Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  luglio 19 Sabato calendario

Se può essere di consolazione a qualche lettore, la guerra fra politica e giustizia non è un fenomeno esclusivamente italiano

Se può essere di consolazione a qualche lettore, la guerra fra politica e giustizia non è un fenomeno esclusivamente italiano. Esiste sin dagli inizi degli anni Novanta, anche se in forme diverse, in quasi tutte le maggiori democrazie occidentali, dagli Stati Uniti alla Francia, dalla Spagna alla Germania. I magistrati lamentano «l’arrogante brama di potere di molti governanti che pretendono di sottomettere la giustizia alle lunghe maglie del loro controllo» (sono le parole di un giudice spagnolo, Baltasar Garzón, tratte da un libro pubblicato nel 2005 da Baldini Castoldi Dalai). La classe politica deplora l’invadenza della magistratura e il suo tentativo di esercitare una sorta di supervisione su funzioni che sono state tradizionale appannaggio del potere esecutivo e del potere legislativo. La magistratura rivendica la propria indipendenza e si proclama «bocca del diritto». La classe politica invoca il mandato popolare e rivendica la propria legittimità democratica. Chiedete ad Aznar, Chirac, Kohl, Bush, Kissinger, Olmert o, se fosse in grado di rispondervi, Sharon, che cosa pensino dei loro magistrati o di quelli che cercano d’incriminarli di fronte al tribunale di un altro Paese. Vi daranno privatamente risposte non troppo diverse dalle parole con cui Silvio Berlusconi ha polemizzato in questi anni con la magistratura italiana. Questa guerra della giustizia contro la politica, o viceversa, ha parecchie cause. Con la fine della guerra fredda e la disgregazione degli Stati comunisti è cominciata la stagione delle guerre civili, delle pulizie etniche, della criminalità senza frontiere, ma anche dei diritti umani, degli interventi umanitari, dei tribunali per i crimini di guerra: occasioni che molti magistrati hanno colto per annunciare il «regno della legalità» e promuovere se stessi al ruolo di sacerdoti di una nuova fede. Ma gli attacchi terroristici, soprattutto dopo l’11 settembre, hanno fornito ai governi l’occasione per rafforzare i tradizionali poteri dell’esecutivo, dal fermo di polizia all’abolizione di alcune garanzie conquistate negli anni precedenti. All’ondata pangiudiziaria degli anni Novanta (un’epoca in cui molti magistrati pensavano che tutto potesse venire risolto in un’aula di tribunale) è seguita un’ondata di riflusso durante la quale i governi hanno riconquistato una parte del terreno perduto. In queste lotte fra poteri è probabile che i magistrati, soprattutto in alcuni Paesi, siano stati avvantaggiati dalla crescente insoddisfazione della società per la «casta » che governa. La democrazia resta la meno peggiore di tutte le forme di governo possibili, ma non gode di buona salute né da questa né dall’altra parte dell’Atlantico. Queste sono riflessioni che conviene tuttavia lasciare ai sociologi e ai filosofi della politica. Ciò che maggiormente ci concerne è la constatazione che la guerra è molto più grave e politicamente cruenta in Italia di quanto non sia in altri Paesi comparabili al nostro. Ne conosciamo le ragioni. I politici hanno delegato ai giudici la lotta contro tre minacce – terrorismo, mafia, corruzione – che hanno insidiato la vita repubblicana degli ultimi trent’anni, e li hanno così implicitamente incoraggiati a uscire dal loro ruolo tradizionale. La piaga della corruzione ha infettato buona parte della società nazionale.