La Stampa 7 luglio 2008, Vittorio Sabadin, 7 luglio 2008
Cina addio, meglio l’Italia. La Stampa 7 luglio 2008 Alcuni famosi marchi di abbigliamento britannici hanno deciso di abbandonare le loro produzioni in India e in Cina e hanno scelto di trasferirsi in quella che sembra essere la nuova mecca del taglio e della confezione di abiti: l’Italia
Cina addio, meglio l’Italia. La Stampa 7 luglio 2008 Alcuni famosi marchi di abbigliamento britannici hanno deciso di abbandonare le loro produzioni in India e in Cina e hanno scelto di trasferirsi in quella che sembra essere la nuova mecca del taglio e della confezione di abiti: l’Italia. La notizia sembra incredibile, abituati come siamo (e sicuramente con ottime ragioni) a piangerci addosso, a criticare il sistema Paese che non funziona e a organizzare convegni sull’inarrestabile declino che ci attende. Ma qualcosa, da qualche parte, deve essere cambiato se Aquascutum, Pringle, Paul Smith e Burberry stanno ora cercando di aprire centri di produzione in Italia, magari negli stessi edifici che i nostri industriali del lusso hanno abbandonato per le meno costose produzioni in Romania, Bulgaria, India o Cina. Il fatto è che sempre più aziende dell’alta gamma stanno rendendosi conto di quello che ognuno impara fin dai primi acquisti: risparmiare non sempre conviene. Il problema non sta solo nella qualità dei prodotti confezionati nei Paesi emergenti, molto spesso inferiore a quella europea, ma anche nello sfruttamento del lavoro minorile che provoca danni di immagine irreparabili, uniti quasi sempre a un sensibile calo del fatturato. La catena Primark non lavora nel settore del lusso ma è diventata comunque un ammonimento per tutti: ha perso il 42% dei suoi clienti dopo che un documentario della Bbc aveva mostrato come i capi che vendeva a bassissimo prezzo fossero confezionati da bambini tenuti in schiavitù in India. Con i suoi piccoli margini di guadagno, circa il 30%, un calo del 5% dei clienti è letale. E non è solo questo: secondo l’«Independent», che ha dedicato un servizio alla nuova passione per l’Italia dei produttori di abiti di lusso, non ha molto senso vendere prodotti che costano molto, se cucita nella fodera gli acquirenti trovano poi una etichetta con scritto «Made in China». Hanno l’impressione di essere stati truffati e pensano che il capo che hanno appena acquistato sia modesto come le magliette e i cappellini che si vendono sulle bancarelle di Oxford Street. Una etichetta «Made in Italy» aggiunge invece valore al prodotto, lo colloca tra le creazioni di Armani e Valentino, fa pensare di indossarlo a bordo di una Ferrari, nel Paese che è ancora il riferimento mondiale dello stile, del gusto e della qualità. Per questo, Pringle ha deciso di rinunciare ai nuovi insediamenti negli Scottish Borders e confezionerà i suoi cachemire in Italia. Burberry amplierà la sua presenza, che data dal 1990, Paul Smith cercherà buoni sarti forse a Napoli, Aquascutum sposterà da noi le lavorazioni più complesse che richiedono maggiore qualità. Il costo del lavoro nettamente più alto rispetto all’India e alla Cina e la conflittualità sociale non sembrano spaventare i marchi del lusso britannici. Bene o male, i salari italiani sono comunque inferiori di un terzo a quelli inglesi e, in ogni caso, quella nuova etichetta «Made in Italy» consentirà di ritoccare un po’ i listini. In fondo, mentre la crisi sta colpendo duramente la classe media e le fasce basse della popolazione, nessuna delle case da 10 milioni di sterline ha perso valore. Chi è ricco continua a spendere come prima e non vuole certamente riempirsi gli armadi di costosi abiti «Made in China». I prodotti che vengono dall’Italia sono poi molto apprezzati anche nei mercati asiatici e l’unione di brand molto forti come Burberry e Pringle con il marchio dello stile italiano può davvero fare miracoli nei centri di vendita. Paul Smith pensa di trasferire in Italia il 42% della propria produzione, mantenendo solo il 5% in Gran Bretagna. E’ un fenomeno da osservare con attenzione, e sul quale riflettere. Mentre i nostri imprenditori spostano all’estero le loro produzioni per risparmiare ed essere competitivi e tutti ci domandiamo che cosa fare per rimettere in moto il Paese, c’è chi già si prepara ad approfittare delle uniche tre parole che forse avrebbero potuto davvero salvarci: «Made in Italy». Vittorio Sabadin