Francesco La Licata, La Stampa 17/7/2008, pagina 2, 17 luglio 2008
La Stampa, giovedì 17 luglio Gli scandali della politica italiana sono sempre stati scanditi dall’invettiva popolare, e talvolta populista, contro quello che l’immaginario collettivo considera il più impresentabile dei privilegi della «Casta»: l’immunità parlamentare
La Stampa, giovedì 17 luglio Gli scandali della politica italiana sono sempre stati scanditi dall’invettiva popolare, e talvolta populista, contro quello che l’immaginario collettivo considera il più impresentabile dei privilegi della «Casta»: l’immunità parlamentare. Fino alla reazione, clamorosa, della riforma costituzionale che abolì l’immunità, 1993, sull’onda dello sconvolgente terremoto provocato dall’inchiesta ”Mani pulite” dei giudici di Milano. Uno strappo violento, il clima di una vera e propria rivolta dal difficile controllo, Bettino Craxi che fugge dall’hotel Raphael insultato e coperto da monetine: questi i presupposti che avviarono la strada verso l’abolizione. Tangentopoli imperversava dal febbraio 1992 e il braccio di ferro parlamentare contro il governo del Caf era carbone ardente. Fioccavano gli avvisi di garanzia con la stessa cadenza con cui i giornali affastellavano scoop quotidiani. Il governo Ciampi aveva giurato alla fine di aprile, nominato sull’eco delle bordate cossighiane che avevano provocato la caduta del precedente esecutivo. Il Parlamento affronta la questione della richiesta dei giudici di Milano su Bettino Craxi e, come nella tradizione parlamentare, nega l’autorizzazione all’arresto. La rivoluzione comincia in Aula con la Lega Nord che definisce «ladri» i parlamentari favorevoli a Craxi. Chiedono l’abolizione dell’immunità-privilegio Bossi, Maroni, Castelli, Fini, Gasparri e La Russa. Anche da sinistra, non scherzano. Il segretario del Pds, Achille Occhetto, sceglie piazza Navona per lanciare il suo anatema, mentre viene ritirata la delegazione governativa: Barbera, Visco e Luigi Berlinguer, più il verde Francesco Rutelli. Gli studenti vanno in corteo in piazza Colonna e alla sede del Psi di via del Corso, mischiati a militanti della Lega. Da quel momento viene segnata la fine del «privilegio», cancellato da una delle riforme costituzionali più veloci della storia repubblicana. La politica si piega al momento storico: un lavoro parlamentare certamente agevolato dal consenso del presidente della Camera, Giorgio Napolitano, interprete dell’autocritica di un potere in seria difficoltà d’immagine. Eppure erano assai diversi i presupposti che, dopo la guerra e la Liberazione, avevano indotto i costituenti ad introdurre (1948) l’istituto dell’immunità. Sotto la spinta antifascista, si trattava di strappare il giovane Parlamento republicano alle residue tentazioni autoritarie di una magistratura fino a poco tempo prima completamente condizionata dal regime. Singolare coincidenza, dunque, anche la nascita dell’immunità, oltre che l’abolizione, risente dell’influenza dell’attuale Capo dello Stato, che non fu tra i costituenti ma aveva voce come dirigente del Comitato di Liberazione. Non si può dire abbia riscosso consensi, nel corso degli anni, l’immunità per i parlamentari. Qualche dato può aiutare a capire il perchè: nelle prime cinque legislature le autorizzazioni si contavano con le dita delle mani. Poi sono aumentate le richieste: il picco più alto proprio nel 1993 che ha fatto registrare 233 richieste e 76 concessioni. Ma anche in presenza dell’autorizzazione, quasi mai le inchieste hanno conosciuto successo. E’ il caso di Giorgio Almirante, accusato di ricostituzione del partito fascista (1973), immunità negata ma processo insabbiato. Stessa sorte per i reati politici dell’ex parà Sandro Saccucci. Autorizzazione all’arresto per cospirazione, ma le sue tracce si perdono in Spagna. Storie meno cruente ricordano Pannella chiedere il processo per diffamazione contro il socialdemocratico Luigi Preti (1976) che lo aveva definito «fiero difensore dei pederasti». Peggio andrà, negli Anni Duemila, a Giulio Andreotti chiamato in causa non più dalle indagini su mafia e politica, ma da un giudice - Mario Almerighi - offeso da alcune dichiarazioni. La giunta nega l’autorizzazione, ma la Corte Costituzionale casserà la decisione sottolienando che le dichiarazioni del senatore non rientravano nell’ambito delle prerogative parlamentari. Almerighi, poi, ha vinto la causa. L’autorizzazione concessa al processo per mafia del senatore è cronaca fresca: autorizzazione richiesta dalla stesso Andreotti, un’assoluzione e una prescrizione. Ciò che, invece, colpisce è il cambio di «visione» dei politici, a seconda del momento. Ecco cosa scrisse Gianfranco Fini al procuratore Saverio Borrelli, all’indomani del «salvataggio» di Craxi:«Lo sdegno e l’amarezza che pervadono la Nazione di fronte allo scandaloso verdetto di autoassoluzione che il regime si è confezionato sono da noi interamente condivisi». Francesco La Licata