Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2008  luglio 17 Giovedì calendario

Modi per nascondere i soldi della corruzione

La Stampa, giovedì 17 luglio La sporta con le mele (marce) è la più scintillante delle novità all’italiana, per questo genere di transazioni. Eppure desta stupore relativo, in un Paese che ha visto utilizzare, per analoghe miserie: pouf del salotto, oscuri sottoscala, scaldabagni, bagni, water, confezioni dei cioccolatini, fantomatici sacchi di iuta, quadri alle pareti, scatole delle scarpe, e ovviamente le mutande. Quelli che i soldi se li sono messi nelle mutande, per non farsene accorgere. Si possono nascondere in tanti luoghi, ma anche tanti modi, le «dazioni» - come da involontario neologismo dell’allora pm Antonio Di Pietro. Tutti illustrano una particolare meschinità, che unita com’è alla prosaicità del gesto («”a Renà , te stai a scordà questa», narrò Stefania Ariosto sui rapporti di Cesare Previti con Squillante), lo arricchisce di una qualche inventiva, ne mette in ombra l’aura criminale, consegnandolo alla dimensione di simbolo. Dimmi come occulti la mazzetta e ti dirò chi sei. Secondo Vincenzo Angelini, l’accusatore di Ottaviano Del Turco, lui portava i soldi al governatore e quello gli metteva nella sporta della spesa quattro mele, «perché sennò chi è fuori capisce». Vero o falso che sia, perché nel frattempo i soldi non si trovano, si può intanto almeno registrare la fantasia del testimone, che già racconta tutto un mondo. E allora, soffuse gentilezze che mitigano l’asprezza della corruzione, schietta paesaneria che può far apparire meno anormale il trasferimento di denari, soldi veri o spariti nel nulla, accanto a confessioni più o meno fantomatiche, testimonianze da rivedere, luoghi mai più ritrovati... Di De Lorenzo, re della sanità e simbolo di Tangentopoli, qualcuno disse che per disfarsene aveva nascosto duecento milioni nei cassonetti dell’immondizia. Non era l’epoca in cui li bruciano per le strade, così qualcuno ci andò subito a rovistare: non trovando niente perché i soldi non c’erano mai stati, lì. Qualcosa di originale però aveva inventato, ”o ministro, attendendosi l’imminente visita della Finanza: la rimozione di documenti compromettenti attraverso bollitura, in cucina, assieme al fido segretario. Sì, nel Pentolone: rito sabbatico, De Lorenzo ci bruciava dentro carte contabili della corruzione, mentre i familiari lo assistevano gettandone altre nei water dei bagni di casa. Non sempre la mazzetta da occultare ha dato luogo a simili notti di Valpurga; spesso però la miseria all’italiana ha portato, non solo metaforicamente, al cesso. Diceva sempre Di Pietro che Enzo Carra - famoso per l’arresto con gli schiavettoni ai polsi - gli confidò «guarda nei bagni», versione all’italiana del «follow the money» del Watergate. E quando arrivò ai Lavori Pubblici, Tonino denunciò di aver trovato nella toilette riservata al ministro una strana cassaforte installata da un suo predecessore, Giovanni Prandini. L’ingegner Mario Chiesa, da cui partì l’inchiesta di Tangentopoli, tentò inutilmente di farla franca scaricando un certo numero di milioni - chi dice 7, chi 37 - appunto nella tazza del bagno del Pio Istituto Trivulzio. Analoghe pratiche furono attribuite a Walter Armanini, ricordato anche come amante di Demetra Hampton. Dario Fo se ne entusiasmò a tal punto che ci fece uno spettacolo, in cui il Mario Chiesa finto gettava tanti di quei soldi nel wc da otturarlo, fino a che arrivava un poliziotto con lo scopettone ed esclamava: «Ingegnere, lei è proprio nella merda». Emerge qualcosa di intimo, e a tal punto privato, in queste dazioni, che c’è chi se le mette nelle mutande: fecero epoca tre consiglieri dc romani di Primavalle, primi Anni Novanta, inseguiti dalla polizia coi soldi negli slip ma anche le più strampalate millanterie: Igor Marini, leggendario superteste nel caso Telekom Serbia, arrivò a sparare che la tangente in questione fu portata su un piper, in sacchi di iuta, con un guerrigliero serbo di guardia, «una delle tigri di Arkan». Bum. Il racconto mirabolante fa coppia con le truffaldinerie da salotto rosa in tutti i sensi, come il pouf di velluto davanti alla tv dove la moglie di Duilio Poggiolini nascose dieci miliardi di cct. Il resto - 200 miliardi di lire tra monete, medaglie, lingotti, diamanti - era più convenzionalmente in una cassaforte in cantina, e nel retro di alcuni quadri. C’è un contrasto che stride tra la loscheria e gli oggetti quotidiani di cui si serve, perché al male saremmo portati ad attribuire una qualche grandezza, che si scopre quasi sempre non avere, a contatto con la più routinaria quotidianità. Maurizio Gasparri ancora oggi accusa Di Pietro per un prestito di cento milioni ricevuto da D’Adamo e restituito dove? Dentro una scatola di scarpe. Vito Bonsignore fu assolto dall’accusa di aver ricevuto 250 milioni di lire dove? In una scatola di cioccolatini. Pochi, ingiustamente, sanno chi ne fu inventore: Adriano Zampini, faccendiere, nell’81 a Torino. Fu lui a rivendicare di aver creato la scatola di gianduiotti coi milioni nel sottofondo. «Non me li ha mai rispediti indietro nessuno», raccontò. «Solo un geometra del Consorzio agrario mi rimandò le banconote. Però si tenne i cioccolatini». Che erano buoni. Importante è, in fondo, anche che le mele non siano marce. Jacopo Iacoboni