Francesco La Licata, La Stampa 14/7/2008, 14 luglio 2008
Se fosse un romanzo - direbbe Carlo Lucarelli in una delle sue puntate di Blu Notte - la parte più recente della storia di Massimo Ciancimino, figlio prediletto di don Vito, ex sindaco dc di Palermo condannato per mafia anche in Cassazione, potrebbe essere titolata così: «La metamorfosi del figlio del boss»
Se fosse un romanzo - direbbe Carlo Lucarelli in una delle sue puntate di Blu Notte - la parte più recente della storia di Massimo Ciancimino, figlio prediletto di don Vito, ex sindaco dc di Palermo condannato per mafia anche in Cassazione, potrebbe essere titolata così: «La metamorfosi del figlio del boss». Le ha conosciute tutte, l’ancor giovane Massimo, le tappe di una vita spericolata prima per dedizione filiale ed oggi, oggi che don Vito se n’è andato da sei anni, altrettanto traballante per il peso dell’eredità di un nome che è marchio indelebile. Un marchio che gli fa dire con amarezza - dopo aver imposto al figlioletto (quattro anni) il nome del padre, Vito Andrea - che «è il cognome da cambiare, non il nome di battesimo». La metamorfosi, appunto. Quante avventure, nei 44 anni vissuti alla grande, quando era figlio di papà nella Palermo dei salotti buoni, sul filo del rasoio quando divenne «quasi per automatismo» il custode della battaglia giudiziaria (perdente) di don Vito, politico col marchio della mafia corleonese, collettore degli affari della «Palermo Felicissima» degli Anni Sessanta, Settanta ed Ottanta. Ma la fase più pericolosa della metamorfosi, Massimo, la sta vivendo adesso. Ora che gli è venuto meno il «parafulmine», cioè il padre capace di attirare su di sè le attenzioni della magistratura ed eventuali risentimenti degli «amici» ed ex «amici» a volte delusi per certi comportamenti. Oggi il giovane Massimo è come un pesce senza acquario. E’ stato condannato in primo grado per una vicenda di soldi legati al business dell’approvvigionamento energetico (il gas dell’Est), rimane sospettato di maneggiare il famigerato «tesoro» del padre (lui nega decisamente) ed è in bilico sotto l’accusa di essere persona socialmente pericolosa, «anche se - dice il giovane Ciancimino - questa accusa non poggia sul presupposto della mafiosità, essendo stato completamente scagionato da ogni sospetto». Eppure non sembrano i guai giudiziari - che pure pesano - l’assillo del figlio di don Vito. Inutile sottolineare che questo tipo di inquietudini possono arrivare soltanto da vicende che coinvolgono la mafia e un certo mondo, anche simil-istituzionale, che le gira intorno. Il fatto è che Massimo fu protagonista, nel 1992, di una trattativa tra lo Stato e Cosa nostra. Fu lui a convincere il padre ad accettare un contatto coi carabinieri del Ros, disorientati di fronte al micidiale attacco stragista della mafia. La trattativa ebbe sviluppi altalenanti, poi si arenò ma i carabinieri portarono a casa un risultato niente male: la cattura di Totò Riina. E così adesso il giovane Massimo sta costantemente nei ricordi di tanti «bravi ragazzi», in carcere e fuori, che ogni tanto gli dedicano un pensiero. Persino don Totò in persona, in uno dei numerosi processi che lo riguardano, ha sentito la necessità di prendere la parola per indicare alla Corte l’esistenza di un testimone che «stranamente» non è mai stato sentito da nessuno: Massimo, appunto. E che la mafia non soffre di amnesie è dimostrato da recenti avvenimenti. Uno strano pedinamento che risale a venerdi 27 giugno, quando Massimo Ciancimino arriva a Palermo col volo Meridiana per il weekend di San Pietro e Paolo. Lo va a prendere la moglie col figlio, Vito Andrea, e si dirigono in città. Ad un certo punto Ciancimino nota due uomini su una moto che non lo perdono di vista e si alternano con altri due su uno scooter. Gli viene in mente che la moto azzurra l’ha già vista sotto casa sua, in città. Fa scendere moglie e figlio e continua da solo con lo sguardo incollato sullo specchietto. Ne aveva ricevute, minacce, il figlio di don Vito: lettere, biglietti, telefonate. Inviti a dedicarsi alla crescita dei propri bambini, senza «immischiarsi in altre cose». Il riferimento va alla svolta più recente della metamorfosi. Ciancimino è stato sentito dai magistrati di Caltanissetta sulle stragi di Falcone e Borsellino, ha accettato di rispondere ad alcune domande sul ruolo avuto dal padre nella trattativa e sulla cattura di Totò Riina. Ma poi è stato chiamato anche dai magistrati di Palermo che continuano a chiedergli risposte sul famigerato «papello», l’elenco delle richieste inoltrato dalla mafia allo Stato per far tacere gli artificieri di Cosa nostra. Ma gli chiedono anche chiarimenti su tutto quello che è stato il sistema di potere del padre: trent’anni di borghesia mafiosa prestata agli affari e a Cosa nostra. No, non è considerato un pentito, Massimo Ciancimino. Anche perchè era troppo piccolo all’epoca, per commettere reati da «sanare» con una successiva collaborazione. E infatti è sentito come teste, testimone oculare sugli intrecci paterni. Da oggi, però, sarà sentito fuori da Palermo. La città non è più sicura: una delle targhe delle moto che lo seguivano, infatti, è risultata rubata e ciò ha messo in allarme i magistrati che hanno inviato una segnalazione al Comitato provinciale per la sicurezza, organismo che può decidere sulla concretezza delle minacce. Sarebbe l’epilogo della metamorfosi, Massimo sotto scorta: addio barche, addio Ferrari. Il ragazzo che impazzava per discoteche, alla Cuba e al Brasil, i migliori anni della sua vita, poi sospettato di pericolosità sociale potrebbe finire in una delle grandi iatture palermitane: la vita sotto scorta. La politica Assessore e sindaco Nato a Corleone il 10 marzo 1924, il nome di Vito Ciancimino è legato agli intrecci tra politica e mafia nella Palermo degli Anni 70 e 80. Assessore all’Urbanistica quando sindaco è Lima, e poi primo cittadino lui stesso, è protagonista del sacco di Palermo, con la demolizione delle ville liberty di via Libertà per fare posto ai palazzoni. Le manette Arrestato da Falcone E’ il 1984 quando per Ciancimino scattano le manette. Provvedimento firmato dal giudice Falcone dopo le rivelazioni di Tommaso Buscetta. Ciancimino è accusato di collusione con la mafia e il suo tesoro sarà trovato in Canada. Nella Dc siciliana è l’ora della resa dei conti: Ciancimino sarà espulso dal partito nel 1985. La fine Condanna e morte Vito Ciancimino muore a Roma nel novembre 2002. L’anno prima - 2001 - sono diventate definitive le condanne per mafia: favoreggiamento e concorso esterno. Nel 1992 era stato coinvolto dai carabinieri del Ros in una trattativa per frenare la violenta offesiva mafiosa a Palermo: l’inizio della fine di Totò Riina.