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 2008  luglio 16 Mercoledì calendario

C’è sempre un «mariuolo», come Craxi definì Mario Chiesa all’epoca della prima Tangentopoli, che cerca invano di occultare le banconote del malaffare; c’è sempre la vendetta di qualche corruttore che, messo alla strette, si sente concusso e vuota il sacco

C’è sempre un «mariuolo», come Craxi definì Mario Chiesa all’epoca della prima Tangentopoli, che cerca invano di occultare le banconote del malaffare; c’è sempre la vendetta di qualche corruttore che, messo alla strette, si sente concusso e vuota il sacco. Gli scandali della sanità italiana passano dalle rozze tangenti per i macchinari ai virtuosismi finanziari delle cartolarizzazioni per i crediti, ma la sostanza e, persino, la fisionomia dei personaggi sembrano assomigliarsi con un’impressionante frequenza. Nella storia della nostra Repubblica, la prima greppia dei partiti fu costituita, negli Anni 60, dalle Partecipazioni statali, la seconda, negli Anni 80, dai Lavori pubblici e, ora, la terza cassaforte occulta del finanziamento è costituita dalla voragine insaziabile della spesa sanitaria affidata alle Regioni.
I numeri sono eloquenti: il nostro sistema del Welfare per la salute pubblica divora somme enormi. Nel 2008, si supereranno abbondantemente i cento miliardi di spesa all’anno. Nel bilancio delle Regioni, le erogazioni per questa voce rappresentano, mediamente, circa l’80 per cento del totale. E’ chiaro che una tale massa di soldi cementa quel vincolo tra la politica e la sanità che, attraverso la designazione partitica dei manager per le Asl e per gli ospedali, assicura un flusso costante e crescente di denaro sia per la corruzione personale dei politici sia per il finanziamento di partiti e correnti.
Ecco perché la definizione di «nuova Tangentopoli», al di là del caso singolo per il quale Di Pietro l’ha richiamata, appare appropriata, se allarghiamo lo sguardo a quanto sta avvenendo un po’ in tutte le Regioni italiane e, soprattutto, se si avvertono gli scricchiolii di un sistema che è sul punto di crollare. Da una parte, l’invecchiamento della popolazione e i costi di una medicina sempre più tecnologicamente avanzata richiedono finanziamenti sempre più onerosi. Dall’altra, lo Stato non è più in grado di trasferire alle Regioni i miliardi del disavanzo tra ricavi e spese e costringerà questi enti o a tassare i cittadini con ticket locali sempre più elevati o a ridurre drasticamente il livello del servizio.
Dobbiamo rassegnarci, perciò, alla fine del modello italiano ed europeo di protezione pubblica della salute e adattarci a quello americano, fondato su una pesante discriminazione tra la qualità dell’assistenza fornita, secondo il livello di reddito a disposizione di ciascun cittadino? Una soluzione del genere, non è, evidentemente, né possibile, né augurabile. L’obiettivo, allora, è quello di recidere o, almeno, di indebolire il rapporto strettissimo esistente in Italia tra sanità e politica.
A questo proposito, è bene subito sgombrare il campo da pseudo-ricette che si fondono su una clamorosa ipocrisia: è praticamente inesistente, o è ridottissimo, in Italia, il cosiddetto settore privato della sanità. La finzione si regge sul sistema delle convenzioni con il pubblico che assicurano lauti introiti alle cliniche «private». Poiché i controlli, come si è visto nel recente scandalo milanese della «Santa Rita», sono ridotti a ben poco, il rischio della corruzione, degli sprechi, delle inefficienze è tutt’altro che scongiurato.
Stabilire un corretto rapporto tra qualità delle cure e costi, verificare gli standard dei servizi, limitare i casi di truffe e ruberie non dipende, perciò, dal trasferimento dell’etichetta tra il pubblico e il privato, ma da una riforma complessiva della sanità che parta da una prima esigenza: non devono essere più solamente i partiti a scegliere i direttori generali di Asl e ospedali. I protagonisti della sanità pubblica sono essenzialmente due: i cittadini, da una parte, gli utenti del servizio e, dall’altra, i fornitori del servizio: medici, infermieri, personale addetto. Alla politica spettano solo due controlli fondamentali, quello sulla quantità della spesa che, affidato alle due prime categorie, ovviamente lieviterebbe, per convergenti interessi, fino a livelli insostenibili. E quello sul rispetto degli standard di qualità per le prestazioni assicurate ai cittadini.
Le formule giuridiche che si possono immaginare per un deciso cambio di rotta nella sanità, l’unico che possa scongiurare una catastrofe del sistema di assistenza pubblica, possono essere varie. Studi già pubblicati e ampiamenti noti agli addetti al settore propugnano una trasformazione delle Asl in particolari società per azioni, con l’intento di assicurare una maggiore trasparenza sia nella cosiddetta governance sia nei bilanci. Altri pensano, invece, al modello delle fondazioni che, in molti casi, ha dato buona prova e sarebbe possibile ancora perfezionare. Non è detto che la soluzione sia circoscritta a solo queste due ricette, anche perché è certamente notevole la complessità del rapporto a tre, malati, medici e controllo pubblico attraverso la rappresentanza politica. Ma non è più possibile che all’antico, e forse eccessivamente mitizzato, strapotere dei medici nella sanità si sia sostituito l’arbitrio feudale di vassalli, valvassori e valvassini della politica.

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