Libero 17 luglio 2008, Renato Farina, 17 luglio 2008
Del Turco, un potente nell’abisso. Libero 17 luglio 2008 Sulmona, carcere. Le lenzuola sono scostate e c’è uno straccio azzurro, forse un asciugamano
Del Turco, un potente nell’abisso. Libero 17 luglio 2008 Sulmona, carcere. Le lenzuola sono scostate e c’è uno straccio azzurro, forse un asciugamano. Pane sbocconcellato sul tavolino, libri. Ma Ottaviano Del Turco non si vede. La cella è vuota, dico. Il direttore si tocca gli occhiali alla moda di Gramsci e trattiene un sobbalzo. Non si pensa da queste parti che uno sia scappato, ma sia morto, si sia soffocato, si sia bucato le vene sul bugliolo nascondendosi un metro lontano. Qui è reparto isolamento, alta sicurezza. La guardia ci raggiunge e dice: «Passeggia». Dietro l’angolo, circondato da quattro agenti vestiti di azzurro, avanza quest’uomo caduto nell’abisso. Era il re d’Abruzzo. Muove le gambe piano. La Lacoste azzurra è linda. Le scarpe sono color panna, di pezza, senza stringhe. Vede me, che lo conosco da una vita, e vede l’antico compagno di partito socialista Giancarlo Lehner. Due deputati in visita. Lui mi dice: «Ciao Farina». Poi gli viene da piangere ma si trattiene. Gli occhi verdi gli pizzicano di lacrime che nasconde, la voce di un arrestato non è mai quella di prima dell’arresto, ma lui la tiene su di tono. Dice subito: «Amico, amici. Tu Farina occupati se puoi di mio figlio Guido. Digli che mi difenderò, combatterò. Queste accuse sono così fa…». Interviene il direttore. «Non si può, non si può». Fa come fasulle, false, fantasiose? Di certo non ha intenzione di confessare alcunché. Lehner, che è una vecchia volpe craxiana, mi spiegherà che ha capito da quella sola parola che intende dare un’altra interpretazione delle 400 e passa pagine di accuse. Il patto è: nessun accenno al caso giudiziario. Ogni volta che scappa una parola il dottor Sergio Romice si picchia sul petto, come dire: mi mettete in croce, e ci fermiamo. «era luglio» Lui racconta: «Siete venuti a imparare la vita del carcerato? Ho visto incarcerare molti compagni, ma quando si fa esperienza è diverso, accade qualcosa di impensabile. Io ho immediatamente pensato a Gabriele Cagliari». Il direttore si spaventa: «Guai, non è il suo caso». Del Turco: «Era luglio, il luglio del 1993, un caldo come quello di oggi. E lui si uccise. Si uccise perché un pubblico ministero gli aveva mentito promettendogli la libertà e poi negandogliela». In questi casi ci sono le solite parole, le eterne parole che si dicono quando si va a un funerale, e muore la mamma, il marito, il figlio. Così a un carcerato che in un istante è piombato dal vertice del potere e le accuse sono infami, e chi è in isolamento non può dire una parola. Coraggio, il peggio è passato, fatti forza, pensa ai tuoi cari, se hai bisogno di qualcosa sono qua, c’è tanta gente che ti vuole bene. Ma queste parole così uguali a tutte le altre volte, che anche Del Turco avrà ripetuto nelle visite alle carceri quand’era ministro e presidente della Commissione Antimafia, servono, sono le poche cose umane che esistano. Ride, anche: «Ho scoperto solo oggi che avevo diritto all’ora d’aria, a passeggiare un po’. Vieni, accompagnami. L’isolamento non è duro in se, qui sono gentili, affabili. Il non sapere niente, il pensare di non avere diritti provoca uno spaesamento assoluto. Un altro è il tuo padrone. Ma la coscienza, quella…». pera era più triste Il cortile è come quello dei film. Saranno dieci metri quadri. Pareti di cemento armato altissime. Il cielo su è azzurro, e non c’è afa in questo pomeriggio così sereno e calmo. Dice: «Mi è venuto da mimare il gesto dello squash, tirare una pallina contro la parete e riprenderla. Ma non ho mai fatto sport, e la mancherei». Si scherza su quando toccherà a me e a Lehner. Il direttore: «Ma per carità». Del Turco è contento che ridiamo insieme. Del Turco sostiene di aver provato a far sorridere anche Marcello Pera, l’ex presidente del Senato in visita ieri: «Ma non ha spirito dell’umorismo, era più triste di me». Ha gradito molto anche il fatto lo sia venuto a trovare Pierluigi Mantini, un fior di garantista del Partito democratico. Lehner a questo punto racconta a Del Turco crudelmente come l’organo del suo partito (il carcerato è esponente dei Democratici) abbia a titoli cubitali spiegato che i magistrati avevano arrestato per tangenti un socialista, non il capo di una giunta rossa, un compagno democratico. Il commento è: «Ci hanno sempre trattato così noi socialisti, quella gente: dal 1921. Ma non voglio occuparmi di sciacalli. Chissà quanti ce ne sono fuori, vero?». Io mento e gli dico che sono più in solidali, gli amici, quelli che non ci credono. Mi dice: «Appena uscirò ci faremo una grande mangiata al Bolognese (un ristorante romano, ndr), vero?». Io: «Certo». Leggi? «Finalmente mi hanno dato un po’ di libri. In un primo momento la suora mi aveva portato un libro di Madre Teresa. Una grande santa, la stimo tanto: ma i suoi libri non sono il massimo». Gli chiedo ancora crudelmente del momento dell’arresto, se c’è stato un comportamento corretto: «Nulla da dire. Mio figlio è corso a casa. Voleva vedermi. Io ho fatto dire al colonnello di risparmiargli questa vista. Non deve preoccuparsi per me, ho forza e buone ragioni. I militari per prima cosa mi hanno detto di non abbandonarmi a gesti disperati. Sono stati molto gentili. In cella mi hanno tenuto aperto la porta mentre facevo i miei bisogni e mi hanno tolto lo specchio perché non lo usassi come arma contro me stesso. Mi sono dovuto radere alla cieca ieri. Ora ho la barba lunga. Ho letto tutta l’ordinanza. Meno male che l’ho letta: è interessante…». i soldi non ci sono Vorrei dirgli che è molto interessante. Ma per gli accusatori. Deve avere qualche carta per ribaltare il banco. un fatto che non hanno trovato un soldo: come un omicidio senza il cadavere… Racconta del Fucino, ormai popolato di marocchini: «Forse sono miei parenti, del resto mia moglie è di Casablanca». Gli do una medaglietta della Madonna, quella di Rue du Bac, Parigi. «La prendo, c’è già un dipinto della Vergine. A proposito qui ci sono un sacco di pittori, anche bravi». vero. Il direttore ci aveva mostrato i laboratori dove gli ergastolani (qui sono 60 su 360 detenuti) pitturano le pareti, gli stemmi, i piatti, i confetti. Il ritratto più frequente è quello di Padre Pio. Poi viene Gesù coronato di spine. Al terzo posto donne che porgono il seno ai piccini. Gli dico: «Cossiga appena saputo del tuo arresto ti ha difeso e ha detto: un grande pittore…». Del Turco ridendo: «Lo dice sempre. Lo fa per non affermare che sono un cattivo politico». Lehner, l’ultimo dei craxiani, gli fa promettere che quando sarà fuori andranno insieme sulla tomba di Bettino ad Hammamet. «Sì, verrò». Passa in fretta mezz’ora d’aria. Si torna in cella. Mi fa il gesto di accomodarmi, come se fosse la nuova piccola reggia. Si sente in fondo un re, detronizzato, inabissato, ma re: « uno scandalo che dinanzi ai tagli di Tremonti e al dissenso dei venti presidenti di Regione, il Partito democratico non abbia fatto sue le proteste. Anche Formigoni è contro. Io…». Poi si ricorda dov’è. Lo precedo. Sostiene: «Sono stato all’Ucciardone come presidente dell’Antimafia. Lì i boss sono signori. Ma sono signori dell’Inferno. Quel carcere e tanti altri sono un inferno. Questo è il Paradiso. Guarda che pulizia. Io sono disordinato, non prevedevo visite». Vedo i libri. Gadda (’Er pasticciaccio brutto de via Merulana”), le poesie di Pasolini, ”La condizione umana” di Mauriac, ”Il sillabario n.2” di Goffredo Parise. E poi il volumone di Hemingway dei Meridiani Mondadori. «Spero mi duri fino a sabato». Mangia? «Abbastanza. Si mangia anche bene. Oggi pasta coi piselli, poi prosciutto con spinaci. Non devo mangiarne troppo, sono a dieta…». Vino? «Non posso». Il direttore: «Ma no, può comprarlo, anche la birra, mezzo litro al giorno». «Toh, non lo sapevo, quanti diritti scopro di avere. Ora devo prepararmi a combattere». mi raccomando guido Eravamo arrivati da Roma in questo Abruzzo assolato, intorno al carcere mais, noci, ulivi. Un sole lancinante. Dentro tutto pulito, un solo mozzicone per terra nei chilometri di corridoio percorsi. Non c’è neanche l’odore di urina e di minestra cattiva di San Vittore e di Rebibbia. Forse si sente di più il vuoto che ha fatto dire a un ergastolano mentre passavamo: «Meglio la pena di morte». Dormi di notte? «Mi alzo per bere, mi viene un’arsura. Prendevo anche prima il Tavor. Perché sono ansioso, ho sempre paura di arrivare in ritardo agli appuntamenti e di far aspettare la gente. Adesso non ho appuntamenti». Vicino alla sua cella, anche lui in isolamento, c’è un americano a torso nudo, con gli occhiali e lo sguardo da pazzo. Sento ancora: «Mi raccomando Guido». Renato Farina