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 2008  luglio 06 Domenica calendario

IL PREMIER E L’OPPOSIZIONE

Corriere della Sera 6 luglio 2008
All’attuale clima da guerra civile ci si potrà sottrarre solo se il Presidente del Consiglio calcolerà bene le proprie mosse. Nei due campi, intrecciati, delle decisioni sulla giustizia e dei rapporti con l’opposizione. Walter Veltroni ha scelto di rischiare grosso rifiutando di partecipare alla manifestazione giustizialista dell’8 luglio. Lo ha fatto per coerenza politica e per sottrarsi all’abbraccio mortale di Di Pietro. Ma i costi saranno alti. La pressione è fortissima. La manifestazione dell’8 luglio avrà Berlusconi come nemico ufficiale e Veltroni come nemico vero. Veltroni è l’unica diga rimasta contro l’integrale radicalizzazione giustizialista dell’opposizione. Berlusconi deve sapere che una sua sconfitta politica non conviene né al Paese né al proprio governo. Veltroni aveva inaugurato uno stile nuovo, aveva scelto di dare al Partito democratico una identità diversa dall’antiberlusconismo e impostato diversamente dal passato i rapporti con il centrodestra. Che cosa ha ricevuto in cambio dal governo fino ad oggi? Solo pacche sulle spalle prima, solo schiaffi e insulti dopo.
Che cosa dovrebbe fare Berlusconi per ridare un po’ di respiro a Veltroni, per restituirgli libertà di manovra contro l’estremismo? Dovrebbe ripensare le sue scelte in materia di giustizia. Dei tre provvedimenti in cantiere uno solo va bene, quello sulle intercettazioni. Lo scandalo autentico è che a questo scandalo, a questa versione casereccia de Le vite degli altri, a questo circo mediatico- giudiziario da Terzo Mondo, non si sia posto fine già da molti anni. Di Pietro promuoverà un referendum? Benissimo. Vedremo come farà la Corte costituzionale a tollerare che si continui, come fin qui si è fatto, a calpestare l’articolo 15 della Costituzione, il quale recita «La libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili».
Gli altri due provvedimenti, invece, anche se per ragioni diverse, non vanno. Non va la norma sospendi-processi. La politica democratica ha certamente il diritto di stabilire le priorità in materia di giustizia. Ma deve seguire la via maestra della revisione costituzionale: abolire l’obbligatorietà dell’azione penale (foglia di fico che nasconde l’assoluta discrezionalità dei pubblici ministeri) lasciando per conseguenza, come si fa in tante democrazie, che sia il Parlamento, su proposta del Guardasigilli, a dettare, di volta in volta, le priorità alla magistratura. Così come è stata proposta, invece, la normativa diventa un provvedimento
ad personam (il che la priva di legittimità morale) e incide malamente sul (già disorganizzatissimo) funzionamento del sistema giudiziario.
Berlusconi ne sembra ora consapevole: la dichiarazione che egli si difenderà nei processi, oltre a rappresentare un gesto distensivo (al pari della decisione di non procedere per decreto sulle intercettazioni) nei confronti dell’opposizione, sembra preludere a un abbandono di quel provvedimento. Come proposto saggiamente dal ministro Calderoli.
Ci sono problemi, pur meno gravi, anche nella normativa volta a porre al riparo dall’azione giudiziaria le quattro più alte cariche dello Stato. Il principio è giusto ma un provvedimento del genere non può essere affidato alla sola legge ordinaria. Servirà comunque una revisione costituzionale.
Ciò che dovrebbe fare Berlusconi è offrire al Partito democratico l’abbandono delle soluzioni abborracciate, ad personam,
in cambio di un vero accordo sulla riforma della giustizia. Da fare, in gran parte, ma non solo, con cambiamenti della Costituzione: scudo per le alte cariche, abolizione dell’obbligatorietà dell’azione penale, separazione delle carriere, e una riforma del Csm che lo sottragga alla lottizzazione correntizia. Ma anche: ridefinizione dei compiti rispettivi dei pubblici ministeri e della polizia nelle inchieste (sembra che il boom delle intercettazioni dipenda anche dal fatto che certi pubblici ministeri, senza di esse, sarebbero incapaci di fare indagini; che nella direzione operativa delle indagini torni dunque a contare un po’ di più la polizia) e una riorganizzazione degli uffici che ponga fine alla piaga della giustizia lenta.
Un accordo con l’opposizione richiederebbe da parte di quest’ultima il riconoscimento della anomalia di un sistema giudiziario fondato sull’unità delle carriere e sull’onnipotenza del pubblico ministero. E una disponibilità a resistere alle pressioni delle lobbies dei magistrati. Per inciso, sarebbe anche utile che i prestigiosi costituzionalisti che, giustamente, si mobilitano quando Berlusconi cerca di forzare la Costituzione, si dimostrassero meno distratti di quanto siano sempre stati quando sono dei pubblici ministeri a mettersi sotto i piedi le garanzie costituzionali.
Un grande progetto di riforma della giustizia, questa volta (a differenza di quanto avvenne con la malfatta riforma Castelli), dovrebbe essere ben congegnato. Andrebbero coinvolti non solo i giuristi ma anche altri esperti di magistratura (ce ne sono di eccellenti). Il progetto sarà a prova di bomba solo se, anziché costruire pasticciate «vie italiane», si ispirerà alle migliori esperienze occidentali.
Se Berlusconi sceglierà questa via allungherà i tempi della riforma della giustizia e dovrà forse affrontare il rischio del processo. Ma avrà ottenuto di svelenire il clima politico e, grazie a un accordo con l’opposizione, da capo del governo o, comunque, da capo della maggioranza (nemmeno un’eventuale condanna potrebbe togliergli quel ruolo), potrà fare una buona riforma della giustizia e rendere un gran servizio al Paese.
L’alternativa è nota. Guerre senza quartiere e logoramento politico, nell’illusione (destinata, ancora una volta, come nella passata legislatura, ad essere frustrata) che affastellando affannosamente leggi ad personam sia possibile porsi definitivamente al riparo dai procedimenti giudiziari.
Angelo Panebianco