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 2008  luglio 15 Martedì calendario

Corriere della Sera, martedì 15 luglio Sono in molti a chiedersi se, con i nuovi salvataggi bancari, l’America stia di fatto nazionalizzando una parte del suo sistema finanziario

Corriere della Sera, martedì 15 luglio Sono in molti a chiedersi se, con i nuovi salvataggi bancari, l’America stia di fatto nazionalizzando una parte del suo sistema finanziario. Il problema vero per le autorità Usa, però, non è ideologico ma pratico: come riportare un po’ di vita in quello che sta diventando il deserto del credito. Il crollo dei giganti dei mutui Fannie Mae e Freddie Mac ha infatti reso evidente che, con le banche che si sono ritrovate all’improvviso a corto di liquidità e di fiducia, buona parte dell’America può ormai ottenere prestiti solo grazie agli interventi pubblici: immissioni di liquidità, prestiti, interventi sul capitale. Accade in modo massiccio nel settore immobiliare, ma anche il credito scolastico, fino a poco fa gestito in massima parte dalle banche, è ormai tutto sulle spalle del governo federale. Gli istituti di credito si sono, infatti, improvvisamente ritirati da un business che considerano rischioso e non più redditizio: a quel punto la Casa Bianca non ha potuto far altro che promettere agli studenti che, per finanziare i loro corsi accademici, potranno attingere a fondi federali. Negli ultimi mesi del suo mandato presidenziale il sogno di Bush della ownership society nella quale banche e assicurazioni ben oliate fanno girare un sistema nel quale ognuno è proprietario della sua casa, delle sue polizza sanitaria, del suo piano di studi e della sua pensione, si è trasformato in un incubo: crolla il settore immobiliare mentre in Borsa ci sono società che hanno perso anche il 70% del loro valore. Il cittadino che, come lavoratore, è alle prese con un reddito stagnante e come risparmiatore vede assottigliarsi il suo patrimonio, si trova all’improvviso a dover fare i conti con la chiusura dei rubinetti del credito. Se il 18 marzo scorso, il salvataggio da parte del Tesoro e della Federal Reserve di Bear Stearns - non un istituto tradizionale col suo esercito di depositanti ma una banca d’affari di Wall Street - ha avviato una sorta di mutazione genetica del capitalismo americano, l’intervento su Fannie Mae e Freddie Mac deliberato domenica notte segna un altro salto di qualità nella gestione della crisi. Stavolta il passaggio non è di tipo giuridico ma quantitativo: per salvare Bear Stearns la Fed aveva messo a disposizione 30 miliardi di dollari. Ora, mentre il Congresso sta destinando 300 miliardi di dollari al sostegno delle famiglie che faticano a onorare i loro mutui, il ministro del Tesoro Henry Paulson si è impegnato ad offrire aiuti senza limiti ai due "polmoni" del mercato del credito immobiliare: prestiti e, se necessario, anche l’acquisto di quote di capitale delle due società. Fannie Mae e Freddie Mac potranno, poi, attingere anche ai rubinetti con i quali la Federal Reserve sta cercando da mesi di combattere l’"inaridimento" del sistema creditizio". L’intervento del Tesoro era atteso, visto che le due società, benché formalmente private e quotate in Borsa, sono istituzioni concepite nell’era del New Deal: il frutto della volontà politica di creare un volano della crescita economica. Anche se non c’è un preciso vincolo di legge, il mercato ha sempre considerato i crediti di Fannie e Freddie come garantiti dallo Stato. Il punto è che, se l’intervento deciso l’altra sera non basterà a rassicurare il mercato - e la reazione fredda mostrata ieri da Wall Street lascia non pochi dubbi in questo senso - il governo federale potrebbe vedersi costretto ad una piena assunzione di responsabilità. Con conseguenze difficili da prevedere, visto che i due istituti garantiscono mutui per 5300 miliardi di dollari, poco meno della metà di tutti i mutui emessi negli Usa: per il Tesoro vorrebbe dire assumersi un onere (sia pure compensato dal valore degli immobili) pari a quello dell’intero debito pubblico americano. E non finisce qui: all’orizzonte già si profila la crisi di 150 piccole e medie banche locali che potrebbe richiedere altri interventi d’emergenza del governo, mentre a Wall Street danno di nuovo segni di cedimento due giganti come Lehman Brothers e Merrill Lynch. Fin dove possono spingersi il governo e la Fed con i salvataggi? Nessuno lo sa con esattezza, ma qualche giorno fa un esperto di "lungo corso" come Jacob Frenkel – economista, finanziere ed ex governatore della Banca centrale d’Isreale – avvertiva che con le due linee di credito messe a disposizione del sistema bancario negli ultimi cinque mesi per prevenire le crisi di liquidità, la Fed ha già impegnato metà del suo bilancio. Il problema è enorme ed è politico oltre che economico: a parte interventi dall’ estero sempre possibili (ad esempio quelli dei fondi sovrani arabi o cinesi), a pagare i salvataggi del sistema finanziario saranno alla fine i cittadini. Direttamente (attraverso le tasse) o indirettamente (con l’indebolimento del dollaro e l’inflazione). Nulla di strano sostengono gli economisti: con le crisi bancarie finisce sempre così. Ma il malessere dell’opinione pubblica è evidente e rende più difficile costruire un’ipotesi di riforma del sistema finanziario. Ma, almeno nei casi di Fannie Mae e Freddie Mac, la crisi non nasce dagli eccessi del "turbocapitalismo": l’origine è nella mancanza di controlli su due centauri semipubblici che stavano in Borsa, strapagavano i manager e non si preoccupavano dei pericoli derivanti dalla loro evidente sottocapitalizzazione. E quando qualcuno al Congresso chiedeva una sorveglianza più severa veniva zittito da manager ben "ammanigliati" che avevano costruito una potentissima "lobby dei mutui". Massimo Gaggi