Mario Deaglio, La Stampa 9/7/2008, 9 luglio 2008
Tutti in tenuta da ufficio a far finta di piantare un albero davanti alle telecamere, per testimoniare il loro impegno per l’ecologia e contro il cambiamento climatico: così, goffi e impacciati, sono apparsi i leader degli otto Paesi economicamente più importanti del mondo ad almeno due miliardi di telespettatori che ne hanno, più o meno distrattamente, seguito le attività
Tutti in tenuta da ufficio a far finta di piantare un albero davanti alle telecamere, per testimoniare il loro impegno per l’ecologia e contro il cambiamento climatico: così, goffi e impacciati, sono apparsi i leader degli otto Paesi economicamente più importanti del mondo ad almeno due miliardi di telespettatori che ne hanno, più o meno distrattamente, seguito le attività. In realtà il loro impegno ecologico e climatico è risultato almeno tanto inadeguato - si potrebbe dire tanto ridicolo - quanto il loro abbigliamento. E se qualcuno aveva ancora dei dubbi, il solito comunicato stampa, denso di buone parole e luoghi comuni ma avaro di fatti, li dovrebbe aver convinti di quanto inutili, per non dire nocivi, siano questi incontri. L’iniziativa del G8 (allora G5) era nata nel 1975 quando di fronte a una crisi grave e del tutto sconosciuta, come il primo choc petrolifero, il presidente francese Giscard d’Estaing ebbe l’idea di un incontro a porte chiuse e a quattr’occhi in cui i responsabili del governo dei maggiori Paesi dell’Occidente potessero dialogare senza testimoni. E tagliando fuori le rispettive burocrazie. Un luogo in cui stare assieme a esaminare problemi, a confrontare strategie, a raggiungere accordi informali ma - sperabilmente - efficaci. Di qui dovevano partire decisioni rapide per contrastare l’aumento dei prezzi delle materie prime, che peraltro continuarono a crescere e ci regalarono il secondo shock petrolifero del 1979. In 33 anni e 34 incontri al vertice, il G8, pur senza diventare un organo formale, si è allargato (con l’ingresso della Russia, limitato però ad alcune materie) e di alcuni Paesi emergenti, invitati a assistere ad alcune sedute; si è anche appesantito, in quanto a livelli più bassi si incontrano, in occasioni separate, i ministri dell’economia, dell’ambiente, della giustizia e altri ancora, e ha perso gran parte di quel carattere riservato che poteva costituirne l’elemento originale. Dopo i gravi incidenti di Genova, si cerca di tenere le riunioni in luoghi isolati, ma il G8 attira sempre giornalisti e contestatori e induce i partecipanti a pietose esibizioni mediatiche, come quella, appunto, di far finta di piantare un albero. I comunicati sono inconcludenti e sull’efficacia delle riunioni si pronunceranno gli storici tra trenta e più anni, consultando archivi che per ora sono segreti. Se i capi dei Paesi più potenti hanno bisogno d’incontrarsi riservatamente, è bene che lo facciamo. Se devono lanciare messaggi comuni che diano all’opinione pubblica un senso di direzione e politica condivisa, è bene che lo facciano. Le due cose assieme, però, non riescono molto bene in quanto la riservatezza del primo obbiettivo si scontra con la visibilità del secondo e ne derivano comunicati inutili e grandi decisioni mancate per cui un vertice G8 può rivelarsi addirittura dannoso. Così forse è stato per la riunione svoltasi sull’isola giapponese di Hokkaido, dove, dietro l’annuncio di obiettivi convenientemente lontani nel tempo, di accordi che non saranno mai portati a ratifica, di impegni che difficilmente saranno rispettati, si intravedono crescenti divisioni trai partecipanti. La prima divisione è, in termini semplici, tra ricchi e poveri. Invitati «a prendere il caffè», ossia a una parte soltanto delle riunioni, quando i grandi discorsi erano già stati fatti, i rappresentanti dei Paesi emergenti si sono rifiutati di sobbarcarsi oneri aggiuntivi nella lotta mondiale al riscaldamento atmosferico; ma c’era da aspettarselo, visto la vibrante presa di posizione in questo senso - al G8 dei ministri dell’ambiente svoltosi qualche mese fa a Heiligendamm, in Germania - del rappresentante cinese, il quale aveva ricordato che l’inquinamento è il risultato di duecento anni di industrializzazione occidentale. L’«accordo» contiene soltanto buone parole, senza vere scadenze in tempi brevi e ciascuno lo leggerà come vorrà. Una seconda frattura, meno visibile e più profonda, è quella derivante dal veto posto dagli Stati Uniti (e dal Canada) all’ingresso a pieno titolo dei grandi Paesi emergenti nell’organizzazione per la scarsa condivisione da parte di questi ultimi di fini generali, che immaginiamo essere la democrazia e l’economia di mercato. In questo modo il G8 rinuncia a essere un vero e proprio «salotto mondiale» ma diventa il «salottino» di una parte sola. Nel 1975, gli attuali membri pesavano per circa i due terzi del prodotto lordo mondiale; oggi il loro peso, tenendo conto del differente potere d’acquisto della medesima quantità di moneta in varie parti del mondo, è di poco più della metà. La ricerca dell’efficacia richiederebbe un allargamento, senza il quale appare illusorio affrontare con efficacia i grandi problemi mondiali. Per il resto, si è confermata la mancanza di soluzioni e di idee per i problemi strutturali emersi nell’ultimo anno, dalla crisi finanziaria alla crisi agricola, per la quale sono stati stanziati pochi spiccioli, e chissà se poi verranno davvero spesi. Sulle colline giapponesi, insomma, c’è stata una conferma in più del fatto che una ricetta magica per uscire dalle crisi molteplici e concatenate di questi nostri anni non l’ha ancora trovata nessuno. mario.deaglio@unito.it Stampa Articolo