Libero 17 luglio 2008, Mattias Mainiero, 17 luglio 2008
Antonio Martino. Libero 17 luglio 2008 Gli occhi. Lasciate stare le auto blu e gli aerei di Stato, le scorte e gli sprechi
Antonio Martino. Libero 17 luglio 2008 Gli occhi. Lasciate stare le auto blu e gli aerei di Stato, le scorte e gli sprechi. A volte i politici bisogna guardarli negli occhi. E allora si capiscono tante cose. Confesso: quando ho iniziato a scrivere quest’articolo mi sono trovato in difficoltà. Un ritratto senza un pizzico di veleno, una punta di novità, una curiosità inedita, non è un ritratto. un sorso di camomilla. Buono per conciliare il sonno. A me piacerebbe essere letto. Poi mi sono venuti in mente gli occhi di Antonio Martino, il professor Martino teorico del liberismo e allievo del premio Nobel per l’Economia Milton Friedman. Perché gli occhi? Perché su Martino è stato scritto tutto: ritratto completo dalla testa alla punta dei piedi. Tranne quegli occhi lì. Hanno scritto che è sposato con Carol, una signora svedese conosciuta nel Minnesota grazie alla quale oggi parla il miglior inglese della nostra politica. Che è stato ministro degli Esteri come il padre Gaetano e poi della Difesa. Che ha la tessera di Forza Italia numero 2. Prima il Cav, poi il professore. Hanno anche scritto che Martino è un eccezionale battutista e un grande conoscitore di aneddoti. Micidiale quella su D’Alema scrittore: « un coiffeur pour femmes: di comprare il suo libro non ci penso nemmeno. Del resto, in casa non ho sedie che traballano». una miniera, Martino, e sa essere autoironico come pochi politici, forse perché l’autoironia presuppone una buona dose di intelligenza e autostima, cosa di cui i politici abbondano, ma solo a parole. Sentite questa. I consigli del Premio Nobel Nel 1994 Berlusconi gli chiese di far parte del governo. Ovvio, la tessera numero 2 di Forza Italia non poteva restare fuori (e chissà perché oggi può). Martino rispose: «Se proprio devo, almeno dammi gli Esteri». Voi direte: naturale, padre ministro degli Esteri e figlio ministro degli Esteri. Solite storie italiane. Berlusconi, che alle dietrologie preferisce le domande, gli chiese: «Come mai?». «Perché il ministero è vicino a casa mia e ha un bel parcheggio». Folgorato dalla profondità delle motivazioni di Martino, il Cavaliere acconsentì. E fu così che l’economista preferito di Berlusconi evitò il Tesoro, superò il tormento interiore e non parlò di Friedman e della teoria del compromesso. In sintesi. Prima di accettare la proposta del Cavaliere, Martino aveva chiesto consiglio al suo maestro. Risposta secca di Friedman: «Come professore non hai ragione di scendere a compromessi, mentre in politica ti capiterà spesso. Ma il problema non è insolubile: puoi chiudere un occhio sui dettagli, non scendere a compromessi sui princìpi». E Martino, per chiudere solo un occhio e non tutti e due, scelse la Farnesina. Questione di coscienza. Solo che Martino, che è professore ed è stato anche preside della Luiss, si è specializzato a Chicago e ha scritto decine di saggi, preferisce raccontarla citando Adam Smith e l’’osservatore imparziale”. Terra terra, altrimenti sul serio rischiamo il colpo di sonno: un liberale vero è nemico di tutti i tiranni, ma ce n’è uno che può sopportare, uno solo, quella ”piccola voce silenziosa chiusa dentro di noi” (eccolo, Adam Smith). Questa voce è la nostra coscienza, che detta legge e non vuole scendere a patti. Che tiranneggia, appunto. E siccome la voce è un ”osservatore imparziale”, non c’è scampo: o la seguiamo e ci facciamo comandare oppure si va al Tesoro e non alla Farnesina mettendo un tappo in bocca all’osservatore. Raccontata con le parole non di Adam Smith ma della moglie Carol: «Mio marito ha una stranezza: porta contemporaneamente cintura e bretelle». Un modo come un altro per essere sicuro di non calare le braghe e di non tradire gli insegnamenti dei padri dell’economia. Egregi signori politici, fra una rassegna stampa e l’altra, leggete anche un po’ di Adam Smith, oppure seguite un corso di moda. Potrebbe essere un sistema per cominciare a risolvere qualche questione di casta. Comunque, opinione personale, il professore scelse la Farnesina innanzitutto per via del parcheggio e della vicinanza (abita sulla Cassia, in una casa tappezzata di foto del padre Gaetano in compagnia con i grandi del mondo. La Farnesina è proprio lì vicino). Perché il siciliano Martino, oltre che appassionato di economia e allievo di Friedman, è anche un gran cultore della comodità. nato a Messina nel dicembre del 1942. Giorno 22. Altri tre e avrebbe inguaiato il Natale a mamma e papà Martino. Anche l’anagrafe conferma: il professore è nemico della fretta. Non fa mai due cose per volta, se può andare piano non accelera il passo, se è stanco riposa. La leggenda, e non solo quella, racconta che a casa sua si può telefonare. Ma dopo le 16,30. Prima, il professore è impegnato in un’operazione di fondamentale importanza per qualsiasi cultore della comodità nonché meridionale doc: la pennichella quotidiana. Pennichella è termine che ha origini romanesche. «Viene dal verbo pendere. – spiegò una volta Giulio Andreotti che è riuscito a rispettare il sacro rito persino negli anni delle sue sette presidenze del Consiglio – in romanesco: pennere, cioè pendere il capo sul divano, perché la pennichella si fa lì sopra. Deve durare 25-30 minuti, non di più, per non alterare il ciclo del sonno. Se non la fai, la giornata prende una piega differente». Martino la fa, ma con qualche adattamento: al divano preferisce il letto, con tanto di pigiama. Berlusconi e il pigiama Potete immaginare i contrasti con il meneghino Berlusconi che dice di dormire tre ore a notte e fa quattro o cinque cose insieme (se non ha molto da fare). Contrasti insanabili. Tanto che una volta, ospite in Sardegna, Martino decise di porre fine al dibattito sulla pennichella e si presentò dal Cavaliere con un regalo: un pigiama a righe. Gian Antonio Stella la racconta così. «Grazie, - rispose Berlusconi – ma non ho il vizietto». Vizietto? Eh no, con tutta la stima e l’amicizia, questa proprio no. E fu allora che il professore allievo di Friedman tirò fuori la ”legge economica del richiamo marginale decrescente”. Non chiudete il giornale. Funziona così, molto semplicemente: «Se dieci ore complessive di sonno si fanno tutte in una volta, il riposo che si ottiene dall’ultima ora è poco. Se si fanno sei ore la notte e due di pennichella…». Il Cavaliere ascoltava, si presume scettico. E il professore piazzò la botta decisiva: la gallina israeliana. Ora il giornale assolutamente non dovete chiuderlo, altrimenti vi perdete il meglio: «Gli israeliani, sulla base dell’idea che alle galline non serva il cervello, le tenevano sotto illuminazione 24 ore al giorno per farle fare il doppio di uova. Non essendo io una gallina…». Fin qui Stella. Ma forse andò tutto in modo più veloce e diretto. Io la conosco così: Martino regala il pigiama e dice: «Chi ha il cervello deve farlo riposare». Berlusconi: «E allora io che dormo poco sono stupido?». Martino: «Non so, fai un po’ tu». Comunque sia andata, amicizie e stima rimasero immutate, come le posizioni sul riposino. Ovvio: la pennichella è la pennichella, caro professore, è la controra, il dolce calare delle palpebre, il caffè del risveglio. una carezza al cervello, una tradizione, una cultura che si tramanda. Queste cose appartengono al Meridione, al soffio del vento africano. Sarà pur vero che anche Churchill faceva il riposino. Ma lui è un caso a parte: sembrava un siciliano col sigaro. Non si esporta, la pennichella. Anche il migliore dei pigiami a righe nulla può sugli scettici settentrionali. E attenzione: la pennichella non è pigrizia. intelligenza, cura dei ritmi della vita. Vediamo se questa riesce a convincere gli insonni lettori settentrionali. Una volta Berlusconi, stufo di sentirsi dire che Forza Italia era un movimento di plastica, un po’ dittatoriale e senza libertà, decise di convocare un congresso. Martino gli scrisse: «Sbagli, perché tu avevi realizzato la ”tirannia pigra”, quella dove il tiranno è sì un tiranno, ma avendo l’animo gentile e pigro non esercita la tirannia e garantisce a tutti il massimo di libertà». Ora avete capitò cos’è la pennichella? Sicuramente no, ma non fa niente. Anche perché di queste storie sono pieni i ritratti di Martino, come dei suoi saggi, del suo inglese e dei suoi anni a Chicago con Friedman e George Stigler che lo hanno reso il più americano dei nostri politici, tanto che una volta Giuliano Urbani (questi professori litigano sempre col fioretto infliggendosi colpi di bazooka) sbottò: «Martino fa il tifo per il Chicago, che notoriamente non gioca nel campionato italiano». Storie note. Non a tutti, forse, ma a molti. Quegli occhi no. Ed è proprio degli occhi (ricordate?) che dovevamo parlare. Cinque anni fa, Roma, aeroporto di Ciampino. I giornalisti possono fare anche cose di cui poi si pentono. Era il giorno dell’arrivo dei Caduti di Nassiriya. Il C 130 che trasporta le salme sta per toccare terra. C’è folla, all’aeroporto. Parenti delle vittime, amici, autorità civili e militari. C’è Berlusconi e al suo fianco il ministro della Difesa Martino. Troppa ufficialità. Il dolore è lì, in quella saletta riservata e inaccessibile agli estranei, tra le mamme, le mogli, le sorelle. Una saletta guardata a vista da un nugolo di agenti e carabinieri. Pentirsi è dir poco. Ma come ricordò una volta Martino, e come prima di lui dicevano i latini, ”quod factum est infectum fieri nequit”. stato fatto, non si può disfare. Il ministro e il generale Riesco, non so ancora come, ad entrare nella saletta, abusivo al centro del dolore. Entrano anche Berlusconi e Martino. I parenti sono in fila. Presidente e ministro li salutano, stringono le loro mani. Lo confesso: strinsero anche la mia mano. Ci guardammo, forse loro intuirono. Altro che pentirsi e vergognarsi. Volevo sprofondare. Ma dovevo recitare la parte. Chiedo scusa mille volte a chi si sentirà offeso. Allungai la mano. Era rosso in volto, Martino. Parlava. E aveva gli occhi lucidi. E pianse prima, durante l’incontro con il generale Alberto Ficuciello, padre di Massimo, 35 anni, tenente dell’esercito, il primo dei Caduti ad uscire dall’aereo in quella bara avvolta dal Tricolore. Stringe la mano dell’amico generale, la mano di un padre che ha perso il figlio e al quale, al di là delle lacrime, nulla si può offrire. Piange e il volto gli diventa paonazzo. Questo è Antonio Martino. Sono quegli occhi là, quell’animo ferito, è quella voce silenziosa che lo tormentava dentro, quell’osservatore imparziale che gli diceva che aveva agito correttamente, ma che erano morti in tanti. Quod factum est infectum fieri nequit, caro professore. E purtroppo questa è come la storia della pennichella. Non si esporta. dentro di noi. E del resto ci sarà pure un motivo per cui la casta, insensibile a tutto, resta casta. Con qualche eccezione, che vi racconteremo nelle prossime puntate sulle fiamme azzurre bruciate. A volte bruciate per un’elezione persa e un trionfo affrettato. E non per colpa propria. Una storia con qualche inedito. Mattias Mainiero