lauretta colonnelli, corriere della sera lunedì 14 luglio., 10 luglio 2008
di Laura. Mettiamola tra le sei della II dell’inserto lunga otto metri e mezzo, alta quasi tre, l’opera di James Turrell, artista noto per avere iniziato trent’anni fa a lavorare a quello che è considerato il più grande «land former work» del mondo
di Laura. Mettiamola tra le sei della II dell’inserto lunga otto metri e mezzo, alta quasi tre, l’opera di James Turrell, artista noto per avere iniziato trent’anni fa a lavorare a quello che è considerato il più grande «land former work» del mondo. Il gigantesco quadro appeso sulle pareti del museo Bilotti, nella mostra dedicata al Big Bang, non è solo l’occasione per vedere per la prima volta il lavoro di Turrell a Roma, ma anche per capire lo smisurato e affascinante progetto che lo impegna da più di trent’anni. Era infatti il 1974 quando l’artista, nato nel 1943 a Los Angeles da un padre ingegnere aeronautico e da una madre medico, riceve una borsa di studio dalla donazione Guggenheim e dicide di finanziarsi una serie di voli sul territorio desertico dell’ovest americano alla ricerca di un sito naturale in cui realizzare su scala monumentale le sue ricerche sulla luce e la percezione visiva. Il luogo prescelto, dopo sette mesi di ricerche, è il Roden Crater, vulcano situato nel Painted Desert dell’Arizona. Quel cratere spento diventerà il progetto della sua vita, al quale continua da allora a lavorare insieme a ingegneri, geologi, architetti e astronomi per rimodellare l’interno del gigantesco cono del vulcano in un sistema di camere sotterranee dalle quali osservare la luce del sole, della luna, delle stelle, attraverso aperture sapientemente orientate. Ogni stanza diventa così una specie di osservatorio astronomico, privo però di telescopi e di apparecchiature tecniche, affidato solo agli occhi e alle emozioni di chi osserva. Il quadro esposto al museo Bilotti risale al 1986 e mostra il grande cratere ripreso da una foto aerea, che Turrell ha emulsionato su carta pergamena e poi ritoccato con inchiostro e pastello. Per aumentare la suggestione poetica, l’artista ha disegnato al centro del cratere una figura che assomiglia a un satellite e suscita nell’osservatore l’impressione di guardare da un punto di vista ancora più alto, da un punto lontano nell’universo. Il percorso della mostra, che il curatore Gianni Mercurio ha voluto dedicare al «complesso rapporto tra Scienza e Arte, tra Cosmo e Animo umano», prosegue con le opere di altri tre artisti americani, Robert Longo, Ross Bleckner e Peter Halley (anche loro a Roma per la prima volta); degli italiani Alberto Di Fabio, Domenico Bianchi e Mario Dellavedova e della pakistana Shahzia Sikander. Ma il riferimento per tutti loro continua ad essere in qualche modo il lavoro di Turrell e di un altro americano, Walter De Maria, i due artisti che negli anni Settanta hanno affrontato in chiave scientifica il rapporto con il cosmo. De Maria, per chi non lo ricordasse, è famoso per «The Lightning Field», la monumentale installazione realizzata nel 1977 - e tuttora in funzione - in un angolo remoto del deserto del New Mexico, conficcando in verticale nel terreno 400 pali metallici appuntiti su un’area di circa 3 chilometri quadrati per sfruttarne l’effetto parafulmine durante i temporali e moltiplicare la potenza delle saette a servizio di un grandioso spettacolo di luce. Al museo Bilotti si passa dunque dai dipinti di Bleckner, dove migliaia di corpi celesti si accendono nel buio dello spazio o sfere colorate si intersecano come cellule al microscopio, agli imponenti disegni a carboncino di Longo, che riesce a far galleggiare sul nero della grafite i crateri dei pianeti, l’esplosione delle bombe atomiche, il flusso luminoso di intere galassie. Si incontrano le strutture psichedeliche di Halley e quelle neuronali di Di Fabio, che si avvale appunto della consulenza di un neurologo per decifrare il sistema del cervelllo umano. Ci si sofferma davanti all’intrico di linee curve di Bianchi che sembrano prendere le misure dello spazio e all’opera di Dellavedova che ha acceso un neon con la scritta «I buchi neri» su un pezzo di tessuto nero a trama grossa. Si conclude con i fotogrammi digitali di Sikander, che non descrive il Big Bang, ma l’istante immediatamente successivo, con elementi umani, floreali o astratti che fluttuano ancora alla ricerca del loro posto nel mondo.