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 2008  luglio 14 Lunedì calendario

Chissà se Rosaria Carpinelli nel ’75, ottenuta la laurea in Filosofia della scienza, avrebbe mai immaginato un futuro da direttore editoriale di un colosso come la Rcs Libri

Chissà se Rosaria Carpinelli nel ’75, ottenuta la laurea in Filosofia della scienza, avrebbe mai immaginato un futuro da direttore editoriale di un colosso come la Rcs Libri. Probabilmente no, visto che a quel tempo si avviava verso una carriera di ricercatrice universitaria, esperta di logica induttiva. Infatti, da Roma si trasferisce per un paio d’anni in Finlandia per approfondire i suoi studi. al ritorno in Italia che il corso delle cose subisce una svolta, quando Rosaria entra nella redazione della Bompiani allora diretta da Raffaele Crovi. Lì incontra uno studioso che aveva già conosciuto a Helsinki: è Umberto Eco, che nell’anno di grazia 1980 consegna al suo editore un romanzo destinato a un successo senza precedenti, Il nome della rosa. «Eco è stato il mio maestro in campo editoriale – ricorda Carpinelli – frequentava spesso la Bompiani sia come direttore di collana, sia come autore. Ma l’esperienza davvero formativa l’ho fatta seguendo il suo romanzo. Io ero molto giovane e lo vedevo già come un mito. Lo chiamavamo il Professore. Arrivava in redazione e diceva: la sapete l’ultima?, gli piaceva raccontare barzellette, poi si lavorava e quando c’era un dubbio in un passaggio del romanzo, diventava un grande maestro: si sedeva lì, accanto a noi, e ci spiegava perché aveva scelto una parola piuttosto che un’altra». Intanto, il Professore aveva affidato a Rosaria Carpinelli la cura della rivista «Versus» e delle collane che dirigeva. «Eco aveva una generosità e un talento incredibile nel trasferire le sue conoscenze: ogni occasione era buona, anche la correzione di un refuso, la scelta della copertina, la revisione delle bozze. Per me la condivisione della cucina editoriale è sempre stata un modo per portare un mito con i piedi per terra». Tra i miti, nella scuderia Bompiani il decano era, in quegli anni, Alberto Moravia: «Lo ricordo impaziente con il cane sul terrazzo assolato della sua casa sul Lungotevere, mentre chiacchieravo con sua moglie Carmen. Oppure a Viareggio seduto in spiaggia sotto l’ombrellone vestito di tutto punto». Altri sarebbero diventati mitici col tempo. Per esempio Toni Morrison, futuro premio Nobel, che Rosaria Carpinelli ereditò dalla Bompiani quando passò alla Frassinelli: «La Morrison venne in Italia con un compagno molto giovane: era una donna imponente, molto autorevole e incuteva soggezione. La prima cosa che mi disse fu che voleva comperare delle scarpe. Quando la accompagnai per i negozi tra via Manzoni e Montenapoleone, rivelò una gioia quasi infantile. Provava e riprovava, felice, aveva delle caviglie esilissime e piedi eleganti, e io rimanevo incantata a guardare le sue sfilate: in un pomeriggio comperò un numero spropositato di scarpe». Piedi da ballerina, probabilmente, visto che prima di cominciare a scrivere e di assumere lo pseudonimo con cui sarebbe diventata famosa, quando ancora si chiamava Chloe Anthony Wofford, calcava i teatri danzando. «Quando la rivedevo mi ricordava con gratitudine quel giorno. Una volta andai a trovarla per una festa in suo onore che si teneva a New York in casa della sua agente. Una gran confusione, invitati upper class, non capivo letteralmente niente e mi sembrava di essere capitata dentro Il falò delle vanità di Tom Wolfe». Oriana è un capitolo a sé, pieno di ricordi privati. «Mi ha insegnato il rigore del sacrificio: dedizione e passione. Era infaticabile, perfetta nel lavoro di redazione. Nel trovare i refusi batteva i correttori, non mollava mai e i miei momenti di scoraggiamento erano sempre compensati dalla sua ricchezza e dal suo entusiasmo. Aveva cambiamenti repentini: passava dallo humour alla curiosità alla rabbia. Dove non aveva cedimenti era nella difesa di un principio: l’italianità e le radici». Quella che altri, parlando della Fallaci, definiscono pura cattiveria, Rosaria Carpinelli la chiama coerenza con i suoi obiettivi e rigore con se stessa. Senza dimenticare i gesti di affetto: «Faceva regali bellissimi e sempre molto mirati ai gusti delle singole persone, anche le più umili. Una personalità magnetica, che faceva di tutto per conquistarti». E l’allegria: «Specialmente a tavola... Andava in cerca dei migliori ristoranti italiani, ovunque. Oppure cucinava lei dei manicaretti rigorosamente di cucina italiana, andava a cercare gli ingredienti per tutta Manhattan: ci rimaneva sempre molto male vedendo che io non sapevo apprezzare i suoi piatti». Chi avrebbe apprezzato, a quanto pare, era Luigi Meneghello, l’autore del piccolo capolavoro Libera nos a Malo. «Andare a trovare Gigi e sua moglie Katia a Londra o a Thiene era un po’ la stessa cosa: la casa dietro il British Museum e la casa nella città vicentina erano quasi identiche, avevano la stessa struttura e gli stessi interni. Amavano la cucina, anche quella esotica. Gigi era attratto dai ristoranti più strani». E Rosaria continuava a non apprezzare. Un’insalata le sarebbe bastata. «Gigi era l’agente di se stesso, era attento agli aspetti contrattuali, anche se poi i suoi libri non avevano successo di pubblico. Negli archivi Rizzoli ci sono molte lettere in cui si discute delle tirature, della carta, delle clausole del contratto, delle ristampe, della distribuzione: voleva che i suoi libri fossero sempre presenti in libreria. Era attento a tutto, e voleva che Katia condividesse ogni minima decisione. Era lei che trascriveva i suoi appunti». Meneghello è riuscito a sopravvivere alla sua Katia non più di tre anni.  un panorama umano affollato, quello che un editore frequenta quotidianamente. E da Meneghello si può passare tranquillamente a John Kenneth Galbraith, l’economista di Roosevelt e di Kennedy: «Nell’89 venne a Napoli per ritirare il Premio Scanno, che consisteva in un lingotto d’oro. Andai a prenderlo in aeroporto, ci fu la cerimonia in grande e nel mezzo della notte mi svegliò: era molto preoccupato all’idea di viaggiare con il lingotto in valigia. Era il più autorevole economista liberal e temeva uno scandalo sui giornali se alla dogana gli avessero contestato qualcosa. Non ci fu modo di fargli cambiare idea. Il lingotto lo lasciò a terra». Un panorama affollato. Con la differenza, rispetto ad altri lavori, che ogni autore va trattato da primadonna. Prendere o lasciare, con i suoi vezzi, i suoi vizi, le sue idiosincrasie, protagonismi, mitomanie, meschinità e grandezze. Da Bompiani a Frassinelli, da Frassinelli a Rizzoli, dall’alto della Rizzoli alla sfida con la Fandango, la piccola casa editrice romana di Domenico Procacci, che nel 2005 inaugura una formula inedita nell’editoria italiana, con la compartecipazione economica di scrittori come Baricco, Veronesi, Nesi, Lucarelli. Da poche settimane la decisione di lasciare la direzione generale della Fandango, di cui Carpinelli rimane magna pars come consulente, e di metter su un’agenzia letteraria sui generis. In un mondo immutabile come quello editoriale, si tratta di scelte in apparenza spericolate, per una persona dall’aspetto sobrio, persino spartano, specchio inequivocabile del rigore intellettuale e delle lunghe fedeltà ai suoi autori. Giovani e vecchi. Mario Soldati era uno di questi, con la sua «capacità di divorare la vita, di spendere tutto se stesso senza fare calcoli», amico di un altro protagonista delle patrie lettere, Cesare Garboli: «Soldati vedeva in lui, probabilmente, un se stesso più giovane. Era un’amicizia di complicità». D’estate andavo spesso a trovare lui e Rosetta Loy a Sils-Maria, dove si facevano lunghe passeggiate ». A proposito di passeggiate: Dacia Maraini. «Passava le estati nella sua casa di Pescasseroli a mettere a punto i suoi romanzi: io andavo a trovarla per rileggere l’ultima stesura. Dacia è una lavoratrice instancabile fino a raggiungere la perfezione, ma la lettura e la correzione del testo si alternavano a lunghe camminate in montagna, sia d’estate che d’inverno. A un certo punto lei chiudeva tutto e trascinava fuori i suoi ospiti, si andava per monti oppure si usciva a fare una pausa sci di fondo. Lavorare con Dacia era quasi una vacanza». Miti «Mi ricordo Moravia sul terrazzo della sua casa romana. O vestito di tutto punto sotto l’ombrellone»