Alfonso Sabella, Cacciatore di mafiosi, Mondadori 2008, 21 luglio 2008
Alfonso Sabella, Cacciatore di mafiosi, Mondadori, 2008, 265 pagine, 17,50 euro. Metodo. Latitanti mafiosi arrestati dal 93 al 99 dalla Procura di Palermo diretta da Gian Carlo Caselli: più di trecento
Alfonso Sabella, Cacciatore di mafiosi, Mondadori, 2008, 265 pagine, 17,50 euro. Metodo. Latitanti mafiosi arrestati dal 93 al 99 dalla Procura di Palermo diretta da Gian Carlo Caselli: più di trecento. Il metodo: assegnare a ogni pool di magistrati un mandamento mafioso, e a uno, massimo due magistrati, le ricerche di ciascun latitante (tra i magistrati Alfonso Sabella). Dettagli. La necessità per i carabinieri di usare la propria auto anziché le autocivette in dotazione all’Arma, tutte Fiat Uno, facilmente riconoscibili perché senza poggiatesta. «Forse per abbassare i prezzi di produzione e aggiudicarsi la fornitura, la fabbrica torinese non le ha dotate di questo optional che costava poche migliaia di lire in più e che tutti gli acquirenti normali facevano montare sulla propria autovettura». Cimici. Condizioni offerte da Alfonso Sabella a un privato in cambio della fornitura di cimici per spiare mafiosi: «Se riusciamo a catturare il latitante, ti liquido le fatture per intero. In caso contrario, ti pago solo il venti per cento […] Lui capisce e accetta. Si sente motivato. E lo dimostrerà fornendoci sempre materiale d’avanguardia e rendendosi disponibile per ogni esigenza». Stufato. Leoluca Bagarella (cognato di Totò Riina), fu arrestato, il 24 giugno 1996, mentre usciva dal negozio dove aveva ritirato i jeans nuovi che aveva lasciato da accorciare. Diventato ”il signor Franco”, impiegato delle poste, dopo il suicidio della moglie, Vincenzina Marchese, aveva affittato un appartamento nel centro di Palermo, di fronte al palazzo dove abitavano due magistrati, Giuseppe Pignatone (titolare proprio delle sue ricerche), e Guido Lo Forte. Prima di uscire di casa si era cucinato la trippa al sugo per averla pronta al ritorno. A lutto per la morte della moglie, dopo il 28 aprile non aveva più ucciso. Autisti. A fare arrestare Bagarella fu il suo autista Tony Calvaruso, che ai magistrati disse anche a quanti cristiani aveva salvato la vita facendo cambiare idea al suo capo. Come il proprietario della rosticceria di Palermo, dove il nipote Giovanni Riina aveva preso gli arancini che gli avevano fatto venire l’acidità di stomaco. O il rivenditore che lo riforniva a domicilio di acqua minerale, secondo lui facendoci la cresta (Bagarella aveva fatto apposta un sopralluogo al supermercato, scoprendo che costava 70 lire di meno a bottiglia). Torture. Il capannone di via Messina Montagne, periferia est di Palermo, dove Bagarella si faceva portare i mafiosi che intendeva torturare per avere informazioni e poi strangolare. In una nicchia mimetizzata gli attrezzi per la tortura (manette, corde lacci, fili di ferro, guanti di lattice), appese alle pareti le immaginette di santa Rosalia, santa Rita, la Madonna e san Cristoforo. Lì portato Gaetano Buscemi fu torturato per otto ore prima di essere strangolato, e in cambio dell’ammissione pretesa dal suo aguzzino, ottenne la promessa di non essere sciolto nell’acido (mantenuta scaricando il suo cadavere in una via del centro di Villabate). Presentazioni. Dopo l’arresto, portato al cospetto di Gian Carlo Caselli, presso la sede della Dia, Bagarella dovette sentirsi preso in giro quando si sentì dire con così garbo: «Buonasera. Sono il procuratore di Palermo e sono qui per chiederle se intende dire qualcosa, se ha qualche dichiarazione da fare». Perché invece rispose: «’A canusciu buono, a vossia. E non devo dire proprio niente. Lei facissi ”u procuratori, ca io mi fazzu ”u carzaratu». Evasioni. Bagarella aveva messo a punto un progetto di evasione, con tanto di missili terra-aria e granate anticarro per buttare giù muro di cinta. Ma quando lo fece sapere a Giovanni Brusca, quello gli mandò a dire: «Dicitici a Bagarella che forse s’ha vistu troppi film miricani». Calcio. Pietro Romeo, il rapinatore in proprio che pagava il pizzo ai mafiosi, dopo l’arresto si pentì, e raccontò tra l’altro di come si disfacevano dei cadaveri i picciotti di Bagarella. Mettendoli a bagno nell’acido usato dai gioiellieri per lucidare i metalli preziosi, e nel frattempo rimestando con un bastone (aumentando la temperatura il tempo di scioglimento diminuisce). Era capitato però che per la fretta di finire in tempo per vedere una partita di calcio dell’Italia, invece di aspettare il dissolvimento, si fossero spartiti pezzi di femore o di tibia, d’accordo per lanciarli dalle auto in corsa al rientro ciascuno a casa propria. Tesori. Salvatore Cancemi, che per convincere i magistrati di essersi pentito davvero, indicò il punto esatto (in Svizzera, sul lago di Lugano), dove tempo prima aveva seppellito un milione e novecentocinquantamila dollari, ma durante tutto il viaggio stette steso sul pavimento dell’aereo a faccia in giù (ripetendo a cantilena: «santa Rosalia, santuzza bedda, aiutami tu», perché aveva paura di volare). Una volta scoperto il tesoro, si mise a cantare «Alè oh oh! Alè oh oh!» come allo stadio, con le mani alzate in segno di vittoria e girando in tondo (in base alla legge federale elvetica fu confiscato tutto dalla Svizzera). Marmitte. Per individuare la villa in cui si nascondeva Giovanni Brusca (intercettato da tempo al telefono), un poliziotto in borghese si recò nella zona sospetta a bordo di un motorino senza marmitta all’ora in cui il boss faceva la sua telefonata quotidiana a un affiliato, e non appena sentito il rumore del motorino gli agenti della mobile fecero irruzione, trovando il latitante davanti alla tv (stava guardando uno sceneggiato su Giovanni Falcone, e pochi minuti dopo vide scorrere in sovrimpressione la notizia del suo arresto) (20 maggio 1996). Vedove. Quella volta che Giovanni Brusca (dopo essersi pentito), interrogato sull’omicidio di un giovane di Altofonte (ucciso giusto una settimana prima della data fissata per il matrimonio), spiegò ad Alfonso Sabella perché tanta fretta di ammazzarlo: «Ma dottore, non potevamo certo lasciare una vedova». Fratelli. Enzo Brusca, per sottostare agli ordini del fratello Giovanni (che aveva fatto falsificare una cartella clinica per creargli l’alibi per un omicidio), nel suo casolare si sottopose all’incisione dell’inguine per provocare cicatrici compatibili con l’intervento documentato (il tutto con blanda anestesia locale), ma finì che il medico, Salvatore Aragona, provocò per errore una lesione a un nervo e dolori indicibili. Affetto da intolleranza alimentare ai crostacei, quella Pasquetta che sotto lo sguardo minatorio di Giovanni dovette mangiarne venti per accontentare Leoluca Bagarella, che andandone matto ne aveva ordinato due casse. Modelli. «Se non fosse stato figlio di Bernardo Brusca, se non avesse avuto quali modelli di vita il fratello Giovanni o gente come Salvo Madonia e Giuseppe Graviano, se non avesse passato le domeniche a giocare in una casa di campagna con i figli di Raffaele Ganci, mentre suo padre e il boss della Noce arrostivano cadaveri sul retro…, forse [Enzo Brusca] non avrebbe mai nemmeno saputo cosa era la mafia». Doveri. Giuseppe Di Matteo, figlio del pentito Santo, che a nemmeno quattordici anni fu rapito e dopo 799 giorni strangolato all’ordine di Giovanni Brusca («Allibbertati di lu cagnuleddu», ”liberati del cagnolino”), come da copione fu immerso anche lui nell’acido. Il boia, Vincenzo Chiodo (al suo primo omicidio), tornato la mattina dopo per svuotare il fusto, dovette prima cambiare l’aria, ma poi, vedendo spuntare una gamba di Giuseppe, dovette rimestare tutto con un bastone, finché in superficie non rimase solo la corda. Pentito, alla corte disse: «Io a volte non ho il coraggio di guardare in faccia i miei figli. Però il dovere era più forte». Malefici. Quel giorno del dicembre 1992, quando un commissario si precipitò nella stanza di Alfonso Sabella per avvertirlo di avere appena intercettato una Rosanna, sorella di mafiosi, che al telefono con la madre le diceva di non preoccuparsi perché lui alla Madonna non ci sarebbe arrivato (cioè alla festa dell’Immacolata). Alfonso Sabella per sicurezza dovette trasferirsi a dormire in commissariato, ma poi si scoprì che la Rosanna aveva solo pagato un mago per fargli un maleficio. Lanciamissili. Dei quindici Rpg 18 (lanciamissili) acquistati da Giovanni Brusca, gli inquirenti ne avevano sequestrati tredici. Uno, dicevano i pentiti, dopo l’arresto di Brusca, era a disposizione di Vito Vitale, boss di Partinico (soprannome di famiglia ”Fardazza”, ”stracci vecchi”), intenzionato a lanciarlo contro Alfonso Sabella, che per non farsi vedere dovette viaggiare in finti camioncini di surgelati e a fari spenti in autostrada (come di volta in volta decideva il responsabile della scorta). Per scovare Vitale una poliziotta finse di essere un’indovina, nel tentativo di carpire informazioni al marito di una delle sue amanti (Gina), che invece le cercava da lei, perché voleva sapere chi gli metteva le corna. Finalmente Gina rottamò la sua vecchia Renault (troppo piccola per installarci apparecchio Gps), e con la Lancia Y metalizzata regalata dal Vitale andò a parcheggiare davanti al carcere (per andare in visita al marito nel frattempo arrestato), dove un poliziotto travestito da parcheggiatore, prese in consegna le chiavi - e duemila lire di mancia -, e installò l’apparecchio che consentì di localizzare la macchina diretta al luogo dell’appuntamento col latitante, che così, il 14 aprile 1998, fu arrestato. Nikita. Rosanna, una bella spiantata di ventidue anni di Villabate, diventata amante di un uomo sposato di trentaquattro, Giuseppe Barbagallo, detto ”Uccio”, mafioso, e quando venne a saperlo andò a dirlo ai carabinieri, che le chiesero di continuare a fare come se niente fosse e le misero una microspia sotto il letto, e così ogni volta che Uccio per vantarsi le raccontava dei cristiani che aveva ucciso, le sue confessioni venivano trascritte. Una volta arrestato fu convinto a collaborare con i magistrati per il solo fatto che altrimenti i mafiosi avrebbero saputo era andato a raccontare i segreti dell’associazione a una donna, che peraltro non era nemmeno sua moglie (vietatissmo da Cosa Nostra). A Rosanna, soprannominata Nikita dagli investigatori, toccò cambiare identità e andare a rifarsi una vita in una località segreta. Lolite. Giuseppe Guastella, detto Pino, sicario al soldo di Bagarella, a quarantaquattro anni con un’amante di quattordici, Elisa, che usciva di casa con lo zaino carico di libri per andare a studiare dalle amichette e invece andava a passare la notte nel suo nascondiglio. Finché i poliziotti non la seguirono, e quando sfondarono la porta trovarono lui mezzo nudo con la schiuma da barba in faccia e lei perduta tra le lenzuola (il 23 maggio 1993). Signorini. Pietro Aglieri, detto ”u signurinu (per l’eleganza nel vestire e perché non si era mai sposato), capo mandamento di Santa Maria di Gesù, braccio destro di Bernardo Provenzano, arrestato dopo nove mesi di appostamenti pedinamenti intercettazioni riprese fotografiche, il 6 giugno 1997, in un casolare di campagna di Bagheria. Nel covo rinvenuti un crocifisso e una statua della Madonna, un’intera libreria di edizioni San Paolo (bibbie, compendi di vite di santi, commenti all’Apocalisse), ma anche saggi di Kirkegaard. Al piano terra una cappella privata, con sei panche, fonte battesimale all’ingresso, ceri, paramenti sacri. Ad officiargli messa a domicilio ci andava il frate carmelitano Mario Frittita, arrestato, condannato, e poi assolto dall’accusa di favoreggiamento. Fesserie. E dire che padre Frittita era stato intercettato mentre diceva al mafioso Ino Corso: «Non ci metteranno molto ad arrivare a me. Faccio così: vado alla polizia e gli dico che incontravo Pietro. Quando mi chiederanno come l’ho conosciuto gli racconto una fesseria così non possono risalire a te». Monaci. I poliziotti che cercavano le tracce di Aglieri avevano intercettato e trascritto le telefonate dei monaci del convento di Mario Frittita, e dopo la sua assoluzione (quando finì che tutti accusarono loro di avere arrestato un innocente), le trasmisero formalmente ad Alfonso Sabella, con l’intenzione di renderle pubbliche (per fare almeno sapere ai fedeli che cosa facevano i monaci quando non predicavano in chiesa). «Le conversazioni riguardavano vicende personali e relazioni private dei frati. Fatti del tutto estranei alla mia indagine e privi di rilevanza penale, tanto che manderò immediatamente al macero nastri, brogliacci e trascrizioni, distruggendo per sempre ogni traccia di quelle intercettazioni. Come prescrive la legge. Quella legge dello Stato cui, almeno noi magistrati, siamo soggetti». Dissociazione. Il maggio 2000, quando Pietro Aglieri per primo e altri mafiosi detenuti come lui, si dissero disponibili a dissociarsi da Cosa Nostra, ed ad ammettere le proprie responsabilità, ma senza accusare gli altri (come avevano fatto un tempo i terroristi), e chiesero di fare un summit tra loro in carcere. Alfonso Sabella, allora a capo dell’ufficio dell’ispettorato del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al tempo diretto da Gian Carlo Caselli), si ricordò di quando Carlo Greco fu intercettato mentre parlava col fratello Giuseppe: «Ti sei dissociato? Allora gli puoi dire: mi avvalgo della facoltà di non rispondere, ma mi dissocio. Sì, vero è: facevo parte di questi membri, di queste cose, però, non lo voglio fare più. Ho le mie responsabilità. E intanto mi guadagno uno sconto di pena e mi levano il 41 bis». Cupole. «Noi non abbiamo alcun dubbio […]. Dalla dissociazione dei boss non poteva venire alcuna utilità pratica per lo Stato e l’unico risultato concreto sarebbe stato il crollo delle collaborazioni di giustizia e la possibilità per diversi boss di uscire dal carcere prima del tempo: ”Minchia, stupido ti pare?” aveva detto Carlo Greco quattro anni prima». Conclusione: «Niente Cupole di Cosa Nostra in carcere». Scopini. Nel 2001 i mafiosi ci riprovano, e con loro anche i boss detenuti di ”Ndrangheta, Camorra e Sacra Corona Unita, ma i giornali pubblicano la notizia e l’iniziativa si blocca per qualche mese. Finché il boss Salvatore Biondino, che già aveva manifestato la volontà di dissociarsi, chiede di fare lo scopino (così avrebbe potuto spazzare le celle di detenuti altrimenti non autorizzati a parlare con lui), e Pippo Calò (il mafioso che a Roma aveva lavorato con la Banda della Magliana), scrive ai giudici di volersi dissociare. Soppressioni. Il 29 novembre 2001 Sabella segnala al nuovo capo del Dap Giovanni Tinebra (ex procuratore della Repubblica di Caltanissetta) l’opportunità di allertare la polizia penitenziaria al fine di evitare contatti anche casuali tra i boss coinvolti nell’iniziativa. Il 5 dicembre Tinebra sopprime l’ufficio di Sabella e gli revoca ogni funzione, con conseguente trasferimento d’ufficio a Firenze, nonostante le sue richieste di restare a Roma a fare il magistrato (ma il giorno successivo alla sua assegnazione in Toscana il Csm applica a Roma due magistrati con meno anzianità). Correnti. Sabella ricorre invano al guardasigilli Roberto Castelli (in quanto tale competente a fare quello che d’iniziativa, invece, aveva fatto Tinebra), e al Csm. «Forse in quel momento [il Csm era] preoccupato della necessità ”politica” di non spaccare l’unità delle correnti censurando l’operato di un esponente di spicco di una di queste, qual era Tinebra, per dare ragione a un semplice magistrato che, invece, proprio per tutelare al massimo la sua indipendenza, aveva sempre scelto di non aderire ad alcuna corrente della magistratura. Qual ero, e sono, io». Interviste. Dissociazione? Ero contrario, ora non più (titolo dell’intervista rilasciata da Tinebra al ”Corriere della sera” l’8 giugno 2000) Cicli. «Appena un mese dopo Pietro Aglieri si rifarà vivo con una lettera al procuratore antimafia sollecitando una soluzione politica al problema dei detenuti mafiosi e, da quel momento, almeno fino alla cattura di Provenzano, la questione della dissociazione dei boss continuerà ciclicamente a interessare, con alterne fortune, il dibattito politico e sociale nel nostro Paese».