Corriere della Sera 6 luglio 2008, Claudio Colombo, Franca Porciani, Gianfranco Parati, 6 luglio 2008
A un passo dal limite. Corriere della Sera 6 luglio 2008 Le vie del record sono finite? Domanda legittima alla vigilia dell’Olimpiade di Pechino, appuntamento che verifica la temperatura delle varie discipline, atletica leggera e nuoto soprattutto, fotografandone lo stato di salute e le prospettive future in chiave di progresso umano: quanti primati verranno battuti? E quanto ampio sarà il margine di miglioramento? E se, al contrario, nessun primato fosse ritoccato, che cosa significherebbe? Che l’uomo ha ormai raggiunto i propri limiti di prestazione? Il recente record nei 100 metri del giamaicano Usain Bolt (9"72) ha riaperto l’affascinante discussione
A un passo dal limite. Corriere della Sera 6 luglio 2008 Le vie del record sono finite? Domanda legittima alla vigilia dell’Olimpiade di Pechino, appuntamento che verifica la temperatura delle varie discipline, atletica leggera e nuoto soprattutto, fotografandone lo stato di salute e le prospettive future in chiave di progresso umano: quanti primati verranno battuti? E quanto ampio sarà il margine di miglioramento? E se, al contrario, nessun primato fosse ritoccato, che cosa significherebbe? Che l’uomo ha ormai raggiunto i propri limiti di prestazione? Il recente record nei 100 metri del giamaicano Usain Bolt (9"72) ha riaperto l’affascinante discussione. L’ultimo studio al riguardo, in ordine di tempo, è firmato da un gruppo di ricercatori francesi: ricorre alla statistica per segnalare che metà degli oltre tremila record ottenuti nelle varie discipline a partire dai primi Giochi olimpici dell’era moderna (1896) saranno migliorati entro il 2027 di appena lo 0,05 per cento. Vale a dire, crescita zero, o quasi. Il partito degli «impossibilisti » è folto. Ne fa parte il biomedico italiano Enrico Di Prampero, docente di fisiologia umana: «Anche la mia teoria legge il futuro seguendo basi statistiche. Per arrivare a disegnare il limite ultimo delle varie discipline sportive si rappresenta l’incremento del primato in funzione dell’anno in cui è stato stabilito, facendo un’analisi di tendenza e cercando di prevedere dove si andrà. Ne scaturisce per ogni record un andamento curvilineo che con il passare del tempo e la diminuzione degli incrementi, si appiattisce. Più si va avanti, più la curva scompare, fino ad arrivare alla prestazione in cui la tendenza diviene asintotica. Vuol dire che la prestazione è il limite massimo a cui si può aspirare. Ma ciò avverrà molto in là nel tempo e il vantaggio di questa previsione è che nessuno potrà venire da me a contestarla». Esempio: il velocista dei 100 metri (se ne traccia anche un suggestivo identikit: sarà alto 2 metri, avrà la pelle caffellatte dovuta al melting-pot razziale, e un’età fra i 35 e i 38 anni) toccherà il limite massimo correndo la distanza in 9 secondi e 15 centesimi (velocità media 39,344 km all’ora), tempo che verrà ottenuto, secondo lo studioso italiano, oltre il 2254: prima di quella data, ma sicuramente dopo il 2187, lo sprinter perfetto potrà al massimo conquistare un «crono» di 9"24. Lo studio di Di Prampero prosegue prendendo in esame altre specialità dell’atletica: nei 5.000 metri, l’atleta dell’ultima frontiera limerà l’attuale record (12’37"35) di un minuto e 17 secondi, passando per un "crono" intermedio, anch’esso ottenibile fra il 2187 e il 2254, di 11’29"70. Ma secondo Alan Nevill, dell’Università di Wolverhampton, e Gregory Whyte, direttore dell’English Institute of Sport, che pure hanno applicato modelli matematici alla storia sportiva, il margine di guadagno sarà al massimo di 25 secondi (dunque un tempo intorno ai 12’12"). Chi avrà ragione? Secondo le stime che Nevill e Whyte pubblicano sulla rivista Medicine & Science in Sports & Exercise, i record maschili raggiungeranno il picco tra il 2020 e il 2060, con un progresso limitato all’1-3%. Gli autori prospettano non lontano il limite massimo della maratona maschile (km 42,197) che, partendo dalla miglior prestazione di 2 ore, 4 minuti e 26 secondi (stabilita dall’etiope Gebresilasie), potrebbe scendere, al massimo, ancora di un minuto e 17 secondi. «Alla base dei progressi dello sport – spiega Di Prampero – ci sono due motivi fondamentali. Uno, la globalizzazione che permette una selezione naturale su basi più ampie: nei grandi numeri si può scovare il superatleta. Due, le metodologie di allenamento sempre più sofisticate e più adatte alla macchina umana». Senza contare gli aiuti esterni, leggi doping: la variabile che fa impazzire qualsiasi previsione e modello statistico: «Certo – chiosa lo studioso italiano ”, noi parliamo di limiti dell’uomo, non di limiti della ricerca scientifica». Che non riguarda solo geni e muscoli, ma anche la tecnologia legata ai materiali. Basti pensare ai nuovi costumi che trasformano i nuotatori in siluri: citius (più veloci) a spostare i limiti un po’ più in là. Claudio Colombo Perché le atlete non potranno mai battere i maschi. Corriere della Sera 6 luglio 2008 Bei tempi, anche se di cattivi tempi (nel senso del doping) si trattava, per i sostenitori della potenziale «possenza » femminile. Parliamo degli anni Settanta e dei primi Ottanta quando le atlete del blocco sovietico oltre che vincere, conquistavano un record dietro l’altro, accorciando il divario con i campioni maschi. Nel 1984 più di trenta di loro corsero i 1500 metri in meno di 4 minuti e 5 secondi. Un balzo in avanti talmente significativo da fare ipotizzare come possibile realtà l’agognato pareggio con il sesso forte. Qualcuno dava anche delle scadenze per il pareggio: Susan Ward e Brian Whipp dell’università della California nel 1992 dalle pagine della rivista Nature, «favoleggiavano » della scomparsa del gender gap, ovvero dell’inferiorità sportiva femminile, prevista per il 2050. Sogni. Tutto fasullo, ahimé; a quelle atlete tedesche e russe di femminile era rimasto ben poco, gonfiate com’erano di anabolizzanti, farmaci, ma soprattutto di testosterone (con la caduta del regime sovietico queste prodigiose performance scomparvero velocemente). In realtà le donne nello sport – unica eccezione, la maratona – sono arrivate ad un plateau di capacità atletiche che corrisponde al 90 per cento circa di quelle maschili. E da lì non si spostano da oltre dieci anni. Il testosterone sembra essere l’ormone chiave – su questo gli scienziati sono concordi – della migliore prestazione atletica maschile; rappresenterebbe la risorsa di cui le donne non disporranno mai se non in quantità minime fisiologiche (almeno, se tali vogliono restare) ma che fa la differenza nello sport. Questa sorta di doping naturale, o farmaco endogeno come lo chiama qualcuno, potenzia la forza muscolare e la capacità dell’organismo di trasportare l’ossigeno. Un uomo giovane ha una capacità di trasportare l’ossigeno e di utilizzarlo (detta V02 max), di circa 3 litri e mezzo per minuto, la donna non riesce ad andare oltre i 2 litri al minuto. Che cosa c’entra il testosterone? C’entra eccome visto che stimola una maggiore formazione di globuli rossi: fenomeno che si traduce in un 10 per cento in più di emoglobina, la proteina che all’interno di queste cellule trasporta l’ossigeno. In realtà il privilegio maschile sembrerebbe più complesso, non riconducibile solo a questo: lo ha dimostrato molto bene Kirk Cureton dell’Università della Georgia mettendo a confronto le performance ciclistiche di atleti maschi e femmine dopo aver azzerato le differenze di «ossigenazione» fra i due sessi (agli uomini è stato prelevato sangue fino a pareggiare il contenuto di emoglobina). Cureton ha scoperto così che il «salasso » fa diminuire, ma non azzera, la superiorità sportiva dell’uomo. Ci devono essere altre ragioni che rendono il maschio più atletico, ma quali? La spiegazione può essere che in rapporto al peso corporeo, l’uomo ha un cuore più grande (per pompare la stessa quantità di sangue la donna deve fare una faticaccia) e una maggiore massa muscolare. Ecco perché il gender gap non si può annullare, anzi, forse è destinato ad aumentare. Stando ai calcoli di Stephen Seiler dell’Istituto di medicina dello sport dell’Agder College di Kristiansand, in Norvegia, realizzati per la rivista Science, il gap uomo-donna nei record sportivi oggi è dell’11,01 per cento mentre nel 1989 era del 10,4. Prendendo in considerazione le dieci principali specialità della corsa, dai cento metri ai diecimila, per ben sette di queste i record attuali dimostrerebbero che la forbice uomo-donna sta aumentando. Unica eccezione la maratona, dove le donne fanno sempre meglio. Lo sa bene Paula Radcliffe, l’atleta inglese ancora in forse per Pechino a causa di una brutta frattura del femore che detiene il record del mondo (2.15’25"), conquistato alla maratona di Londra nel 2003. Franca Porciani Come capire quando fermarsi L’esercizio fisico aiuta a prevenire e a curare il diabete, il colesterolo alto e la pressione alta, determinando anche una riduzione del peso e del grasso corporei, in particolare della circonferenza addominale, con un aumento dei livelli di colesterolo Hdl (quello «buono»). Il problema è come ottenere questi benefici senza un parallelo aumento dei rischi, muscolari, ortopedici o cardiaci, che una attività fisica intensa non controllata può comportare in soggetti non allenati. Molti ricorderanno, a questo proposito, che l’«inventore » del jogging morì improvvisamente proprio mentre correva! Occorre definire insieme al proprio medico quando, come e fino a che livello si può fare sport, in base alle caratteristiche di chi lo pratica, all’età e al grado di allenamento. In relazione a «quanto» sport fare, in genere vengono raccomandate due modalità alternative di esercizio fisico, in funzione anche dell’età e dello stato di salute generale. Si può praticare una attività fisica lieve-moderata per almeno 60 minuti al giorno, caratterizzata da un significativo anche se non intenso consumo energetico, come camminare di buon passo, salire a piedi le scale, andare in bicicletta senza forzare, fare giardinaggio, fare piccoli lavori di manutenzione della casa. Oppure si possono eseguire esercizi più intensi per circa 30 minuti, preferibilmente tutti i giorni, come jogging, bicicletta con pedalata vivace, nuoto, danza, ginnastica o sci. In ogni caso è molto importante che l’attività fisica non sia saltuaria, ma sia fatta con regolarità, diventando una buona abitudine quotidiana programmata in agenda insieme agli altri impegni giornalieri. Per quanto riguarda il «come » fare attività fisica, il suggerimento è quello di praticare soprattutto attività aerobica, con l’aggiunta di leggeri esercizi di resistenza per tonificare i muscoli, precedendo ogni sessione con alcuni minuti di riscaldamento a bassa intensità, per facilitare la circolazione. Per capire poi come calibrare la nostra attività fisica e quando fermarci, non dobbiamo basarci solo sulla sensazione di fatica, che è un parametro soggettivo poco affidabile. Dobbiamo utilizzare un parametro più obiettivo e facile da misurare, che indichi la giusta intensità dello sforzo da fare, come la frequenza cardiaca. Per ogni soggetto esiste una frequenza cardiaca massimale da raggiungere durante attività fisica che può essere calcolata con una semplice formula aritmetica (220 battiti/minuto meno il valore dell’età per gli uomini, 200 meno l’età per le donne). tuttavia più corretto verificarla con un test da sforzo massimale effettuato sotto controllo medico e con registrazione continua dell’elettrocardiogramma. In assenza di problemi, i benefici dell’allenamento fisico, in caso di programmi «intensi», si possono ottenere raggiungendo durante esercizio il 70-85 per cento di tale frequenza massimale. Anche chi ha avuto un infarto o ha subito un intervento di by-pass o di angioplastica può trarre vantaggi dall’esercizio fisico, seguendo programmi di riabilitazione cardiologica basati su esercizi opportunamente calibrati presso centri specializzati. Gianfranco Parati direttore Divisione di cardiologia IRCCS Istituto Auxologico Italiano, Milano