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 2008  luglio 13 Domenica calendario

UN CLASSICO IN CENTO RIGHE

UNA GIORNATA DI IVAN DENISOVIC
di Aleksandr Solzenicyn

Nel novembre del 1962, i cieli delle steppe furono d’improvviso attraversati da un tuono che si ripercosse, simile al preannuncio di una calamità travolgente ma positiva, sui recinti letterari, politici, psicologici, ideologici di Mosca. Lo stesso Kruscev, che aveva già dato in pasto ai cerberi l’inerme Pasternak, decise stavolta di non sprangare il Cremlino all’impatto del tuono Solženicyn. Autorizzando di persona la pubblicazione sulla rivista Novyj Mir di un racconto crudo e nudo, scritto da un ignoto redivivo dei gulag, Kruscev portava così a compimento su un terreno trasversale il terzo trauma antistalinista dopo le denunce del XX e XXII congresso.
La pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovic, opera basata in gran parte sulla dolorosa esperienza personale di Aleksandr Solženicyn, venne considerato un evento eccezionale e, da molti comunisti conservatori, addirittura scandaloso. Il testo in sé, meno sconvolgente del successivo Arcipelago Gulag e dei Racconti della Kolyma di Varlam Šalamov, non era una novità assoluta per gli occidentali: lo era invece l’inaudito imprimatur concessogli dal segretario generale del Pcus, che lo legittimò come un reportage fondamentale degli anni bui dell’Urss. Si trattava infatti del primo documento, autenticato dalla massima autorità sovietica, sulle disumane condizioni di vita nei campi di lavoro sovietici che, molto spesso, erano campi di sterminio omeopatico. Prima di allora non era mai giunta dalla Russia la conferma ufficiale dello schiavismo di Stato praticato fra taigà siberiane e tundre artiche.
Due parole, più che sulla trama (in genere scarsa nei gulag d’epoca), sulla scansione della giornata dell’alter ego contadino di Solženicyn che si presenta col nome di Ivan Denisovic Šuchov. La grigia poesia della narrazione scaturisce dalla ripetitività tediosa delle ore, dei gesti, delle fatiche, delle miserie, delle punizioni, delle brodaglie di un universo concentrazionario consegnato a uno squallore eterno. Quella descritta nel libro è una giornata come le altre, una delle 3653 giornate di prigionia cui Šuchov, come lo stesso Solženicyn, era stato ingiustamente condannato per alto tradimento durante la guerra. Della sua esistenza nel lager seguiamo, puntualmente, ossessivamente, tutti i «riti» quotidiani. Sveglia urlata alle cinque; punizione immediata per chi tarda ad alzarsi; repulsiva poltiglia d’orzo per colazione; perquisizione in cortile, durante l’appello dei detenuti paralizzati dal gelo; marcia nella steppa ghiacciata, coi piedi avvolti in corteccia d’albero, dove li attende il duro e spesso inutile lavoro al cantiere; breve parentesi al caldo della mensa anoressica; ancora freddo, lavoro forzato, stenti, insulti, percosse; poi il ritorno al campo, un altro appello, un’altra brodaglia per cena e, finalmente, il sonno liberatorio.
Ivan vive la sua giornata rassegnato, condensando tutte le sue anemiche energie nella lotta per sopravvivere, per difendersi dal freddo, conquistarsi una porzione in più di zuppa, una crosta di pane o un po’ di tabacco. Il fatto che nulla d’importante sia accaduto, che nulla accada, tranne la diuturna resistenza alla morte che plana innominata nell’aria algida, è la chiave di fondo esistenziale, la chiave antitrama, che apre qua e là nel racconto perfino intermezzi di triste comicità. Alla fin fine, a Ivan oggi gli è andata bene: non l’hanno sbattuto in cella, non si è ammalato, è anche riuscito a nascondere del pane sotto il materasso cencioso. Insomma, «una giornata quasi felice». Tristezza, fatalismo primordiale, accanita volontà di sopravvivenza: tutto ciò conferisce al breve racconto il tono elegiaco di una speranza non del tutto perduta e che sarà, un giorno, recuperata in senso patriottico nella Russia di Putin dallo stesso Solženicyn come lo fu da Dostoevskij nella Russia degli zar. Da deportati dissidenti a conservatori slavofili il passo per ambedue, sotto diversi aspetti, è stato quasi consimile. Ma è un discorso intricato che per ragioni di spazio non si può approfondire qui.
Mi resta qualche riga per ricordare, di passata, qualcosa del mio rapporto con quella lontana testimonianza narrativa che sanzionò la fama internazionale di un oscuro autore russo. Fra i diversi riconoscimenti, alcuni anche inutili o sbagliati, che ho ricevuto nel corso della mia attività, ce n’è uno a cui tengo in modo particolare: quello di Alberto Ronchey, conoscitore minuzioso di cose russe, che in un suo recente libro-intervista con Pierluigi Battista mi cita come il primo traduttore che ha rivelato il nome e l’opera di Solženicyn al pubblico italiano. Sono stato difatti il primo divulgatore in assoluto, in una lingua occidentale, della Giornata di Ivan Denisovic. Quando, in un frangente in cui la destalinizzazione sembrava in calo, apparve sulla prestigiosa rivista di Tvardovskij il referto di un ex ufficiale deportato dell’esercito sovietico, lo lessi d’un fiato e ne rimasi profondamente impressionato. Mi parve d’intuire che quel racconto chiaro, rivelatore, ancorché misurato, fosse l’avvisaglia antesignana dell’alluvione di verità che doveva poi dilagare, dall’«interno degli inferi», nelle opere maggiori dello stesso Solženicyn, di Šalamov, di Vasilij Grossman.
A quel tempo, oltre a coprire il servizio quotidiano di corrispondente della Stampa, collaboravo da Mosca con lo pseudonimo di Sarmatius anche all’Espresso. I grandi spazi dell’ebdomadario romano d’allora mi sembavano i più idonei ad ospitare, a puntate settimanali, i capitoli di un’operetta che aveva comunque dimensioni di un romanzo breve. Ne proposi una versione italiana alla direzione, sottolineando l’importanza dell’evento che, grazie alle caratteristiche del narratore e all’assenso di Kruscev, andava assai al dilà di un puro fatto letterario. Tuttavia il direttore dell’Espresso, il mitico Arrigo Benedetti, romanziere oltreché giornalista, lesse la prima puntata senza percepirne l’esplosivo significato politico e concentrando la sua attenzione soltanto sulla forma linguistica della traduzione. Io avevo cercato di restituire in un italiano rotto, sincopato, semplificato, un po’ plebeo ma comprensibile, le cadenze e sentenze popolari russe messe da Solženicyn nella bocca di un ruvido mugico rinchiuso in un gulag siberiano. Non potevo certo far parlare quell’Ivan remoto, perdipiù abbrutito in un campo gestito dagli sbirri dell’Nkvd, allo stesso modo di un borghese pariolino di Moravia. Benedetti evidentemente non la pensava così. Lo sentii sbuffare spazientito all’altro capo del filo: «Ma che mai è questa roba, chi è mai questo Soggizin o Ivan o come diavolo si chiami? Uno scrittore vernacolare? Un romanziere della domenica? Un goffo imitatore russo di Pavese?»
Di parere diverso fu invece il condirettore Eugenio Scalfari. Egli mostrò di fidarsi senza riserve non solo delle tonalità rustiche della mia traduzione ma, in particolare, della mia intuizione giornalistica. Al contrario di Benedetti, inchiodato alla valutazione estetica, Scalfari aveva afferrato appieno il senso politico, extraletterario, del primissimo colpo d’ariete sferrato in Russia, da un deportato russo, al muro di silenzio sugli arcipelaghi della schiavitù. M’incitò quindi a portare sino in fondo la mia fatica di traduttore e commentatore del racconto. Così, gli amari ricordi dello «zek» Ivan Denisovic, portavoce rude e attendibile del medesimo Solženicyn, comparvero per la prima volta in Occidente nella loro completa versione italiana sulle ampie pagine bianconere del vecchio Espresso. Fu la segnalazione dell’onda iniziale di una marea destinata a montare e a non fermarsi più.


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