Carlo Bonini, La Repubblica 19/7/2008, 19 luglio 2008
Carlo Bonini per La Repubblica Ci si può girare intorno quanto si vuole, ma ora che la polvere degli arresti comincia a posarsi, è evidente che la chiave di questa storia, per ora abruzzese, è e resterà lui
Carlo Bonini per La Repubblica Ci si può girare intorno quanto si vuole, ma ora che la polvere degli arresti comincia a posarsi, è evidente che la chiave di questa storia, per ora abruzzese, è e resterà lui. Vincenzo Angelini. Il Grande Elemosiniere. E dunque: chi diavolo è davvero Vincenzo Angelini? Un bugiardo, un maligno e astuto mistificatore, che ha covato in silenzio una sapiente e artefatta vendetta, dicono gli uomini che da lunedì sono in carcere schiacciati dalle sue accuse. «Un chiamante in correità soggettivamente attendibile - scrive il gip Michela Di Fine - che si risolve a raccontare delle pressioni e minacce degli amministratori pubblici, delle dazioni di denaro che gli ha corrisposto, con una scelta sofferta, spontaneamente maturata (...)». Per ragioni che nulla hanno a che vedere con l´etica, ma con un calcolo costi-benefici. Angelini parla «quando si vede "scaricato"». L´alternativa secca, così come proposta dalle parti processuali, liquida la storia che è in mezzo e gli indizi che propone. Quella di un cinquantaseienne psichiatra di provincia che nella vita, a un certo punto, ha una fortuna e un´intuizione. Angelini ha ereditato dal padre Guido (cui è intitolato lo stadio della città) una clinica di Chieti, "Villa Pini". Una struttura piccola, che tale resta fino a quando non sposa Annamaria Sollecito, psichiatra come lui e, soprattutto, figlia di Antonino Sollecito, direttore sanitario dell´ospedale di Chieti. Improvvisamente, infatti, da quella struttura sanitaria pubblica, con la diagnosi di «disturbi psichici del comportamento», cominciano ad uscire legioni di pazienti per essere trattati in convenzione a "Villa Pini". A Chieti, prima, e presto in tutto l´Abruzzo, diventa un modo di dire: «Sei un tipo da villa Pini». I pazzi in quanto tali, ma soprattutto dichiarati tali, crescono con ritmi esponenziali e "Villa Pini" diventa un´altra cosa. Un gioiello di sanità privata alimentata da denaro pubblico. Un polmone che pompa centinaia di milioni di euro nella "Novafin", la cassaforte di famiglia, mentre le strutture raddoppiano e alla "Villa Pini" si affianca la "Sanatrix". Solo Vincenzo Angelini resta quello di sempre. L´uomo è afflitto - come racconterà anche a verbale ai magistrati - da una costante e invasiva forma di diffidenza per l´umanità che lo circonda, che sfocia spesso in paranoia. Del prossimo dice: «Ogni uomo ha un prezzo, bisogna solo stabilire qual è». Perché per misurare il prossimo usa se stesso e ciò che governa i suoi umori: il denaro. «Sono uno spendaccione, lo sanno anche in Tibet», dice ai pubblici ministeri che lo interrogano per giustificare goffamente 120 milioni di euro distratti negli anni dalle casse della "Novafin" e spesi o spostati chi sa come e chi sa dove (in almeno un caso, accertato dalla Procura, nelle piazze off-shore del Delaware e delle Cayman). Ma il "Tibet" come la passione per i quadri (raccolti in una collezione che si dice pochi hanno avuto il privilegio di contemplare) è un eufemismo che nasconde un rapporto con il denaro e la ricchezza parossistico. Per dire: finché non li lascia per trasferirsi nella vecchia casa al mare di famiglia, a Francavilla, abita 2 mila metri quadri di attico e superattico (settimo e ottavo piano) in viale Europa 5, cuore residenziale di Chieti, che trasforma in una fortezza di lusso ostentato. Almeno due berline con autisti all´ingresso, marmi di Carrara, vasca idromassaggio, giardino pensile. Al terzo piano del palazzo mette a vivere il suocero e ai vicini che, un giorno, chiedono il perché dell´arrivo di decine di telecamere e maxischermi di cui affolla il condominio, spiega che la sicurezza non è mai troppa. Intanto munge le casse del bilancio regionale per un´ottantina di milioni di euro, vantando crediti per altri 110. Angelini è ossessionato da telecamere, cimici, registrazioni nascoste. Ne riempie anche le sue cliniche, dove non c´è sussurro o passo del personale e dei pazienti che non venga scrutato. Arriva ad usarle con un prete "sindacalista" che incrocia nelle corsie. Conserva e registra metodicamente "a futura memoria" tutto ciò che ritiene possa tornare utile un giorno (contabili bancarie, numeri di cellulari riservati, come quello di Del Turco, scontrini autostradali, agende). Lo fa, appunto, con Del Turco, con Quarta. Con chi li ha preceduti. Con tutti coloro cui - dice - deve «baciare la pantofola», fare «l´uomo di dozzina». Anche se, per quel che oggi è agli atti dell´inchiesta, lo fa solo in parte, lasciando improvvisamente e curiosamente bui (nessuna registrazione, nessun video) i momenti chiave delle «dazioni» milionarie cui sarebbe stato costretto. In uno degli interrogatori, i pubblici ministeri chiedono spiegazioni di questo "vuoto". Soprattutto, domandano: «Come mai, non è venuto prima in Procura? Avrebbe risparmiato dei soldi e avrebbe lasciato fare il lavoro tecnico alla polizia giudiziaria». Angelini si smarca dicendo che lui è fatto così. Che neppure della Procura poteva fidarsi, perché «gli era stato detto che era in mano a quelli là», i potenti della Regione. E quasi lascia intendere che le foto alla casa di Collelongo, alle mazzette, potrebbero non aver esaurito il suo archivio. Ma, ora, forse sa anche lui che non è più padrone del gioco. La Procura gli era arrivata addosso quando ancora non lo immaginava e lo voleva dentro già con Del Turco. E se un giorno il gruppo dovesse fallire (da tre mesi nelle sue cliniche non si pagano gli stipendi), la sua sorte di bancarottiere è segnata.