Guido Santevecchi, Corriere della Sera 3/7/2008, 3 luglio 2008
Il nome ha un che di romantico, perché waterboarding ricorda giochi d’acqua o anche l’asse della lavandaia, quello che le donne di campagna usavano per lavare i panni nel ruscello del villaggio
Il nome ha un che di romantico, perché waterboarding ricorda giochi d’acqua o anche l’asse della lavandaia, quello che le donne di campagna usavano per lavare i panni nel ruscello del villaggio. Ma con la guerra al terrorismo la pratica del waterboarding è diventata sinonimo di interrogatorio brutale: si lega il sospettato a una panca, gli si mette un cappuccio per aumentare la paura e la sensazione di impotenza, gli si versa acqua sulla faccia, nelle narici, in bocca. La vittima crede di annegare, rischia davvero di annegare e cede. Dicono che anche i più feroci uomini di Al Qaeda abbiano parlato dopo meno di venti secondi di «trattamento». L’anno scorso Christopher Hitchens, il giornalista, scrittore e polemista britannico trapiantato negli Stati Uniti, in un articolo cercò di distinguere tra le tecniche di «interrogatorio estremo» per sventare attentati imminenti e di «aperta tortura». I suoi avversari ribatterono che siccome Hitchens sosteneva che gli americani non si abbassano alla tortura dei prigionieri e siccome però è noto che in Iraq, Afghanistan e nei «buchi neri» (i centri di detenzione clandestini) il waterboarding è stato usato, questo metodo orrendo nella sua visione farebbe parte del genere «interrogatorio estremo». Qualcuno, spinto da vis polemica, consigliò a Hitchens di provare. Lo scrittore, che è anche collaboratore del Corriere della Sera, ha accettato la sfida. E sul numero di agosto di Vanity Fair racconta. «Sopra il cappuccio sono stati aggiunti tre strati di stoffa. In questa oscurità che ti prendeva, ho atteso a testa in giù finchè una cascata d’acqua mi è risalita attraverso le narici... ho trattenuto il fiato per un po’, poi ho dovuto esalare e poi inalare. Questo ha fatto incollare il tessuto bagnato alle mie narici... panico... Ho fatto il segnale convenuto per la fine dell’esperimento e ho sentito un incredibile sollievo mentre tornavo in posizione eretta». A questo punto, con onestà intellettuale Hitchens affronta la giustificazione degli esperti di interrogatori nelle forze speciali Usa, secondo i quali il waterboarding «simula la sensazione di affogamento». «In realtà stai affogando, o piuttosto ti stanno annegando», conclude lo scrittore. Il titolo di Vanity Fair all’articolo di Hitchens è «Credetemi, questa è tortura». Il sito online della prestigiosa rivista presenta anche il filmato della prova estrema. Guido Santevecchi