientrare, Cipriani si fa abbindolare dai carabinieri di Firenze che non hanno mai smesso di blandirlo: "Vuota il sacco e le tue responsabilità saranno ridotte al minimo…". Quello ci casca e trovano il dvd con i file illegali, peraltro già in possesso di Emilio Ricci, avvocato, romano, comunista, amico mio, di Pollari, di D´Alema. Cipriani consegna la password ai pm. In tempo reale la notizia arriva a Tronchetti – penso attraverso l´avvocato Mucciarelli. Il Dottore mi convoca. Mi dice: hanno il dvd; l´hanno aperto; lei non può più tornare in azienda. Io mi mostro preoccupato. Gli dico: su quel dvd ci sono i file di Brancher, e di Cesa, e la faccenda di D´Alema e dell´Oak Fund. Inizialmente, Tronchetti finge di non ricordare. "D´Alema? – dice – e che c´entra, io non so nulla…". Poi, qualche giorno dopo, gli torna la memoria e ammetterà che era stato lui a commissionarmi quel lavoro per verificare se, nell´acquisizione di Colaninno, fossero state pagate tangenti. Qualche mese dopo, in maggio, Tronchetti alla presenza del solito Buora mi chiede le dimissioni. Fu un lavoraccio, l´inchiesta "Oak Fund". Per quel che poi ha scritto Cipriani nel dossier chiamato "Baffino", ora nelle mani della procura di Milano, i soldi hanno viaggiato nella pancia di trecento società in giro per l´Europa per poi approdare a Londra nel conto dell´Oak Fund, a cui erano interessati i fratelli Magnoni (Giorgio, Aldo e Ruggiero, vicepresidente della Lehman Brothers Europe) e dove avevano la firma Nicola Rossi e Piero Fassino.
Queste cose le ho dette anche ai pm che mi hanno interrogato. Loro mi dicevano: non scriviamo i nomi nel verbale, diciamo "esponenti politici…". Formalmente perché è necessario attendere la sentenza della Corte Costituzionale per sapere se quei dossier raccolti illegalmente sono utilizzabili nel giudizio. Ma, dico io, se mi prendi a verbale non hai più bisogno della Corte Costituzionale, hai il mio verbale che contiene la notizia di reato. E allora?
Sono assolutamente convinto che Tronchetti sapesse in tempo reale quali fossero le intenzioni e le mosse della procura. Credo che egli abbia lasciato esplodere il "caso Rovati" al solo scopo di anticipare il governo e trovare una dignitosa e sdegnata via d´uscita. Con quel che sarebbe successo di lì a un paio di mesi, il governo avrebbe potuto dirgli: non hai l´autorità né la credibilità per governare le reti. Ora Tronchetti Provera lascia dire e scrivere che sono stati Romano Prodi, Giovanni Bazoli e Guido Rossi a sottrargli la Telecom senza dire una parola su quel network di potere, eversivo che io, nel suo interesse e su sua richiesta, ho fronteggiato e da cui sono stato distrutto; quell´area di potere che decide le nomine che contano, che in apparenza non chiede e, invece, ordina con messaggi traversi che è bene cogliere al volo per non dare l´idea che la si stia sfidando. Genio dell´opportunismo qual è, Tronchetti vuole ritornare sulla scena forte della liquidità incassata in uscita dalla Telecom, candido e senza un´ombra. Solo io dovrei pagarne il prezzo, ma gli è capitato il peggiore cliente possibile. Non ho nulla da perdere. Mi hanno già tolto tutto. Devo soltanto dimostrare ai miei cinque figli che il loro papà non è il mascalzone che raccontano, che il loro papà ha concesso soltanto fiducia a chi non la meritava. Per questo ripeto: non accetterò mai di essere il capro espiatorio di questo affare».
(2.Fine)
Giuseppe D’Avanzo

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la Repubblica, mercoledì 23 luglio
Si sente dire spesso che in quei luoghi, in quelle istituzioni, in quei paesi dove non soffia alcun venticello di critica pubblica, cresce come un fungo una corruzione senza colpa.
Non c´è dubbio che l´informazione sia e debba essere, per mestiere e dovere, un alimento di critica pubblica. C´è il giornalismo che pretende di ricostruire la verità. C´è un altro giornalismo che sa di non poter afferrare con una presa sicura l´intera storia che racconta. E´ un giornalismo consapevole di un limite e accetta di lavorare a una continua approssimazione della verità, cosciente che non saprà mai davvero che cos´è la verità, ma saprà che cos´è la menzogna. La indicherà ai suoi lettori. Vi si opporrà, per quel che poco o molto che è in grado di fare. E potrà ripetere ai pochi o ai molti che gli concedono ogni giorno fiducia: «Non vi abbiamo mentito».
Avremmo mentito ai nostri lettori se avessimo accettato le conclusioni minimaliste dell´affaire Telecom. In questi giorni si è andata disegnando, da più parti e anche con voci autorevoli, una scena capovolta, fuori da ogni cardine. Scomparivano i protagonisti e i comprimari, le loro condotte e responsabilità, la lunga scia di illegalità, abusi e ricatti. Come d´incanto, soltanto distrattamente si ricordava al lettore (e c´è chi non ha fatto nemmeno questo) che, nella maggiore società di telecomunicazioni del Paese, la Telecom Italia di Marco Tronchetti Provera, sono stati raccolti migliaia di dossier illegali in collaborazione con l´intelligence italiana, in violazione di ogni privacy con finalità ancora tutta da chiarire.
In occasione della conclusione delle indagini, l´imputazione di una responsabilità oggettiva di Pirelli e Telecom in capo al suo presidente (Tronchetti) e amministratore delegato (Buora) è apparsa diventare, a leggere alcuni commenti e bizzarre dichiarazioni, un´assoluzione piena: un esito da esibire come un fiore all´occhiello. Per farlo, bisognava lavorare a una cosmesi dei fatti. Un annuncio di fine indagine è stato presentato come un proscioglimento definitivo come se si trattasse di una sentenza assolutoria e conclusiva, prima di leggere la richiesta di rinvio a giudizio che ancora non c´è e la decisione del giudice dell´udienza preliminare che un giorno verrà.
Si è scritto che Tronchetti è stato «scagionato». Il primo a crederci è stato il presidente di Pirelli. Si è detto «contento e molto soddisfatto perché è emersa con chiarezza la verità». La verità provvisoria è che due società Pirelli e Telecom (con Tronchetti legale rappresentante) non hanno impedito ai propri dipendenti di commettere reati nell´interesse delle società. Tronchetti non avverte la responsabilità di quella omissione. Non crede di dover chiedere almeno scusa, con umiltà, agli spiati o almeno agli azionisti Telecom: già provati dalla sua gestione, dovranno presto mettere mano al portafoglio per pagare centinaia di miliardi di risarcimento alle vittime dello spionaggio fiorito per la trascuratezza di un presidente e di un amministratore delegato. Non è nemmeno il peggio. Il peggio è l´acquerello a tinte tenui che vuole rappresentare l´affaire. Tre amici d´infanzia (Tavaroli, Mancini, Cipriani) fanno carriera partendo dal fondo della scala. Conquistano la potente e ricca security della Telecom (Tavaroli), il controspionaggio militare (Mancini), un´importante agenzia d´investigazione (Cipriani). Incrociano le informazioni in loro possesso. Formano dossier spionistici in libertà con le risorse della Telecom e dello Stato. Lucrano profitti e potere personali. Fine dell´affaire.
Avremmo mentito se avessimo accettato senza un dubbio, senza un interrogativo questo tableau piccino, semplificatorio. E non per un pregiudizio sfavorevole alla Telecom o a Tronchetti Provera. Ma per quel che già si è potuto leggere nelle cinque ordinanze dei giudici milanesi.
La security di Tavaroli disponeva di risorse finanziarie senza limiti, alimentate in parte dal «fondo personale» del presidente. Nessun controllo aziendale di audit. Dipendenza diretta dal presidente. Quattro diversi "sistemi" capaci di rubare informazioni riservate senza lasciare traccia. Una piattaforma di hackeraggio («zone H») nei paesi dell´Est, utilizzata per intrusioni informatiche, finanziata dalla Telecom e posta in bilancio come «investimento per immobilizzazione materiale» (poteva dare benefici a lungo termine). Una rete di pubblici ufficiali sparsi su tutto il territorio nazionale, «"sensori" per ogni indagine o accertamento che potesse interessare la Telecom-Pirelli». Collegamenti con l´intelligence francese, inglese, americana, israeliana e naturalmente italiana. Una pericolosissima "macchina da guerra". In due occasioni, il giudice per le indagini preliminari Giuseppe Gennari ne indica esplicitamente il beneficiario. Ordinanza 18 gennaio 2006, pag. 188: «... che Tavaroli gestisse pratiche di questo genere nel suo singolare interesse è altamente improbabile. Ci troviamo di fronte a una gravissima intromissione nella vita privata delle persone e a un tentativo di captazione occulta di dati e notizie riservate, mossa da logiche puramente partigiane, nella contrapposizione tra blocchi di potere economico e finanziario. Logiche che tendono a beneficiare non già l´azienda come tale, ma colui che, in un dato momento storico, ne è il proprietario di controllo». Ordinanza 20 marzo 2007, pag. 168: «Osserviamo anche il riemergere di una tipologia di investigazioni che, in modo difficilmente revocabile in dubbio, rispondevano a esigenze dei vertici e della proprietà aziendale».
La convinzione del giudice quasi imponeva a un autonomo lavoro giornalistico di cercare Giuliano Tavaroli. Di chiedergli un colloquio. Di raccogliere la sua versione dei fatti. Era il diavolo. Era descritto come l´artefice e il conduttore di quella "macchina da guerra". Si diceva che avesse lavorato nel suo esclusivo interesse gabbando il suo padrone. Che cosa aveva da dire? Qual era la sua verità? E questa verità non era, pur nella sua parzialità, di interesse pubblico in un affaire dove tutti avevano avuto possibilità di accusare o difendersi e che aveva provocato anche un decreto di legge del governo approvato dalle Camere (la distruzione dei dossier raccolti illegalmente)?
Sono queste le ragioni che hanno convinto Repubblica a pubblicare l´ampio resoconto dei colloqui con Giuliano Tavaroli. Abbiamo ritenuto che l´inedita ed esclusiva ricostruzione del principale indagato (anche con le possibili manipolazioni di cui abbiamo avvertito il lettore) potesse dare al quadro un tassello in più e una profondità, una concretezza, un profilo che le anticipazioni giudiziarie annunciavano piatto, senza asperità, quasi neutro con la storia assai poco credibile dei «tre amici intraprendenti». Comprendiamo l´irritazione di chi, proclamandosi estraneo a quei fatti, ne è stato coinvolto. Ma oggi abbiamo sotto gli occhi, con i nomi, i cognomi, qualche circostanza e dettaglio, quella «contrapposizione tra blocchi di potere» già intuita dal giudice nel gennaio del 2006. Vi affiorano figure che decidono della cosa pubblica senza alcuna responsabilità istituzionale; una filiera di immarcescibili massoni che lo scandalo della P2 non ha eliminato dalla scena; comportamenti obliqui di governanti; ricatti; corruzione piccola e grande; debolezze della magistratura, dell´informazione, delle amministrazioni dello Stato e, al centro, una sorda lotta per il potere che non si fa mai trasparente. Non ci appare la verità. Ci appare uno scenario più vicino alla realtà dello scandalo Telecom.
Giuseppe D’Avanzo

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23 luglio
MILANO - Un polverone. Lo avevano suscitato i dossier di Tavaroli, quando a spizzichi e bocconi uscivano sulle pagine della stampa. Lo ha suscitato Tavaroli stesso, quando, chiusa l´inchiesta, ha deciso di parlare fuori dalle righe. E a dire che è andato sopra le righe sono stati praticamente tutti i personaggi nominati nel colloquio concesso in esclusiva a Repubblica dall´ex capo della security di Telecom Italia.
Piero Fassino e Nicola Rossi, i parlamentari ex Ds indicati da Tavaroli come titolari di conti esteri intestati all´Oak Fund dei fratelli Magnoni, hanno smentito di aver mai avuto qualsiasi genere di rapporto bancario con il fondo che attraverso la Bell era tra gli azionisti di controllo di Telecom Italia ai tempi di Colaninno. Lo stesso imprenditore mantovano, che non era nemmeno tra i soci dell´Oak Fund, ha negato di aver mai pagato tangenti ai Ds: «Tali notizie sono prive di qualunque fondamento e del tutto contrarie al vero». E gli stessi Magnoni hanno smentito le affermazioni di Tavaroli.
Il leader del Pd, Walter Veltroni, ha espresso la sua solidarietà ai compagni di partito: «Voglio confermare a Piero Fassino la mia grande fiducia e stima personale e politica». Stima e solidarietà espressa telefonicamente anche a Rossi. Pure Pierluigi Bersani, ex ministro dello Sviluppo, ha preso le difese di Fassino: «Nell´insieme mi sembra una vicenda molto grave. La giustizia farà il suo corso per chiarire la verità e tutta la solidarietà va a Fassino, sbattuto, e non è la prima volta, in mezzo a vicende in cui è totalmente estraneo». Vicino ai due bersagli di Tavaroli anche il senatore del Pd Marco Follini: «Che Fassino e Rossi possano essere depositari di conti segreti e di tangenti è una falsità che può venire in mente solo a chi non li conosce. Sono solidale con loro. Spiace solo che così tanti veleni siano messi in continuazione nel frullatore impazzito della nostra vita pubblica».
Solidarietà è arrivata pure dal centrodestra. «Non sono un esperto del "Telecom-gate" - ha dichiarato Pierferdinando Casini, leader dell´Udc - ma ho grande stima e considerazione di Piero Fassino, che ritengo una persona seria e corretta. E la mia considerazione non è certo cambiata oggi, dopo queste pseudo-rilevelazioni». Per Fabrizio Cicchitto, capogruppo del Pdl alla Camera, Fassino è stato «oggetto di una delle solite e indegne aggressioni destituite di ogni fondamento, ma dotate di una forte risonanza mediatica».
Il segretario dell´Udeur Clemente Mastella, da parte sua, respinge sdegnato l´accusa di aver preso soldi dalle compagnie telefoniche Tim, 3 Italia e Wind, con il sostegno di Ericsson, per sganciarsi nel 1998 dal centrodestra e passare, con la regia di Francesco Cossiga, al centrosinistra. «Ho sempre fatto la politica per la politica» ha rivendicato Mastella, aggiungendo che «quelle del signor Tavaroli sono soltanto illazioni, destituite di ogni fondamento». Una smentita è arrivata anche da 3 Italia.
Sul versante giudiziario, la vicenda Telecom potrebbe riservare novità nei prossimi giorni. Da oggi, infatti, sono a disposizione sezioni degli oltre 160 faldoni con parte del materiale raccolto in tre anni di indagini dai pm coordinati dal sostituto procuratore Fabio Napoleone. La consultazione delle carte è iniziata con qualche giorno di ritardo per la mancanza di personale del Tribunale di Milano. Alcuni atti, coperti dal segreto, non potranno essere fotocopiati.
WALTER GALBIATI
EMILIO RANDACIO

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23 luglio
Egregio direttore, leggo su Repubblica, nell´intervista di Giuseppe D´Avanzo al signor Tavaroli, che non meglio precisate tangenti sarebbero «approdate a Londra nel conto dell´Oak Fund a cui erano interessati i fratelli Magnoni e dove avevano la firma Nicola Rossi e ».
E´ una pura falsità, inventata di sana pianta. Non conosco i fratelli Magnoni. Non ho mai avuto firme su conti esteri né a Londra, né altrove. Non so neanche cosa sia l´Oak Fund.
Per queste ragioni ho immediatamente dato mandato ai miei legali di tutelarmi contro Tavaroli, D´Avanzo e chiunque altro sia responsabile di questa vigliaccata, nonché contro chiunque continuasse a diffonderla.
Mi lasci aggiungere che trovo inconcepibile che la Repubblica pubblichi - e per di più richiamandola con titoli di prima e seconda pagina e una mia fotografia - una notizia del tutto falsa senza neanche verificarne non dico la fondatezza, ma la minima attendibilità.
Non si invochi il diritto di cronaca o la libertà di stampa, che non c´entrano niente. Qui si sputtana una persona onesta e pulita ledendone la onorabilità e la dignità. E questo è inaccettabile.
E mi lasci aggiungere anche che mi ferisce particolarmente che questa incredibile aggressione avvenga sotto la sua direzione. Conoscendoci da ben 30 anni e avendo consuetudine di frequentazione, Lei poteva facilmente capire che le affermazioni di Tavaroli sono una bufala inventata per non so quali oscuri disegni. E invece in nome non della libertà di stampa, ma di una nevrotica ricerca di scoop, lei non esita a travolgere ogni e qualsiasi rispetto di una persona per bene.
Le chiedo di pubblicare questa mia lettera, con l´evidenza che la gravità del caso comporta.
Piero Fassino

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23 luglio
ROMA - La giornalista Lucia Annunziata non ci sta a passare per «quella che ha presentato Massimo D´Alema a Tronchetti Provera», intascando fior di soldi per le consulenze offerte a Telecom. Si indigna, reagisce con veemenza alla ricostruzione dell´affaire Telecom fornita da Tavaroli a Repubblica («lui mischia cose vere con cose del tutto false») e dopo un primo rifiuto a fornire la sua versione dei fatti ci ripensa, risponde.
Annunziata, lei ha contribuito all´incontro tra Tronchetti Provera e il presidente dei Ds Massimo D´Alema?
«Assolutamente no. Certo, ho conosciuto Giuliano Tavaroli quando facevo il direttore della Apcom, è venuto da me in agenzia come tante altre persone. Ma figuriamoci se sono stata io a presentare Tavaroli a Massimo D´Alema... Comunque a me di questa roba non frega niente perché non è una cosa vera».
Lei è negli Stati Uniti, ma ha letto quello che dice Tavaroli: parla di consulenze che lei avrebbe avuto da Telecom dopo l´incontro tra D´Alema e Trochetti Provera...
«Sì, sono in America: a sperperare i soldi che mi ha dato Telecom. Ma figuriamoci... Io non ho nulla da nascondere, ho fatto una consulenza per Telecom quando ero già fuori dall´agenzia Apcom, quando mi ero già dimessa da presidente della Rai. Basterebbe controllare le date per capire che Tavaroli non è credibile».
E quali sono queste date cruciali?
«Io mi sono dimessa da presidente di Apcom nel marzo 2003. Dopodiché nell´ottobre dello stesso anno Apcom è stata venduta a Telecom. Io sono passata quindi alla Rai, dove sono stata presidente dell´azienda fino al 2004, quindi mi sono dimessa, e nel 2005 ero già una giornalista freelance».
Quindi libera di prendere i soldi delle consulenze Telecom?
«Guardate che nel 2005 ho dichiarato 225 mila euro di imponibile. In quell´anno ho lavorato per Sky Tg24, per La Stampa, e ho fornito due consulenze sull´Africa. Una l´ho fatta per Intesa (sul Malawi), pagata 49 mila euro, l´altra per Telecom (sull´Egitto), pagata 100 mila euro. E per via di questa consulenza con Telecom io dovrei sentirmi una "venduta", anzi una dalemiana corrotta?».
Scusi, ma chi ha detto che lei sarebbe una "venduta"?
«Lasciamo perdere... E comunque sapete che vi dico: meglio essere associata a D´Alema e company che non a Tavaroli. Ma c´è davvero qualcuno che può credere alla storia del conto di Londra a disposizione di Fassino?».
Leandro Palestini

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la Repubblica, giovedì 24 luglio
MILANO - «Non ho mai ordinato dossier illegali. Non ho mai chiesto informazioni a Tavaroli. Non sapevo nulla dei budget di Tavaroli. E non avevo certo bisogno di Giuliano Tavaroli per coltivare i rapporti istituzionali». Se aveva dei problemi in Brasile, Marco Tronchetti Provera, l´ex numero uno di Telecom, parlava direttamente con il presidente Lula. E il tramite poteva essere l´ambasciatore italiano o il ministro degli Esteri di allora, Gianfranco Fini. Non certo gli scagnozzi di Tavaroli. Per Tronchetti, l´unico compito di Tavaroli era «difendere la rete» telefonica e le strutture dell´azienda. Al più proteggere le persone nelle trasferte pericolose. Il resto non era altro che un tentativo di Tavaroli per accreditarsi agli occhi dei suoi capi o dei suoi stessi interlocutori. Come avveniva negli incontri organizzati da Tavaroli tra Tronchetti e vari esponenti del mondo politico, tutti "attenzionati" dalla Security Telecom. Incontri che il presidente della Pirelli ripercorre nell´interrogatorio del 27 giugno scorso, davanti ai pm Fabio Napoleone e Nicola Piacente.
[Brancher, Bossi e la Lega]
«Io non ho mai chiesto informazioni su Brancher (Aldo, Forza Italia ndr). Mi è stato presentato allo stadio da Tavaroli, all´intervallo della partita». Il fine era quello di favorire un incontro con Bossi. Dopo l´incontro con Brancher, «andai a trovare Bossi - spiega Tronchetti - per un lungo colloquio su temi di carattere generale e politico». E aggiunge: «Tavaroli si inserì in questo tema probabilmente per quello che dite voi, perché c´erano attacchi dalla Lega nei confronti della società».
[L´incontro con D´Alema]
Fu sempre Tavaroli a organizzare un incontro tra Tronchetti e il leader dei Ds Massimo D´Alema, sebbene tra i due esistesse già una «consuetudine»: «Lui (Tavaroli, ndr) mi venne a dire che magari era opportuno vederlo, che ne aveva parlato con Lucia Annunziata». Tavaroli aveva accennato a Tronchetti anche della vicenda relativa all´Oak Fund e alla possibilità di fondi neri per il partito di D´Alema attraverso le varie compravendite di Telecom Italia. Una vicenda sulla quale verrà creato un dossier. «Non è mai stato dato nessun input di questo genere. Quello che ho fatto è stato dare mandato allo studio Gianni e a un auditor esterno per la verifica di tutte le operazioni che erano apparse sulla stampa, che avevano avuto a oggetto Telecom Italia e Bell». Al riguardo «io tutelo l´azienda - aveva risposto Tronchetti a Tavaroli - guardi sono le chiacchiere da bar di Roma». E lo stesso atteggiamento Tronchetti lo mantiene quando i magistrati lo invitano a parlare di Telekom Serbia: «Diedi mandato al professor Corasaniti che era un presidente di Corte Costituzionale che prese con sé due professori di università, uno era Coda. Ci venne fatto un verbale in cui non era emerso nulla che fosse da portare all´attenzione della Commissione parlamentare».
[Il Grande Orecchio]
Nel suo verbale Tronchetti Provera cerca di spiegare il rapporto dell´azienda con le intercettazioni telefoniche: « successo che il responsabile dei grandi clienti aveva avuto un input dal ministero di Grazia a Giustizia per entrare nelle forniture dei sistemi d´ascolto. Mi arrabbiai moltissimo, perché era fuori dalle strategie di Telecom. Mi venne detto che c´era un fatturato di 300 milioni, che il ministero voleva ridurre i costi e che per questo avevano aderito. Ho detto di comunicare al ministero che noi