Corriere della Sera 6 luglio 2008, Claudio Magris, 6 luglio 2008
GLI DEI E IL DENARO NELL’INDIA METICCIA
Corriere della Sera 6 luglio 2008
1. A dispetto degli dèi: così il titolo del libro di Edward Luce, giornalista del Financial Times, spiega – come dice la sua seconda parte – l’inaspettata
ascesa dell’India moderna. Il grande balzo della sua economia negli ultimi anni sarebbe avvenuto nonostante una tradizione religiosa e culturale avversa alla modernizzazione. Certo molte cose sono incredibilmente cambiate.
Sono cambiate da quando, in un racconto di Kipling, un indiano avvocato nella City londinese diceva a un collega inglese: «Lei ha paura della morte, mentre io non ne ho alcuna. Ma io ho paura di poter essere preso a calci e Lei certamente no». Oggi è difficile pensare che Azim Premji, con i 65.000 dipendenti della sua Wipro, oppure Ratan Tata, che sta lanciando la sua nuova utilitaria, la One Lakh Car, possano temere di essere presi a calci da qualche cittadino britannico. Sono loro semmai i tycoon all’attacco.
Ma è proprio certo che tutto ciò avvenga a dispetto degli dèi? Una mistica che, sin dalla
Bhagavad Gita, libera dalla paura di dare e ricevere la morte, conferisce una forza che si può riversare in molte direzioni, anche in quelle più mondane e secolarizzate. Il ruolo delle religioni – anche nell’economia, come ben sapeva Max Weber – è complesso, contraddittorio e talora sconcertante; senza la capretta che nutriva Gandhi col suo latte, non ci sarebbero forse oggi le operazioni di Tata Steel o di Mittal nel settore dell’acciaio, né 1.300.000 ingegneri informatici che dalla regione di Bangalore diffondono nel mondo il primato digitale indiano o la gigantesca modernità metropolitana e malavitosa dei romanzi di Chandra o di Metha.
D’altronde quest’India tumultuosamente capitalista non ha certo superato l’«India Nera» – così la definisce Flavia Arzeni – che negli anni Ottanta riempiva di furore Günter Grass alla vista della sua estrema, abietta miseria, in cui egli vedeva una prova generale della distruzione dell’umanità e che egli imputava essenzialmente al capitalismo selvaggio, cui pure si deve quella «inaspettata ascesa dell’India» e lo scenario sempre drammatico, ma ora un po’ meno tragico di quella miseria.
2. Inaspettata ascesa di chi? Un ingegnere informatico, che è pure un ricco industriale e uno degli sponsor dell’incontro letterario a New Delhi cui mi trovo a partecipare, mi dice che un venti per cento degli indiani vive bene, un trenta vivacchia – verbo che probabilmente non designa la medesima qualità di vita in India e in Italia – e un cinquanta affonda nella miseria. lecito dire che «l’India» ha fatto quel balzo? giusto identificarla con quel venti per cento? Anche nel paese più miserabile c’è sempre qualche gruppo (classe sociale, dirigenti di partito, narcotrafficanti) che sta bene, ma non consideravamo prospera l’Albania comunista solo perché i boiardi di partito se la spassavano. La diseguaglianza è una mina accesa e tutto dipenderà dalla capacità del capitalismo indiano di svilupparsi allargando la sfera di chi vi partecipa più velocemente dell’incremento demografico, che vede la popolazione indiana crescere in misura vertiginosa, astronomica per le misure europee, come i numeri della cronologia indù o del suo Pantheon di dèi che affascinavano Borges.
3. Anche gli dèi cambiano, si susseguono nella ruota della vita, dice nel suo romanzo
New Life Sharmistha Mohanty, autrice emergente che ha organizzato il vivace, creativo incontro di scrittori a New Delhi. Nel suo intenso e poetico romanzo, la protagonista, Anjali, vive (sentimentalmente, culturalmente, emotivamente) fra due mondi, quello indiano – a sua volta composito, indù e musulmano – e quello anglosassone, in un percorso che riprende originalmente il tema del viaggio, materiale e interiore; viaggio nella vita, nelle passioni, nei contraddittori affetti famigliari (splendido il rapporto con il padre). Il «doppio sguardo» – della scrittrice come della sua eroina – nasce dalla plurale identità indiana; il romanzo è scritto in inglese, lingua di una dominazione coloniale e dunque di violenza divenuta pure un collante, una garanzia di comunicazione (uno degli scrittori presenti mi dice che senza l’inglese non potrebbe parlare con sua moglie, perché lei ignora il maharatto e lui il tamil) e lievito di sperimentazione letteraria.
Lingua in cui scrive la maggior parte degli autori indiani (anche se molti scrivono pure nella lingua indiana del gruppo cui appartengono, in uno stimolante autoscambio espressivo), il loro inglese è una «lingua mista, reinventata», come scrive un grande conoscitore di quella letteratura, Claudio Gorlier, il quale ricorda come Rushdie o Rao sottolineino la positiva impossibilità di scrivere «come gli inglesi». Questa duplice identità, egli aggiunge, emerge anche nell’autobiografia di Nehru. Un’ottica doppia in cui, diversamente che in passato, spesso è l’Inghilterra ad apparire esotica, come nelle Linee d’ombra di Amitav Ghosh. Nel romanzo di Sharmistha Mohanty, la protagonista, radicata nel mondo e nella lingua inglese, dice tuttavia che non le è possibile pensare in inglese a sua nonna.
L’India è un laboratorio di quell’incrociarsi, scontrarsi e mescolarsi di culture che sta sempre più caratterizzando, in bene e in male, il mondo intero, cancellando frontiere e creandone altre. Le caste – qui sempre forti, come si vede pure nelle inserzioni matrimoniali sui giornali – si ricreano, in altre forme, nelle nuove società multietniche sempre più sparse nel mondo.
4. Sedici ore di treno, ritardi inclusi, per arrivare a Varanasi, Benares, attraversano un’India in cui si vede poco di quell’inaspettata ascesa. Le strade della città sacra sono intasate da innumerevoli macchine, carrozzelle, gente, miti bufali e mucche dappertutto, che tuffano il muso nella verdura e nella frutta esposte sulle bancarelle, bambini che sanno appena camminare sgambettanti nei liquami, fra botteghe che talora sono anche casa, cucina, giaciglio, stalla. L’odore aspro di uomo e di animale, sudore, cibi che arrostiscono e frutta che si guasta, sterco di mucca impastato di fango e di polvere, è l’odore della vita, impura, calda e accogliente. I bufali dagli occhi buoni sono come divinità domestiche; per la prima volta, guardandoli, capisco la famosa poesia di Carducci «T’amo, o pio bove». Nonostante splendidi templi e paesaggi, non è la vista, il senso nobile della tradizione occidentale, che permette di accostarsi a questo mondo, ma sono piuttosto i sensi che Aristotele considerava bassi, l’odorato, il tatto, un sapore acre e piccante in bocca. Pasolini intitola genialmente il suo libro L’odore dell’India.
I defunti che ardono in riva al Gange su modeste fascine infondono una pietas non certo meno dei nostri funerali, così spesso simili a compunti cocktail. Sconcertano di più i risaputi tuffi nel sacro fiume, in cui – a parte la polluzione chimica – si vede concretamente cosa riversano di continuo gli scoli delle case e in cui il barbiere seduto all’aperto risciacqua il rasoio dopo la rasatura. La visita improvvisa del presidente del Consiglio, Singh, cancella un appuntamento col responsabile della depurazione del Gange, un ingegnere laureato a Oxford
che è pure un sacerdote induista, al quale – in questa sua duplice veste – avrei voluto porre qualche domanda su queste immersioni in liquami inequivocabili.
Intorno a noi alcune facce di occidentali mascherati da aspiranti santoni mostrano la scipita convinzione che la vita vera sia solo quella lontana dalle proprie latitudini e abitudini. L’India – la Grecia dell’Asia, scriveva Fosco Maraini – è una delle più grandi civiltà del mondo, il Ramayana e il
Mahabharata, fondano l’umanità non meno dei poemi omerici e le sue religioni possono offrire universali vie di salvezza ad ognuno, purché chi si avvicina loro provenendo da un’altra cultura non si illuda di farle proprie o di scimmiottarle facilmente, come fanno troppi occidentali dilettanti dell’Assoluto.
5. L’epica quale favoloso tappeto che intreccia i più disparati destini e il romanzo contemporaneo quale innovazione, deformazione e dissoluzione di strutture narrative si fondono nel The Trotter Nama di Allan Sealey, vastissima e aggrovigliata narrazione che mescola, cita, falsifica e reinventa testi classici indiani e persiani delle più diverse epoche, dal Libro dei re di Firdusi all’epopea di Akbar, all’autobiografia del fondatore della dinastia Moghul a poeti mistici, libri di ricette, inserzioni pubblicitarie di giornali, alterando la cronologia e inserendo perfino l’indice nel racconto. Il protagonista e voce narrante è un gaudente e scialacquatore pittore di miniature, grande genere figurativo dell’arte indiana, che in realtà è un falsario, il quale imita goffamente le incantevoli miniature, spacciandole per vere e deformando le stesse vicende che narra. La proliferante saga è una parodia dell’Uno-Tutto della mistica indiana, una parodia in cui c’è molto amore per questa totalità divina e buffonesca della vita. Anche nei due intensi racconti lunghi di Sharmistha Mohanty,
Rashid e The Traveller, l’esistenza è un viaggio nei tempi diversi del mondo e del profondo.
6. Al Vishwanath Temple di Varanasi, dedicato a Shiva, c’è una grande cerimonia religiosa. Lo si raggiunge camminando a piedi nudi, come è prescritto, che affondano nei rivoli fangosi, attraverso strette vie sorvegliate dai soldati, che mi fermano, perché a chi non è hindu è vietato entrare nel tempio, ma, dopo una mia vaga dichiarazione di disponibilità a una eventuale conversione, mi lasciano passare. L’atrio è silenzioso, qualche scimmia salta tra le colonne, ma l’interno è una ressa indescrivibile, bisogna ripetere invocazioni al dio e toccare devotamente i suoi piedi e il suo grande fallo, gettare fiori nell’acqua, sborsare rupie.
difficile, in questo brulichio, pensare al Rigveda e alla Pianista, ai testi della mistica indiana – una delle più rigorose ed essenziali di ogni tempo – che Biagio Marin mi leggeva ad alta voce davanti al suo mare di Grado. Ma anche la richiesta di estrarre il cuore dal cadavere di Giovanni Paolo II, avanzata di recente da un alto prelato polacco, è alquanto lontana dalla semplicità evangelica. Qui non sembra regnare Brahma, l’Uno, ma Shiva, dio multiforme del sesso e della distruzione, come nelle mirabili caverne nell’Elephanta Island dinanzi a Mumbai, in cui mostra una inquietante serenità. Shiva, d’altra parte, dà il nome pure a un partito ultranazionalista e fondamentalista indù.
Gli innumerevoli dèi e le loro innumerevoli forme sono gli infiniti e cangianti volti della vita, della sua molteplicità non annullata nell’Uno; se ai nostri occhi la cerimonia sembra un carnevale dissacrante, forse è perché ogni rappresentazione dell’irrappresentabile Assoluto è sempre profanatrice, adeguata alla nostra esistenza sempre profana. Certo, a Sarnath, la località a una decina di chilometri in cui si dice Buddha abbia pronunciato il Sermone di Benares sul dolore, la sensazione è ben diversa. Qui – o nel luogo cui questo rimanda – è avvenuto qualcosa di fondamentale nella storia del mondo, come nel Sermone della Montagna di Gesù; qualcosa che riguarda tutti e per sempre. Ma è bene seguire il consiglio del Dalai Lama, che esorta a non convertirsi alla sua religione; per accostarsi alla sapienza indiana è meglio leggere l’omonimo libro di Piero Martinetti, professore di filosofia all’università di Torino che rifiuta il giuramento fascista, piuttosto che tanti pittoreschi orecchianti.
7. Alle discussioni di New Delhi scopro autori finora sconosciuti, come Udayan Vajpeyi, Vevek Narayanan o Nabaneeta Dev Sen, che parla di ciò che nella poesia deve restare non detto; autori che scrivono in inglese e in differenti lingue indiane. Oltre a me e all’americano- ungherese George Szirtes, l’altro non indiano è Bei Dao, notevolissimo poeta cinese, tradotto in italiano da Claudia Pozzana (Speranza fredda, Einaudi). Riservato, affabile, il più educato di tutti noi, quasi all’antica nella sua attenzione a cedere il passo o ad offrire la sedia alle signore, si rivela presto un compagno affettuoso e ironico, col quale ci si intende subito, ci si incontra nella risata e si diventa realmente amici, come se si fosse stati insieme a scuola.
Bei Dao è un dissidente, che ha duramente patito la repressione comunista e l’esilio, in Europa e negli Stati Uniti, ma non fa il dissidente. Parla del suo Paese e del suo regime con equilibrio e magnanimità, senza alcuna acredine ideologica. A differenza di altri dissidenti, è rimasto legato alla Cina (è andato da poco a vivere a Hong Kong) e non si lascia strumentalizzare politicamente da nessuno. Questo gli ha permesso di scrivere non di cose cinesi per i non-cinesi, come succede spesso agli esuli, bensì splendide poesie in cinese, che parlano a tutti.
8. La letteratura continua sempre più a fare dell’India un paesaggio per eccellenza dell’universale identità plurima e meticcia; scrittrici e scrittori indiani, anglo-indiani o indiano- americani, dei più diversi Stati dell’Indostan, del Pakistan, del Bangladesh, rimasti in patria o trapiantati altrove, riempiono le cronache letterarie. Ma la Suprema Corte ha dovuto dichiarare esplicitamente che ogni indiano ha diritto di abitare dove crede, in qualsiasi Stato dell’India. Evidentemente la febbre identitaria, il micronazionalismo locale, è all’opera. L’ossessione della (inesistente) purezza etnica e religiosa è una tenia che cresce e si gonfia, divorando il corpo che la ospita.
9. Frotte di mendicanti, soprattutto a Varanasi; l’imbarazzo che ogni mendicante – vero, falso, gigione, tragico, invadente ma, diceva Pirandello, mai banale – incute all’impappinato turista o passante. Qui mendicano bambini che appena si reggono in piedi, vecchi, storpi, mutilati che destano pietà e sospetti di orribili organizzazioni della mutilazione. Una giovane bellissima con un bambino al seno, le gambe e i piedi nudi colore del fango, incrocia per un attimo il mio sguardo, come una delle passanti nelle minicomplicità di un istante di cui cantava Brassens, e mi accorgo, dall’espressione di trionfo dei suoi occhi, che ha capito, con certezza, che le darò l’obolo che mi chiede. Poco dopo, una bambina con un quasi lattante in braccio chiede l’elemosina con il sorriso e la gentile grazia dell’infanzia, ma quando si avvicina un vecchio sciancato con la mano tesa verso di noi, il suo viso si indurisce, gli grida qualcosa e lo allontana con un calcio.
10. I defunti vengono cremati, ma i bambini – e alcuni saggi, scelti secondo non so quale criterio – vengono sepolti. Ignoro se sia un segno di maggiore o minore considerazione. A Mumbai, metropoli proliferante, dietro alcune case scopriamo un vecchio cimitero, in cui sono sepolti alcuni sapienti e alcuni bambini, tornati al grembo della terra. Mi annoto i loro nomi, è forse un modo di pregare. C’è un nome di bambino che mi porto dietro, e anche la sua fotografia pubblicata sul Times of India.
Sanjiv, nove anni, stava tornando a casa in bicicletta nel villaggio natio vicino ad Alipur; qualcuno – una o più persone – lo ha ripetutamente violentato e bruciato vivo. La piccola foto sul giornale ha un’espressione seria e indifesa, il ritratto del deficit universale.
Non so se gli assassini siano stati catturati. Se fossi poliziotto o giudice, naturalmente li tratterei secondo tutte le garanzie della legge e della civiltà, li proteggerei da un linciaggio. Personalmente, auguro loro una fine analoga a quella della loro vittima. Non sarebbe poi un male se l’inferno esistesse davvero.
Claudio Magris