La Stampa 3 luglio 2008, PIERANGELO SAPEGNO, 3 luglio 2008
Puerto Escondido diventa thriller. La Stampa 3 luglio 2008 PIERANGELO SAPEGNO PUERTO ESCONDIDO Quello che hanno rapito a Puerto Escondido non è un italiano qualunque, ma uno di quelli uscito dai libri, un omino con i pochi capelli grigi sperduto in uno stazzonato abito di tela cachi, simile a un vecchio soldato reduce da una lunga campagna, passato nella sua vita lontana da un libro di Pino Cacucci a un film di Gabriele Salvatores
Puerto Escondido diventa thriller. La Stampa 3 luglio 2008 PIERANGELO SAPEGNO PUERTO ESCONDIDO Quello che hanno rapito a Puerto Escondido non è un italiano qualunque, ma uno di quelli uscito dai libri, un omino con i pochi capelli grigi sperduto in uno stazzonato abito di tela cachi, simile a un vecchio soldato reduce da una lunga campagna, passato nella sua vita lontana da un libro di Pino Cacucci a un film di Gabriele Salvatores. Era diventato famoso per quello, un po’ leggenda e un po’ verità, figlio di un tempo e di una generazione che cercava anche nei mari del Sud la felicità della vita. E pure adesso il suo sequestro è come lui, un film che diventa vero e i giorni che smarriscono il ritmo lento della finzione. La scelta di vita Claudio Conti ha 52 anni e un locale famoso, il Playa Zicotela, aperto con la sua insegna luccicante nella piazza principale di Puerto Escondido, dove si fermano tutti, prima o poi, a centellinare una birra sbracati su qualche sgabello per togliersi di bocca il sapore della morte. La sera del 3 giugno, verso le 23 e 30, come ha raccontato alla polizia la sua compagna Mireja, 5 uomini erano entrati nel caffé e si erano diretti verso di lui, trascinandolo fuori dal bancone fra urla e minacce, con i clienti che assistevano allibiti senza capire bene che cosa stesse succedendo. Gli avevano dato un colpo in testa con il calcio di una pistola e poi l’avevano caricato su una macchina, che era partita scatarrando malamente, come un ubriaco che rialza la testa per bere l’ultima sorsata di birra. Per quattro giorni di fila i banditi avevano chiamato i familiari chiedendo il riscatto. Poi più nulla. «E’ normale», hanno detto alla polizia. «Fanno sempre così, per spaventare i parenti e ottenere il massimo». Solo che adesso le sue sorelle, Marina e Elena, che vivono a San Michele, in provincia di Verona, cominciano a temere il peggio: «Questo lungo silenzio dei sequestratori ci tormenta non possiamo restare zitti come ci hanno chiesto gli inquirenti». Non è come in un film. Così hanno avvisato i giornali. In Messico, i quotidiani danno solo poche righe ai sequestri. Forse perché da quelle parti i rapimenti sono molto frequenti, come racconta Matteo, il figlio di Claudio, «addirittura, i criminali telefonano alle vittime prescelte e le invitano a pagare per evitare di essere rapite». Era successo anche lui? «No, lui era tranquillo», come assicura Marina, sua sorella. «A Puerto Escondido è benvoluto da tutti. E’ un punto di riferimento. Lo chiamano il sindaco italiano». Poi, lei l’aveva sentito appena due sere prima del sequestro: l’avrebbe saputo se ci fosse stato qualcosa di strano. Claudio Conti, dice, ha pagato l’amore per quella terra, come era capitato ogni tanto a quegli stranieri che andavano in Sardegna e che erano rimasti vittime dell’Anonima. Quando lui c’era arrivato, però, era un’altra cosa questo posto, un borgo di pescatori da tremila anime che si raggiungeva migrando da un’impervia e ascetica mecca a ridosso del sacro monte Wirikuta, dove gli indios Huichol depongono ancora offerte agli dei vendemmiando un potentissimo cactus allucinogeno, il peyote. Adesso Puerto Escondido ha ventimila abitanti e frotte di turisti. Il paradiso ritrovato Lui l’aveva scoperto nel 1982, durante un viaggio con il fratello Fabio. Erano partiti a bordo di una Volkswagen da Austin, Texas, e avevano percorso il Sud degli Stati Uniti, il Nord del Messico, le città coloniali, la costa del Pacifico, quella del Golfo, la penisola dello Yucatan e i tanti resti archeologici fino al Guatemala, nell’America Centrale. Ma al termine di quel lunghissimo viaggio c’era un posto che aveva affascinato Claudio Conti più di tutti, una piccola baia sulla costa di Oaxaca abitata da pescatori, qualche surfista e quasi nessun turista. Sua sorella Marina se lo ricorda bene: «Quando lo trovò mi chiamò e mi disse: ho incontrato il paradiso». Così decise che era il posto migliore per viverci. Quando capitava qualche italiano, lui gli spiegava quella baia, quei silenzi della sera, e quella gente. Aveva aperto un ristorante italiano, la Spaghetti House, sulla spiaggia, che ora che gli anni sono passati si chiamna «Da Claudio». Era tutto così lontano dalle megadiscoteche di Cancun e dai grattacieli con aria condizionata di Acapulco. Conobbe così Pino Cacucci che frequentava gli stessi posti in quegli anni, l’evasione in mari lontani, nelle terre degli ultimi. Diventarono amici. Per questo hanno detto che Claudio Conti avesse in un certo modo ispirato Puerto Escondido, la storia di un impiegato di banca che per sfuggire un assassino finisce in questo borgo abbandonato dal mondo. Gabriele Salvatores ne fece un film famoso, con Diego Abatantuono, e le scene le vennero a girare qui, a casa sua, perché alla fine lo beccarono, anche senza cercarlo, magari che beveva birra con qualche comparsa indios dal volto scolpito dalle rughe, in una sgangherata bettola appena fuori Puerto Escondido, di quelle che si scorgono distrattamente percorrendo la statale 57 tra San Luis Potosi e Saltillo sopra qualche autobus traballante, fra camion carichi di rifiuti e poche macchine, che sfrecciano fra nugole di polvere lungo café luridi, rancheros con baffi, asini e sombrero, fogne aperte, panni stesi e cactus alcaciofas. Da allora altro tempo è passato. I turisti hanno scoperto Puerto Escondido, e l’hanno riempito. Anche Claudio ha aperto un altro ristorante di cucina internazionale, il Bananas, e poi un albergo, l’Hacienda Revolucion, e un altro ancora, l’hotel Vista Hermosa. L’ultimo locale era proprio questo, il Playa Zicotela, dove la sera del 3 giugno hanno fatto irruzione i banditi, venuti qui come in quel film, usciti dal sole dell’estate come da una fantasia di celluloide, per entrare nel buio della sera, nella curva nera della vita che separa la finzione dall’incubo. Stampa Articolo