Lothar Gorris, La Stampa 16/7/2008, 16 luglio 2008
Tour de France, doping, eroi e gregari Il ciclismo visto da un filosofo innamorato La Stampa, mercoledì 16 luglio 2008 Peter Sloterdijk è un innovatore del pensiero filosofico tedesco con l’hobby della bicicletta
Tour de France, doping, eroi e gregari Il ciclismo visto da un filosofo innamorato La Stampa, mercoledì 16 luglio 2008 Peter Sloterdijk è un innovatore del pensiero filosofico tedesco con l’hobby della bicicletta. Due anni fa ha scalato in bicicletta il monte Ventoux, che con i suoi 1.900 metri è uno dei miti del Tour de France. Perché questa impresa? «Forse per dimostrare che chi si avvicina ai 60 anni non è ancora un ferro vecchio. La necessità di fornire questa prova era acuta in me: abbiamo una percezione intuitiva del lasso di tempo complessivo della nostra esistenza e, nonostante la leggerezza innata che ci aiuta a non prendere sempre sul serio il passare del tempo, nella nostra esistenza ci sono punti di cesura in cui si crede di riconoscere questo cadere nel vuoto. Il passaggio dei 60 anni è una di queste cesure». Quanto tempo ci ha messo? «Qualcosa come due ore e mezzo. Va detto che il Ventoux possiede un’aura molto bizzarra e poco affidabile. Una volta superato il confine con la vegetazione si finisce improvvisamente in un paesaggio lunare. I ciclisti del Tour, naturalmente, non percepiscono nulla di tutto questo perché sono acciecati dalla fatica e dallo sforzo. Noi dilettanti, invece, avevamo un’andatura così lenta da sentire costantemente quest’atmosfera. Passando poi davanti alla lapide per il povero Simpson, che è spirato qui nel 1967 proprio poco prima di raggiungere la vetta, per qualche istante capita anche di riflettere sul senso della vita». Affrontando il Ventoux si riesce ad avere un’idea di ciò che prova un professionista di questo sport durante questa scalata? «Anche di più. Si comprende che le prestazioni di questi signori superano tutto quello che i comuni mortali riescono a percepire. Ricorda quasi uno studio teologico. C’è bisogno del primo grado di iniziazione per comprendere che non si è compreso nulla. Gli scritti più ricchi di spiritualità che sono stati dedicati al Tour appartengono a Roland Barthes che ha sviluppato una vera e propria teologia del ciclismo. Nel suo saggio sull’epica chiamata Tour de France c’è un passaggio nel quale descrive il Monte Ventoux come un dio del male, che chiede vittime sacrificali. Barthes paragona gli eroi del ciclismo ai guerrieri dell’Iliade di Omero. Secondo Barthes, tra i corridori del monte francese si ripete lo stesso duello atavico che ci fu tra Ettore e Achille. Sul piano sono tutti in grado di lottare, ma soltanto chi arriva alla cima più difficile, ed è ancora nelle condizioni di poter affrontare un duello, è Ettore oppure Achille». Barthes scrisse di doping già in Miti d’oggi del 1957. «Ai suoi occhi l’uso del doping era imperdonabile perché rappresentava una profanazione. Barthes giocava con il pensiero che la forza con cui il ciclista riesce a dominare i passaggi più duri della gara non venisse da lui soltanto». Bensì anche dagli dei? «Ecco. Sì, qualcosa di questo genere. Qualcosa come uno scatto reverenziale come quello che abbiamo visto compiere da Lance Armstrong, durante la tappa dei Pirenei nel 2003, quando il suo manubrio restò impigliato in uno spettatore e lo fece cadere. A soli undici chilometri dall’arrivo. E a quel punto accadde quello che, mezzo secolo prima, Barthes aveva chiamato il "Jump", vale a dire un improvviso colpo di energia che permise ad Amstrong di attaccare ancora una volta, con la stessa furia di Achille. Questa carica lo spinse sulla vetta, davanti a tutti gli altri concorrenti». Era dopato? «Come tutti gli altri. Ma in questo contesto non conta proprio nulla. Il "Jump" era autentico. Tra parentesi, si capisce bene perché Barthes vedesse un sacrilegio nel doping: per lui era come se a dio fosse stata rubata la prerogativa della scintilla magica. Che Barthes avesse ragione è stato dimostrato l’anno scorso al Tour de France. Improvvisamente i veli sono spariti mettendo a nudo tanti proletari della bicicletta alle prese con un lavoro dubbioso. Niente più guerrieri. Niente più poesia. Solo tanti vuoti addetti ai lavori, specializzati in pedalate, arrampicate e scatti. Infastidisce ancora di più il volgare commento rilasciato da un ex campione del Tour de France come il danese, Bjarne Riis, che una volta smascherato il suo uso di sostanze dopanti disse: "la mia maglia gialla sta in un cartone in garage. Andate pure a prenderla"». Le ha fatto male sentire questa frase? «Non avrebbe mai dovuto essere stata pronunciata. Esprime il nichilismo danese. Così parlano gli ultimi degli ultimi nella peggiore delle volgarità. Un tempo, il grande ciclista era un niciano da ammirare mentre dominava la forza di gravità per diventare un Superuomo. In quel momento Bjarne Riis era solo il Pseudouomo. Persino il simbolo del suo più grande successo contava per lui meno di niente. Si capisce che per lui non è mai esistita una dimensione elevata, questo senso dell’onore». Pensava di vedere Ettore e Achille sorretti dagli dei e invece erano soltanto Bjarne Riis e Jan Ullrich, probabilmente aiutati dall’epo. deluso? «Non proprio. Da quando io stesso vado in bicicletta ho capito che è praticamente impossibile non essere dopati dovendo i ciclisti professionisti sostenere una prestazione media di 280 watt con punte che arrivano a 450 watt e più. Senza sostegni chimici è una fatica difficile da reggere anche psicologicamente». Bisognerebbe consentire il doping? «Sarebbe plausibile ma è anche del tutto impossibile. La scelta è tra due ipotesi improbabili come succede per ogni dilemma difficile. In pratica lo scenario odierno del mondo del ciclismo, e in genere quello degli sport ad alta prestazione, ricorda la volta in cui i primi cristiani rovinarono ai romani la gioia che provavano per i loro orrendi giochi. Mi sembra che oggi si debba andare a pescare proprio in questo tipo di analogie. L’opposizione dei cristiani ai giochi romani si protrasse per diverse centinaia di anni, però alla fine la spuntarono i cristiani. E i giochi sparirono. Oggi non è il cristianesimo a disturbare i giochi bensì la religione della salute e il suo clero di medici, ma l’effetto è lo stesso. Oggi è la Germania al centro di questa reazione ai giochi, un Paese in cui non è più consentito doparsi e dove tutti gli sportivi devono diventare dei protestanti dell’igiene». In Italia e Spagna non c’è molta considerazione per la lotta anti-doping condotta in Germania. «Sono Paesi in cui la tradizione cattolica dell’allegra autodistruzione fa parte della cultura popolare. Gli italiani semplicemente non riescono a concepire che quassù, nei territori del Nord, ci sono di nuovo dei barbari protestanti che provocano disordini. Credono che siamo diventati pazzi. Gli italiani e gli spagnoli appartengono a una cultura in cui la scissione dell’apparire dall’essere fa parte della metafisica popolare. I tedeschi invece, e in particolare i protestanti, vogliono di nuovo portare in primo piano le parole e le cose. Noi siamo, penso, l’unica nazione al mondo capace di credere in un nuovo inizio, sincero. Nel 1945 siamo diventati democratici, nel 2007 siamo diventati liberi dal doping». Lothar Gorris Copyright Der Spiegel